Marco Mamone Capria

 

Sulla “riforma universitaria”, la legge 133/2008

e il movimento di protesta

 

Per un sito come “Materiali per una sociologia dell’università”, occuparsi delle disposizioni relative all’università contenute nella legge n. 133 del 6 agosto 2008 (conversione del decreto-legge n. 112 del 25 giugno 2008) è doveroso. Si potrebbe infatti pensare che gli esempi di corruzione e di abusi qui documentati siano argomenti a favore del taglio dei finanziamenti previsto dalla legge stessa.

Ora, tali esempi provocano indignazione e sconforto in primo luogo tra gli studiosi che nell’università lavorano – gli studiosi veri, cioè, non i burocrati e gl’intriganti a cui l’attuale sistema permette spesso di fingersi tali e di occupare posizioni influenti. E la documentazione di abusi fornita dal sito ha lo scopo di promuovere azioni correttive, sia nel dettaglio che nell’assetto generale che li rende possibili.

L’università ha certamente bisogno di una riforma, che abbia alla base anche un ripensamento della legge n. 509 del 1999 (più nota come “3+2”), i cui risultati confermano largamente, a mio parere, le gravi ma inascoltate obiezioni di alcuni di noi (vedi ad esempio qui e qui). Eppure è ancora diffusa l’opinione, fuori e dentro il mondo universitario, che il solo o il principale problema che lo travaglia sia la mancanza di adeguati finanziamenti. Per quanto detto, tale opinione va respinta decisamente.

Questo non significa che l’accusa di sottofinanziamento sia in sé stessa falsa. Le statistiche dell’OECD rilasciate quest’anno stimano la percentuale del prodotto interno lordo investito nel 2005 dall’Italia in ricerca e sviluppo pari all’1,1%, contro la media europea dell’1,74 %; per esempio, nello stesso anno la Gran Bretagna ha investito l’1,78% e la Francia una percentuale quasi doppia di quella italiana (2,13%). L’obiettivo fissato nel marzo 2002 dal Consiglio europeo per il 2010 era il 3%; va detto che nel 2005 lo raggiungevano, o almeno ci si avvicinavano, solo due paesi europei: Svezia (3,89%) e Finlandia (3,48%), da confrontare con i massimi investitori extraeuropei: Giappone (3,33%), Corea (2,98%) e Stati Uniti (2,62%). È chiaro che l’Italia sta molto al di sotto della media europea e che l’obiettivo di Barcellona per il nostro paese appare, oggi più che mai, utopico. 

Con tutto ciò, dare più denaro pubblico a un sistema corrotto può sì produrre risultati qua e là migliori, ma di sicuro produrrà anche maggiore corruzione. Un sistema corrotto va riformato, prima di accrescere le sue risorse, o per lo meno ogni aumento deve essere corredato da precise indicazioni di spesa che evitino che contribuisca ad alimentare gli abusi. Tuttavia la strategia opposta (quella adottata dal governo), consistente nell’affamare l’università indiscriminatamente nella forma della riduzione progressiva del Fondo Finanziario Ordinario, che calerà di un quarto[1] entro il 2012 – cioè la strategia di punire allo stesso modo chi ha fatto uso giudizioso delle risorse pubbliche e chi no, è insensata, a meno che l’obiettivo sia diverso da quello di colpire la cattiva gestione dei finanziamenti. E che l’obiettivo sia un altro non si fa molta fatica a scoprirlo.

Beninteso, che la gestione finanziaria delle università lasci in qualche sede molto a desiderare non lo nega nessuno. Per esempio sembra che l’università di Siena si sia indebitata per 145 milioni e dal 2004 non paghi le tasse, ma tra le sue spese si trovava anche l’affitto di «alcune stanze di lusso con affaccio su piazza del Campo» al costo di 150.000 euro all’anno. La stessa fonte riporta i casi di università, come la stessa Siena, Palermo e Messina, in cui il personale amministrativo è addirittura più numeroso di quello docente. È chiaro che questa sproporzione denota un cattivo impiego del denaro pubblico. Ma diciamolo chiaramente: se una sede universitaria ha un bilancio traballante o ha fatto investimenti irragionevoli, la mossa giusta e dovuta da parte dello Stato sarebbe di mandarvi degli ispettori a fare le necessarie verifiche, e prendere provvedimenti contro i responsabili nel caso in cui siano individuate delle colpe. Non è né necessario né sufficiente, per questo, promulgare una legge che penalizzi l’intero sistema universitario!

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È abbastanza divertente vedere quotidiani filogovernativi come il Giornale tirar fuori i trascorsi “baronali” del nuovo rettore della Sapienza di Roma, Luigi Frati, per screditare la sua presa di posizione contro i provvedimenti del governo. Nessuno che abbia a cuore le sorti dell’università può avere altro che disapprovazione verso il fenomeno di potenti figure accademiche che si sono costruite un vero impero grazie al sistema dei concorsi e – occorre dirlo – grazie al servilismo che caratterizza gran parte del personale accademico di ogni grado.[2] Con tutto ciò il rettore della Sapienza ha avuto ragione nel dire che «La proposta del governo è una cretinata». Ed è pretestuoso e gratuito suggerire che gli studenti che in questi giorni contestano il governo stiano difendendo, senza accorgersene, gli interessi della “cupola” universitaria.

Gli studenti hanno invece capito benissimo la sostanza della questione, e cioè che una legge come la 133 è un attacco diretto al loro futuro e al futuro del paese. La cosiddetta “riforma Gelmini”, o meglio, “Tremonti-Gelmini”,[3] non si può dire una cattiva riforma universitaria – perché non è nemmeno una riforma. È un’anticipazione della legge finanziaria, in cui l’università figura come settore della spesa pubblica in una visione dell’economia del paese secondo cui la spesa pubblica è in sé stessa da ridurre, non importa a quale costo per la società.[4] In più, c’è l’idea che lasciando o mettendo in gravi difficoltà economiche le sedi universitarie, si possa favorire il loro abbraccio con finanziatori privati (attraverso la trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato – art. 16 della legge 133), il che rientra nell’ideologia estremista della “destra imprenditoriale” di cui il governo attualmente in carica è interprete. È appena il caso di notare che una sede universitaria messa alle strette sarà tentata di ricorrere a stratagemmi che disonorano gli studi superiori – come la caccia agli iscritti, le lauree telematiche, i percorsi accelerati per alcune categorie, e altre forme di simonia universitaria, oggi in grossa ascesa (vedi ad esempio qui e  qui). Questo per non dire che cosa ne sarebbe della libertà di insegnamento e di ricerca in un’università finanziata in misura sostanziale da imprese private.   

Alla base di questa manovra non c’è insomma un vero e proprio pensiero, giusto o sbagliato, che riguardi specificamente l’università. C’è piuttosto un atteggiamento di indifferenza alla sua specificità – se non per quel tanto di distinzione che si rivela nell’intenzione di comprimerne gli spazi di libertà stringendola nella morsa delle ristrettezze economiche.

Tale intenzione è anche indicata dal fatto che decisioni finanziarie così gravi sono state prese senza una vasta consultazione di chi nell’università opera – docenti, studenti, personale amministrativo –, anzi reagendo alle contestazioni dilagate in tutto il paese con irresponsabili e offensive dichiarazioni di chiusura al dialogo. La Gelmini, ad esempio, alla domanda se i cortei la spaventassero ha risposto il 18 ottobre: «Neanche un poco. Casomai [sono]  più decisa di prima». Non capisco che tipo di rappresentante dei cittadini sia una persona che, davanti alle forti contestazioni di una parte significativa di cittadini (sia quantitativamente che qualitativamente, nonostante i goffi tentativi di minimizzazione), non solo non apre una trattativa, ma anzi si sente rafforzato nelle decisioni prese. Quanto al ministro della Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta – professore ordinario di Economia Politica –, questi ha insultato gli studenti che si sono mobilitati contro i tagli definendoli, il 23 ottobre, «studentelli ignoranti» e «bamboccioni protestatari e ignoranti». L’ostilità all’università come luogo di dibattito pubblico traspare chiaramente in queste citazioni dei due ministri, e si riflette molto male sulla loro idoneità a presiedere i corrispondenti ministeri.

Particolarmente deleterio nella legge 133 è il fortissimo rallentamento del ricambio del personale (denominato senza ragione con una parola inglese, «turnover» all’art. 66, c. 7): verrà coperta una sola nuova assunzione ogni 5 rapporti di lavoro cessati, sempre che non superi il 20% dell’ammontare della riduzione di spesa conseguente alle suddette cessazioni. Parlare di “assunzione” è però ambiguo e va chiarito. L’università italiana comprende tre ruoli stabili: ricercatore, professore associato e professore ordinario. A tutti e tre si accede mediante concorso, ma c’è una grande differenza nel significato individuale e sociale del superamento di questi concorsi. Il nuovo ricercatore è un nuovo membro dell’accademia (e il concorso che ha vinto costituisce da solo una garanzia di assunzione), mentre il nuovo associato e il nuovo ordinario sono, di regola, docenti che già vi lavoravano a pieno titolo, e la cui funzione principale essenzialmente non cambia, anche se guadagnano di più e, paradossalmente, hanno meno tempo da dedicare alla ricerca, a causa delle maggiori responsabilità didattiche e organizzative (e inoltre, per essere ammessi nel nuovo ruolo hanno anche bisogno di una “chiamata” da parte di qualche sede universitaria).

Un concorso perso ad associato o ordinario non è certo una questione di sopravvivenza scientifica per chi già vive e lavora nell’università (anzi, magari è il contrario!). Tuttavia le statistiche del MURST ci mostrano che in 10 anni – dal 1997 al 2007 – i ricercatori sono aumentati del 17%, contro il 20% di crescita percentuale degli associati e nientemeno che il 46% per gli ordinari. Attualmente i ricercatori sono il 38% dell’intero corpo docente di ruolo (nel 1997 erano il 41%), gli associati sono il 30% e gli ordinari il 32% (il totale dei docenti è  di 61.929, con una crescita sul totale del 1997 pari al 26%). Quindi se il passato recente insegna qualcosa, un rallentamento del ricambio danneggerà gli aspiranti ricercatori in misura maggiore di tutti gli altri.

Quanto alla natura dei concorsi universitari, o «valutazioni comparative», per usare il pomposo e inutile termine tecnico, essi sono di fatto, quasi sempre, una cooptazione patteggiata all’interno della commissione (o tramite i suoi membri). Una cooptazione di cui nessuno mai dovrà rispondere – neppure se ad essere cooptato è un candidato manifestamente inadeguato o comunque inferiore ad altri che sono stati esclusi (“trombati” è il gentile termine usato nel gergo accademico). Nel caso dei concorsi ad associato e ordinario si tratta di gare truccate per l’ottenimento di riconoscimenti che, in un sistema sano, non dovrebbero dipendere da una “comparazione”, ma solo da un giudizio di merito (in base a quale logica, infatti, il numero di studiosi a cui riconoscere la “maturità scientifica” dovrebbe, come accade oggi, essere limitato da considerazioni di bilancio?).

È bene precisare che il quasi totale arbitrio che domina sia il reclutamento sia, ancor peggio, la progressione della carriera[5] non richiede, se non occasionalmente, violazioni della normativa vigente (che pure non sono mancate): in altre parole, una commissione di concorso può fare legalmente quasi qualsiasi cosa. Il famoso germanista Cesare Cases mise alla berlina la “logica” concorsuale in un racconto del 1977 intitolato “Un gatto in cattedra”, in cui un “barone” riesce a farsi succedere nella cattedra da lui occupata appunto il proprio gatto – ovviamente nel rispetto di tutte le formalità.

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L’intero feudalesimo accademico necessita quindi di una radicale revisione, e personalmente condivido lo spirito di quella contenuta nella proposta dell’ANDU, largamente ripresa da Rifondazione Comunista. Nei dettagli, non sono d’accordo con queste proposte là dove (per esempio) accettano la sparizione del ruolo di ricercatore (messo in esaurimento dopo il 2013 dalla legge Moratti, la n. 230 del 2005) che credo, invece, debba continuare ad esistere, come ruolo in cui l’impegno didattico e organizzativo sia opzionale. Sono comunque proposte che danno una risposta a problemi veri, e che puntano a una ridefinizione dello stato giuridico dei docenti universitari in una direzione che è quella giusta: la netta distinzione tra reclutamento e avanzamento di carriera.

In realtà nemmeno una divisione formale in “fasce”, con diverse denominazioni, sarebbe indispensabile per creare incentivi (tra cui gli aumenti di stipendio) che premino il merito. Ma a tale scopo la valutazione dell’attività dei docenti universitari dovrebbe essere presa sul serio, senza illudersi di poterla ridurre a somme di numeretti forniti dall’ISI (“Institute for Scientific Information”, l’ente privato che elabora i cosiddetti «indici di impatto»).

Un passo importante sarebbe il cominciare a premiare non solo i risultati ottenuti nella ricerca strettamente disciplinare (in cui il rischio di autoreferenzialità tra gruppi ristretti di specialisti è alto, e talvolta altissimo), ma anche l’impegno interdisciplinare e di diffusione del sapere scientifico (impegno per sua natura ben più aperto al controllo pubblico). Bisogna rendersi conto che la sottovalutazione di questo tipo di impegno è figlia di una posizione ideologica e politica, sul ruolo della scienza e dello scienziato nella società, che ha già fatto troppi danni e che non si può accettare che continui a imperversare indisturbata.

La didattica è un altro nodo fondamentale e collegato al precedente. Di essa in questi giorni di contestazioni si sta parlando troppo poco. Sono già diversi anni che agli studenti si somministrano questionari-pagelle sui corsi che stanno frequentando e i corrispondenti docenti. Ora, i risultati di questa raccolta di giudizi non vengono in nessun modo resi pubblici, ma solo inviati in forma riservata ai singoli docenti. Neppure gli studenti stessi ne vengono informati! È solo grazie a questa “politica”, sprezzante dei diritti degli studenti e indifferente al diverso impegno profuso, e alla diversa abilità dimostrata, dai docenti universitari nella didattica, che nei concorsi universitari la didattica ha sempre figurato come titolo solo in termini quantitativi (a parità di affinità disciplinari). È chiaro che qui c’è spazio per considerevoli miglioramenti, e i tanti che dicono che ci dovremmo ispirare al modello statunitense dovrebbero visitare qualche sito dedicato alla valutazione dei docenti da parte degli studenti – intendo i siti ufficiali (ecco per esempio quello di Harvard).

Tornando alla “riforma Tremonti-Gelmini”, so di far mia una posizione impopolare anche tra chi la respinge, ma per quanto riguarda il ricambio del personale docente troverei non solo tollerabile, ma addirittura opportuno il blocco dei concorsi ad associato o ordinario, in vista di una radicale trasformazione che cancelli una volta per tutte quell’annosa fonte di meritate ironie internazionali che è per l’Italia il sistema dell’“avanzamento di carriera per concorso”. Inoltre, qualora alla divisione in ruoli si sostituisse quella in fasce del ruolo unico del docente universitario, a tali fasce andrebbero corrisposti stipendi secondo una scala meno ripida di quella attuale, la quale attribuisce a un ordinario uno stipendio che, a parità di anzianità, è circa il doppio di quello di un ricercatore. In effetti, del tutto indipendentemente dallo stipendio, l’apprezzamento da parte di colleghi di tutto il mondo comporta, per quegli studiosi che possono vantare una reale distinzione (non quella fittizia dei colpi di mano concorsuali), una serie di ulteriori gratificazioni, anche economiche, che evita loro di sentirsi ingiustamente equiparati a chi è meno meritevole.[6]  

D’altra parte bloccare, o quasi, l’assunzione di nuovi ricercatori (compresa la stabilizzazione dei precari) è un delitto. Cambiare le regole del reclutamento, allo scopo di abbattere il feudalesimo accademico già a questo fondamentale livello, è auspicabile (e il “come” andrebbe discusso in dettaglio). Ma non si può togliere all’università, come istituzione della ricerca e della formazione, la possibilità di rinnovarsi attraverso l’entrata di nuove forze, e non si può togliere ai giovani la possibilità di accedervi godendo di quelle garanzie economiche che permettono di vivere una vita non dico agiata, ma almeno normale. Sottrarre all’università le risorse necessarie a soddisfare questa esigenza di rinnovamento, così cruciale per tutto il paese, significa semplicemente impedirle di svolgere le sue funzioni in maniera adeguata.

Ferma restando, quindi, l’esigenza di una vera riforma universitaria, al momento attuale si deve resistere con decisione al tentativo di eludere i veri nodi del problema università con un progetto di invasione di interessi privati nella ricerca e nella formazione, e di traumatica e nefasta chiusura dei cancelli dell’accademia alle nuove generazioni di studiosi.  

 

 

Inserito: 28 ottobre 2008

Materiali per una sociologia dell’università

www.dipmat.unipg.it/~mamone/univ

 

 


 



[1] Riduzione «di 63,5 milioni di euro per l'anno 2009, di 190 milioni di euro per l'anno 2010, di 316 milioni di euro per l'anno 2011, di 417 milioni di euro per l'anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall'anno 2013», art. 66 c. 13.

[2] Vedi il profilo di Frati pubblicato dall’Espresso nel gennaio 2007, ottimo anche per capire più in generale le logiche della politica e della ricerca universitarie, in particolare nelle Facoltà di Medicina; sul nepotismo universitario, nelle sue diverse versioni, vedi anche il recente intervento dell’Associazione Nazionale Docenti Universitari, ANDU.

[3] Mariastella Gelmini (un’avvocatessa trentacinquenne) è ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca scientifica, mentre  Giulio Tremonti è il ministro dell’Economia e delle Finanze dell’attuale governo, il 4° presieduto da Silvio Berlusconi.

[4] Leggermente diverso sarebbe il discorso per il decreto-legge 137 del 1o settembre 2008, che, pur dominato nella sostanza da preoccupazioni di ordine economico, compie un futile ed embrionale tentativo di riforma della scuola primaria e secondaria, senza una vera giustificazione e con strumenti inadeguati e controproducenti.

[5] Almeno il concorso per ricercatore prevede prove scritte – e questo potrebbe escludere almeno... i gatti, ma non è sempre detto. Di solito per “dirigere” un concorso per ricercatore si cerca innanzitutto di scoraggiare o impedire, in vari modi, la partecipazione dei candidati più temibili e, là dove non ci si riesce, di dare tracce tutte più o meno tagliate su misura del vincitore predestinato, ed eventualmente fargliele conoscere in anticipo; oppure di introdurre metri di giudizio arbitrari e non preliminarmente dichiarati nella correzione delle prove scritte; o di dare ai vari titoli punteggi fondati su criteri ad hoc; la prova orale può infine essere gestita con totale arbitrio. Nel concorsi ad associato non c’è, appunto, nemmeno l’“impedimento” delle prove scritte, e in quelli ad ordinario nemmeno una prova orale.

[6] Così ha risposto il filosofo Gianni Vattimo alla domanda di quale fosse il suo stipendio al momento di andare in pensione:  «4.100 euro al mese, grazie all'anzianità. E per la stessa ragione spero in una pensione lauta. Ma l'aspetto più bello sono gli inviti, le conferenze, un modo un po' ottocentesco di vivere… A volte si teme di essere un po' ridicoli, come ne Il professore va a congresso di David Lodge, poi però quando arrivi con la tua valigetta negli angoli più sperduti del mondo la gente è contenta e tu anche».