ANALISI
La gerarchia universitaria e l’irrilevanza della
didattica per la carriera (12.II.1994)
Come fare carriera nell’università: istruzioni dagli
U.S.A. (11.XII.1995)
Docenti “ignoranti e corrotti”: sul discorso di Federico
Zeri (13.II.1998)
Insegnamento, cattedratici e “allievi” (2001)
Il docente universitario come persona caratterialmente
debole (2003)
La finzione della valutazione della didattica da parte
degli studenti (4.VI.2004)
Intellettuali universitari (19.XI.2005)
La carriera universitaria è aperta al merito?
(31.III.2006)
Tre opinioni sulle graduatorie delle università, ovvero
“le due culture” (settembre 2006)
Gli stipendi degli ordinari (1.XI.2006)
Chi oggi sui giornali propone le soluzioni è in realtà
parte del problema (23.XI.2006)
I giudizi degli studenti sulla didattica devono essere
resi pubblici (30.IX.2006)
Logica del potere e patologie individuali e istituzionali
nell’università italiana (dicembre 2006)
Il sistema universitario in Italia premia gli intriganti,
castiga gli studiosi (11.II.2007)
Nepotismo come mafia (25.I.2008)
Il “3+2” non ha risolto lo pseudoproblema dei
“fuoricorso” (17.III.2008)
210 docenti dell’università di Torino chiedono il ritiro
del disegno di legge Gelmini (7.X.2010)
<<Tutti i vari articoli sui mali dell’università apparsi nelle ultime settimane su Repubblica, a parte quello più sfumato del Ministro Colombo del 18/1, propongono, grosso modo, la stessa terapia: una gerarchizzazione dell’istituzione, demandandone la reggenza ad una ristretta oligarchia. Sembra a tutti sfuggire che proprio questa è già la situazione di fatto, da secoli, ma attuale ancora adesso, nonostante varie leggi abbiano tentato negli anni 70 e 80, di modificare una struttura ritenuta non congrua ad uno stato moderno. A questa struttura fortemente oligarchica spesso danno una mano i burocrati, con interpretazioni quantomeno singolari. Ben vengano i giudizi di merito e quella corrispondenza, auspicata dal Ministro, tra capacità e responsabilità, tra impegno e trattamento economico. Ma chi giudica chi? Nelle società dinamiche, essere giudicante e giudicato sono due facce dello stesso mestiere, mentre in una struttura gerarchica come la nostra, che alcuni vorrebbero addirittura rinforzare, chi arriva a giudicare non viene più sottoposto a giudizio. E, guarda caso, i più convinti assertori della necessità di giudicare (gli altri) appartengono a quella fascia di professori che attualmente è, e forse vorrebbe essere anche in futuro, al di sopra dei giudizi.
Tutti poi dichiarano, a parole, che le prestazioni didattiche vanno incentivate. Non ho però mai visto concretarsi un chiaro impegno per un avanzamento di carriera di chi, pur continuando il suo impegno scientifico, preferisce profondere la parte migliore di sé nell’insegnamento, mentre la legge premia chi ha fatto la scelta opposta. Perché questa dissimmetria? Dedicarsi all’insegnamento oggi, significa lavorare per la gloria, a carriera bloccata.
Sul reclutamento dei docenti si potrebbero scrivere volumi. Ma anche il Ministro, incredibilmente, confonde gli avanzamenti ope legis con i giudizi di idoneità. I primi non verificano nulla (ma sono solitamente proposti soltanto per categorie di persone che hanno già superato varie verifiche), i secondi garantiscono per l’appunto l’idoneità alla funzione, spesso assai meglio dei mega-concorsi, in cui l’idoneità è a numero chiuso, per cui chi sarebbe anche idoneo ma non vince per l’esiguità del numero dei posti, non ha neppure riconosciuta ufficialmente la sua idoneità.>>
[Prof. Carlo Minnaja, Int. Akademie der Wissenschaften – Padova; la Repubblica, 12 febbraio 1994, Lettere]
<<Prendete un giovane intellettuale creativo ed entusiasta; dategli un posto di lavoro assolutamente sicuro e non troppo oneroso, nessuna restrizione sul tipo di progetti che può perseguire e un contatto costante con centinaia di studenti, a cui è in grado di insegnare quel che vuole. Il risultato è un accademico all’inizio della carriera: da un certo punto di vista, un prezioso investimento fatto dalla società per mantenere aperta la possibilità di rinnovarsi, di sperimentare, di crescere. da un altro punto di vista, una mina vagante, un pericolo da cui proteggersi con estrema cautela. Sfortunatamente per le possibilità di rinnovarsi e crescere (e per i giovani intellettuali creativi ed entusiasti), il secondo punto di vista è di gran lunga il più popolare, a tutte le latitudini di cui sono a conoscenza, ed è foriero di massicce dosi di controllo sulle magnifiche sorti e progressive di aulici studiosi e pensatori.
Siccome il controllo (perlopiù) è di natura non politica ma sociale, le sue forme si adeguano alle generali strategie di socializzazione. In Italia la socializzazione avviene mediante l’inserimento in un clan familiare, con tutti i ricatti economici e sentimentali del caso; dunque non c’è da stupirsi che il meccanismo più comune di reclutamento accademico sia la cooptazione dei propri figli e nipoti intellettuali, quando non direttamente di figli naturali, cugini di vario grado e partner più o meno legittimi. In America invece la socializzazione avviene secondo il modello della piccola comunità di pionieri, sradicati dal loro ambiente originario, concordi nei valori e inclini alla collaborazione e al buon vicinato; dunque ogni università si premura di inserire i candidati in siffatte comunità (dipartimentali) e sottoporli a un (lungo) periodo di apprendistato. L’operazione si svolge in due fasi: sei o sette anni per il dottorato e altrettanti prima di ottenere la mitica tenure (prima di passare in ruolo, diremmo noi). Solo una minima percentuale dei molti aspiranti arriva fino in fondo; gli altri vengono brutalmente fatti fuori. Chi volesse sapere come opera la selezione può documentarsi leggendo The Art and Politics of College Teaching, una guida pratica al successo accademico pubblicata dall’editore Lang (e dedicata alla seconda fase del processo, quella post-dottorato).
L’immagine disegnata da questo libro è di raro squallore. Al giovane Assistant Professor si consiglia di nion prendere posizione, di evitare ogni “causa” a mala pena controversa, di ignorare le divisioni interne del dipartimento e, se proprio è messo alle strette, di far finta di no capire. È importante sembrare un buon insegnante, ma solo sembrarlo perché ad appassionarcisi davvero si finisce per perdere tempo; conviene invece puntare su una combinazione di diplomazia e demagogia che permetta di accontentare gli studenti senza fatica. È anche più importante pubblicare, perché le università costano parecchio e si servono del prestigio dei professori per farsi belle a spese della concorrenza, ma attenzione: non investite energie in un libro prima della tenure, è un progetto che richiede troppo tempo. Molto meglio scrivere brevi saggi per le (mediocri) riviste accademiche, e meglio ancora se con la stessa striminzita idea di saggi se ne scrivono due o tre. La cosa più importante in assoluto, comunque, è andare d’accordo con tutti, perché saranno i colleghi a votare per la tenure: non d’amore e d’accordo (con l’amicizia non si sa mai come va a finire) ma abbastanza d’accordo, quanto basta per non essere percepiti come una minaccia.
Vent’anni di esperienza nel dipartimento di filosofia di un’università americana mi confermano che è tutto vero: che “il sistema” ha trovato anche qui un modo efficace per immunizzarsi contro il rischio di eventuali mine vaganti e trasformare coloro cui conferisce la pericolosa “libertà accademica” in patetici e imbelli capponi. Solo un pensiero mi conforta: che in gran parte quei “fortunati” erano inutili, che il rinnovamento intellettuale è sempre fatto da pochi e che (forse) alcuni pochi sapranno sfuggire alle fitte maglie di questa paranoica, soffocante rete di protezione.>>
[Ermanno Bencivenga: “Il professore non deve pensare”, l’Unità, 11 dicembre 1995]
<<“Senatore, senatore una bella notizia: ho vinto la cattedra di Storia del diritto italiano!”. “Molto bene; così l’imparerete”. Fu questa la raggelante risposta di Benedetto Croce (che fu, non dimentichiamolo, ministro della Pubblica Istruzione nell’ultimo governo Giolitti) a un giulivo neoprofessore universitario. Uno dei tanti professori della cui preparazione Croce dubitava (“Non sono professori, – diceva – ‘fanno’ i professori”). Sessanta anni dopo quella fulminante battuta (si era nel 1928), Federico Zeri ha, con la consueta franchezza e onestà intellettuale, riaperto il problema all’Università di Bologna, ricevendo la laurea ad honorem. La numerosa folla che ha ascoltato la lucida analisi di Zeri intorno ai valori e alle straordinarie potenzialità culturali e formative dell’Università, ha applaudito quando il neo-laureato ha detto la verità sui docenti “ignoranti e corrotti”, sulla gestione mafiosa dei concorsi universitari, sullo sprezzante disinteresse nei confronti di coloro, senza i quali l’università non avrebbe ragione di esistere: gli studenti.
I giornali hanno riportato brevemente, tra lo stupito e il divertito, il discorso di Zeri e i telegiornali (che hanno sprecato in questi giorni centinaia di ore sul bimbo nato senza cervello; e ancora non è finita) non se ne sono neanche accorti. Come se i problemi dell’università non siano il presente e il destino culturale dell’Italia. E invece il discorso di Zeri ha colto nel segno, e non è certo una risposta adeguata quella del ministro della Pubblica Istruzione (e dell’università) che siede ora nella poltrona che fu di Croce. “L’università italiana – ha replicato Luigi Berlinguer – è certamente migliore di quella disegnata da Zeri”. Infatti; basta però conoscere il rapporto esistente tra la parte migliore e la peggiore; sapere cioè se sia prevalente la prima o la seconda. Comunque Zeri ha detto la verità; quella verità che chi, con responsabilità e dignità del ruolo, è nella parte ‘migliore’ conosce bene, e da lungo tempo. Ecco quindi l’applauso liberatorio, e inedito, echeggiato tra le volte dell’aula magna dell’Ateneo di Bologna. Zeri ha suggerito la riforma morale e intellettuale dell’università cominciando dall’accertamento periodico del ‘merito’ di coloro che vi insegnano. Cosa c’è di strano, di divertente, di paradossale in questo suggerimento? Grandi e importanti università del mondo si comportano esattamente così. Zeri ha aggiunto che questa selezione del merito l’hanno sempre fatta e continuano a farla gli studenti. I quali hanno il fiuto, l’intelligenza di sapere da quali professori imparano e da quali (e quanti) non imparano nulla. Berlinguer ha commentato, in proposito, che con la nuova autonomia universitaria gli studenti daranno un giudizio sui loro professori. Ma questo, caro ministro, avviene già. La questione posta da Zeri è se il governo e l’amministrazione dell’Università saranno nelle condizioni istituzionali e formali di operare la selezione e l’accertamento dei meriti e della produttività scientifica e didattica dei docenti. Questo è il punto. Intanto non può passare come un episodio buffo il discorso di Zer. Né è accettabile il giudizio di uno dei presenti alla cerimonia di Bologna, Umberto Eco. Il quale, come spesso gli accade, ha buttato sullo scherzo una cosa seria, per poi attribuire alla “nota perfidia” di Zeri la sua giusta critica della ragione pratica universitaria, invitandolo a continuare ad essere un benemerito studioso d’arte e a non occuparsi di fatti che non lo riguardano. Perfidia significa, secondo il dizionario, “malvagità subdola e crudele”.
Se si è perfidi nell’immaginare e desiderare un’università meglio organizzata e capace veramente di preparare i giovani allo studio e alla ricerca, allora la malvagità è, come nel Satana carducciano, una “forza vindice della Ragione”. Comunque, si cominci a discutere veramente dell’autonomia universitaria. Non si tratta solo di risorse finanziarie e di servizi migliorati, ma di idee, di ideali e non di spiritose invenzioni.>>
[Lucio Villari: “Università senza idee”, la Repubblica, 13 febbraio 1998. La cerimonia e il discorso di Zeri si trovano, in formato video mpeg, in http://www.almanews.unibo.it/97_98/Html/Zeri.htm ]
<<Nessuno è più docente di chi scrive per trasmettere e divulgare cultura. L’insegnamento è un’attitudine connaturata e, sul piano morale, una attività altruistica, un atto d’amore. Perciò è un atto d’amore anche quel tipo di insegnamento che si esprime con la parola scritta. Ma queste considerazioni idealistiche hanno uno scarso riscontro nella nostra realtà sociale, nella quale l’insegnamento viene considerato un atto burocratico, subordinato ad una carriera: per l’accademismo imperante è docente colui che giunge in possesso di certi diplomi, autorizzazioni, idoneità. Questa concezione restrittiva ha limitato il numero degli insegnanti creando la figura del cattedratico, posto al vertice di una piramide fatta principalmente di interessi e connivenze mafiose.
Il cattedratico è potente prima
di tutto perché fa parte di un gruppo ristretto di individui; poi perché ha il
compito di giudicare in esami e concorsi, e con ciò ha in mano importanti posti
di lavoro da distribuire a propria discrezione. Così si crea intorno a lui un
clan. E ognuno si vanta di dichiararsi allievo dell’esimio Maestro ignorando,
forse in buona fede, di essere in realtà un picciotto di un pezzo da novanta in
un tipo di mafia più spregevole di quella della lupara la quale, almeno, ogni
tanto ha da fare i conti con i carabinieri.>>
[Pietro Croce: Il venerato maestro – Guida al bello scrivere scientifico e non, Vicenza, Haudenschild 2001, p. 67. Il prof. Croce, scomparso in questi giorni, è l’autore di Vivisezione o scienza (1981; Calderini, Bologna, 2000), un libro che sarà ancora letto e ammirato quando degli attuali “esimi Maestri” e dei loro “picciotti” si sarà perso ogni ricordo. (19.X.2006)]
<<Professore: eddeché? Purtroppo per noi, di medicina. E'
questa la preoccupante conclusione alla quale spinge la testimonianza,
ferocemente antiaccademica, di Eugenio Picano, medico, cardiologo, ricercatore
a Pisa, presso l'Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle
Ricerche. Picano è l'autore di un libricino al vetriolo intitolato La dura vita del beato porco (Il
Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2002, 138 pagine, € 9,00). Dove per
"beato porco" si intende l'intellettuale di professione, in
particolare il medico asceso alla gloria dell'Accademia. E le Accademie, come
amava ricordare Federico Zeri, "sono covi di coglioni". Anche quelle
deputate alla nostra salute. Su questo punto Picano non lascia adito a dubbi.
Prendiamo ad esempio il capitolo dedicato alle riviste scientifiche.
“Il giovane studente
le legge perché glielo ha ordinato il
ricercatore con cui deve fare la tesi di laurea.
Il medico assunto
legge le riviste scientifiche perché
le trova insostituibili per facilitargli l'addormentamento nelle notti di
guardia.
L'aiuto primario
legge perché il concorso per diventare
primario è vicino, e lui deve ristudiarsi tanti argomenti che aveva, come dire,
un po' tralasciato negli ultimi vent'anni.
Il primario ogni tanto sfoglia, poco prima del turno in
corsia, la rivista appena arrivata e poi subito la ripone, definitivamente,
nella bella libreria dello studio.
Il caso più grave è quello del capo di Dipartimento o preside
di Facoltà, o capo di Istituto,
o rettore, il quale passa la sua giornata tra una
riunione e l'altra, e, quando inciampa in una rivista, o fa finta di leggerla
in una pausa delle riunioni per darsi un tono, o si limita a guardare le
figure. Egli, infatti, non sa leggere (altrimenti non avrebbe fatto carriera),
o, se pure un tempo sapeva leggere, l'ha ormai dimenticato da un pezzo.”
Ma come, obietterà l'ingenuo paziente, il mio "prof." non ha vinto un regolare concorso? Ebbene sì. "I meccanismi concorsuali - riconosce Picano - sono governati da regole ferree ed ipergarantiste, con tanto di estrazione a sorte dei commissari, presenza di rappresentanti sindacali, congrua numerosità della commissione". "La rigidità di tali procedure - aggiunge tuttavia il ricercatore del CNR - è però temperata dalla generale inosservanza".
Le cose, a quanto pare,
vanno così: “La meccanica dell'imbroglio - dice Picano - è di solito molto semplice, e poggia essenzialmente su un sistema
omertoso: nel momento in cui si entra in una commissione, si accetta il
principio di non vedere, non sentire, non parlare. Decide il capo della
commissione, e gli altri dovranno fare da ‘yesmen’: sarà quindi lui a portare
le tracce dei temi il giorno dell'esame (e certo solo i candidati di regime le
avranno sapute in anticipo)...". Quanto alle prove orali, queste
"dovranno comunque rispettare l'alchimia dei voti precedentemente
formulata a tavolino.”
Come uno Zorro armato di penna - e non senza indulgere, talvolta, a un certo spirito goliardico - Picano segue tutto il cammino dei giovani ricercatori nell'Accademia medica nazionale, dalla produzione di lettera scientifica ai congressi, dalla carezza del Maestro all'attività di laboratorio.
“Molto spesso la qualità
della ricerca la determina l'accesso ai fondi - e quindi a tecnologie complesse.
Avete bisogno di topi per i vostri studi? Basta pagare e ve li mandane in belle
scatole colorate, pulite e inodori - con caratteristiche genetiche uniformi,
costanti e conosciute. Come si può leggere depliant pubblicitario di uno di
questi topifici (la Camm Bred) "siamo in grado di fornirvi immediatamente
animati di ogni peso, taglia, sesso. Possiamo fornirvi animali già gravidi...”
Ma non tutti possono permettersi il "topo firmato", spiega Picano.
“A Napoli e a Roma le
università comprano anche normali ratti di chiavica. C'è gente che ci campa, i
fornitori più rinomati spuntano anche due euro a topo. Nella patinata rivista
scientifica, il "topo de noantri" – con oscuro albero genealogico,
cresciuto tra le fogne di Trastevere, nutrito di squisiti rifiuti della suburra
romana, catturato con rudimentali trappoloni al caciocavallo – finirà per
diventare un punto su una retta di regressione, esattamente come il topo
firmato, di purissimo pedigree, nutrito con estratti polivitaminici al sapore
di formaggio, accoppiato con zoccole di sangue blu che quella stessa retta di
regressione l'avevano iscritta nel proprio codice genetico.”
A questo punto si potrebbe esigere: fuori i nomi. Ma Picano si defila e sterza sull'autoironia. "Com'è ovvio - dice -, ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale. Il Professore in questione non è identificabile con una o più persone fisiche, ma con una categoria dello spirito. L'Autore - a sua volta Primo Ricercatore del Consiglio Nazionale delle ricerche e Direttore del glorioso laboratorio di Ecocardiografia dell'Istituto di Fisiologia Clinica di Pisa - ritiene, di sé, di avere tutti i requisiti umani, intellettuali e morali del Professore nato". Contento lui…>>
[Enrico Gatta: “Sotto il
camice, niente”, Quotidiano Nazionale –
Nazione – Resto del Carlino, 3 aprile 2002. Eugenio Picano è il ricercatore
di cui si parla sopra.]
<<Sigmund
Freud sosteneva che ogni insegnante è una persona che non è mai riuscita ad
uscire dalla scuola; ci è entrato come alunno, si è trovato bene e non [ha] mai
avuto la forza di entrare nel mondo delle cose reali. Gli insegnanti sarebbero
dunque prescelti tra persone mediamente deboli sotto il profilo caratteriale,
che non sono in grado di staccarsi dalle sicurezze del proprio passato. Secondo
il mio parere [...], invece, i professori universitari sono significativamente
selezionati nell’insieme dei laureati con lode. Se voi cercaste una persona
creativa, non convenzionale, non egocentrica, serena e simpatica, con un
comportamento attento al prossimo, la cerchereste davvero nell’insieme dei
laureati con lode? Le caratteristiche dei professori universitari risentono
delle caratteristiche della base di selezione.>>
[Giulio Tagliavini: Diventare professore universitario, Milano, Alpha Test 2003. L’autore è professore ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari.]
<<Gli studenti daranno le pagelle ai prof. La notizia sembra sensazionale e rivoluzionaria. Roba da far impallidire anche i più accaniti sessantottini, quelli che teorizzavano il 18 politico per tutti.
Ma siamo proprio sicuri dell’assoluta originalità del provvedimento? In realtà atenei come il Politecnico di Milano adottano da 15 anni un questionario di valutazione compilato dagli studenti. E all’Università Bocconi di Milano dal ’90 circolano schede di gradimento affidate agli studenti.
E allora che cosa c’è di nuovo? La vera novità è legata al fatto che, nei progetti del ministro Moratti, alla nuova pagella sarà legata anche una parte dei finanziamenti destinati agli atenei.
In poche parole, le pagelle serviranno alle università per accreditarsi agli occhi del ministero e dimostrare di meritare una percentuale dei finanziamenti pubblici.
A tal proposito però l’Udu (l’Unione degli universitari), una delle più grandi confederazioni nazionali di associazioni accademiche studentesche ha dato il suo parere sulle prossime novità: “La valutazione dell’operato dei docenti da parte degli studenti – fa sapere in un comunicato l’Udu – è già in vigore in virtù della legge 370 del ’99: sarebbe più opportuno legare in qualche modo gli esiti della valutazione alla carriera [e] agli incentivi dei docenti.
Inoltre – continua l’Udu – da anni si lamenta la scarsa efficacia della valutazione già in vigore dal ’99 a causa della mancata pubblicazione dei risultati e dell’impossibilità di dare effetto agli stessi. Però non riteniamo praticabile la proposta del ministro Moratti, poiché se saranno i nuclei di valutazione interni a ogni singolo ateneo, come finora è stato, a rielaborare gli esiti dei questionari di valutazione, non potranno essere autonomi nel proprio compito”.
Dal ministero invece fanno sapere che “i risultati periodici delle rilevazioni offriranno un quadro oggettivo della qualità dei servizi universitari in modo da consentire attraverso misure di sostegno, di incentivazione e di disincentivazione, di adottare concrete iniziative per il governo del sistema universitario.
E intanto da quest’anno tutte le 77 sedi universitarie italiane riceveranno un questionario di quindici voci che già per l’anno accademico 2004-2005 determinerà parte dei finanziamenti agli atenei. Il nuovo sistema prevede infatti che il 30% dei fondi sia assegnato sulla base degli iscritti, esclusi le matricole e i fuori-corso; un altro 30% sarà accreditato in base ai risultati (vedi pagella), ancora un 30% sarà erogato per meriti di ricerca scientifica sul conteggio dei ricercatori attivi e infine il rimanente 10% in base a criteri come la mobilità degli studenti, il sostegno ai disabili e così via.>>
[Isidoro Trovato: “E gli studenti daranno i voti ai professori”, Corriere Università – Corriere della Sera, 4 giugno 2004.]
<<Fino a vent’anni fa il sodalizio tra cultura e politica si esprimeva attraverso il contributo di pensiero che gli intellettuali mettevano a disposizione dei partiti, in termini di analisi, di elaborazione di progetti, di proposte culturali, di formazione dei quadri. [...]
Ma oggi, come osserva Geremicca in una conversazione con Rosario Villari pubblicata nel numero in uscita [di Mezzogiorno Europa], i cosiddetti “intellettuali”(universitari in particolare) e professionisti accorrono sotto le insegne del potente locale di turno e si mettono a suo servizio per trarne incarichi, commissioni, benefici di carriera. Il rapporto tra intellettuali e politica si è modificato. Esso non è più paritario come una volta, ma è di vassallaggio. Un rapporto di sudditanza morale, degradante e umiliante, che, a mio giudizio, rivela la la scadente qualità di una certa intellighenzia ufficiale. [...]
La critica è facile, perché la subalternità degli “intellettuali”alle baronie politiche locali è sotto gli occhi di tutti. Sicché è perfino qualunquista ripetere le solite accuse. È la scoperta dell’acqua calda.
Nessuno ha detto, però, che, a ben vedere, il problema non sta tanto (o soltanto) nella politica o nella classe politica (che fa il proprio gioco), ma soprattutto nello scarso spessore dei cosiddetti “intellettuali ufficiali”. Purtroppo la società italiana (e napoletana in particolare) risente di una mentalità corporativa: si è qualcuno nel campo della cultura solo se si ha una qualifica accademica; la considerazione della gente si ottiene solo se si esibisce la titolarità di una cattedra con tanto di denominazione ufficiale. La figura dell’intellettuale libero, extraccademico e antiaccademico, qui non viene neanche considerata, come, a suo tempo, aveva lamentato anche Croce. Perciò se “intellettuali” sono solo quelli definiti “per tabulas” (cioè per la titolarità legale di una cattedra), il problema si sposta sulla qualità di costoro e sul grado di libertà di cui possono disporre (poca, in verità, perché molti di loro devono la carriera ai legami con la politica e non al merito). E qui casca l’asino (mai modo di dire fu più appropriato). I meccanismi di reclutamento e di selezione del ceto accademico, la prassi della cooptazione familiare e clientelare, le leggi di sanatoria di intere categorie di precari universitari e la loro immissione in ruolo (manco fossero stati dei netturbini da stabilizzare suoi posti di lavoro) hanno provocato la più completa dequalificazione della categoria. Perciò non ci si deve meravigliare, poi, se costoro siano disposti ai compromessi più umilianti con i potenti locali.>>
[Massimo Scalfati: “Intellettuali in soccorso dei vincitori visti da sinistra e da destra”, la Repubblica – Napoli, 19 novembre 2005, pp. i, xv]
<<Candido o del porcile dell'Università italiana, è questo
il titolo del libro fresco di stampa, pubblicato da Limina Edizioni, che
racconta le dis-avventure di un “cervello senza padrino”. L’autore si cela sotto lo pseudonimo di
Ernesto Parlachiaro, è un noto studioso
di filologia e letteratura che ha voluto mettere nero su bianco il suo
controverso rapporto con l’istituzione universitaria italiana.
[...]
Per
quel che può dirmi senza far cadere il suo anonimato, signor Parlachiaro,
potrebbe tracciare brevemente la sua autobiografia?
«Ho cinquant’anni. Insegno lettere nei licei da venticinque. Sono anche
dottore di ricerca ed ho pubblicato, dagli inizi degli anni ottanta ad oggi,
numerosi contributi di filologia e letteratura di riconosciuto valore scientifico
presso riviste e collane di notevole prestigio. Scrivo inoltre testi
scolastici.»
Candido o del porcile
dell'Università italiana è scritto sotto
forma di favola ma sembra nascondere una sorta di racconto autobiografico. Qual
è la sua personale esperienza col mondo accademico?
«Il mio racconto-denuncia, per quanto letterariamente trasfigurato, è
in buona parte autobiografico. La mia (desolante) esperienza del mondo
accademico è cominciata circa 25 anni fa, quando, sotto la guida e
l’incoraggiamento di un professore straordinario ma assai atipico, ho
cominciato a fare ricerca e a pubblicare. Da allora, purtroppo, mentre ho avuto
molti riconoscimenti e recensioni lusinghiere, anche all’estero, del mio cospicuo
lavoro scientifico, tutte le porte di accesso alla docenza universitaria
italiana, anche ai gradini più bassi, mi sono state sbarrate per mancanza di
requisiti “clientelari”. Nella nostra università, infatti, e specialmente nelle
facoltà umanistiche, c’è spazio oggi soltanto per pochissimi super-raccomandati
dei baroni: figli e parenti in primo luogo, e poi qualche portaborse disposto a
rinunciare ad ogni dignità. Questa almeno è stata la mia esperienza. Non so
come funzionino le facoltà scientifiche, ma temo che le cose non stiano molto
diversamente.»
Conosce
personalmente qualche altro brillante studioso italiano emarginato
dall'ostracismo del mondo accademico? Magari qualcuno che si è preso qualche
rivincita all'estero.
«Nel mio settore ne conosco molti,
tutti costretti a fermarsi (quando va bene) al dottorato di ricerca e poi a
ripiegare sull’insegnamento medio. Purtroppo, per gli aspiranti ricercatori di
talento nel campo degli studi umanistici non esiste – almeno a quanto mi
risulta – il sogno americano. Questo è riservato solo agli scienziati, per ovvi
motivi. Per altro la sempre maggiore scarsità di fondi per la ricerca colpisce
particolarmente le facoltà umanistiche e ciò non fa altro che rafforzare, direi
inevitabilmente, il nepotismo ed il clientelismo in queste facoltà, perché i
posti sono sempre più esigui e la lotta per il loro accaparramento a favore
degli affiliati alle singole “famiglie” è sempre più feroce.»
A
parte le storie individuali, quale pensa che sia il danno più grave arrecato a
quel che comunemente viene chiamato "sistema-paese" da un’istituzione
universitaria basata sugli scambi clientelari?
«Il danno è gravissimo, per gli esclusi e per la società, ma purtroppo
praticamente invisibile all’opinione pubblica. Il sistema universitario è
infatti rigidamente corporativo e quasi impenetrabile dall’esterno. Questo
favorisce il potere feudale dei “baroni” e consente loro qualsiasi manovra
utile a conservarlo, nel più totale disprezzo di ogni regola e di ogni legalità
sostanziale. Il risultato è che molti autentici “cervelli” vengono sacrificati
e al loro posto, non di rado, siedono dei mediocri cooptati secondo criteri che
non hanno nulla a che fare (se non accidentalmente) con il merito. Ma se questo
danno è più apprezzabile nelle facoltà scientifiche per il noto fenomeno della
“fuga dei cervelli” e la conseguente ricaduta economica negativa sulla società,
esso è assai meno tangibile in quelle umanistiche, dove del ricercatore
incapace e del “somaro in cattedra” non si accorge quasi nessuno, a parte
qualche studente più esigente e sensibile, il quale tuttavia non ha né il
coraggio né il potere di denunciare la cosa.»
Cosa l'ha spinta a scrivere questo libro? Si è solo "tolto una
soddisfazione" o spera di poter contribuire a migliorare le cose?
«Mi sono tolto la soddisfazione di dire una verità ignorata dai più
(studenti universitari compresi) o accettata, da molti che la conoscono, come
ineluttabile. Non sono così ingenuo da pensare che il mio libro riuscirà a
modificare un sistema così organizzato e saldo nella sua cronica patologia;
tuttavia ritengo che esso possa spronare i nostri politici a porsi seriamente
il problema di una riforma radicale delle regole del reclutamento universitario
e non solo di esso; a progettare cioè una riforma che possa iniziare ad
intaccare alla radice il potere totalmente arbitrario dei baroni e la struttura
fondamentalmente ancora feudale della nostra università. Il problema del
reclutamento, infatti, sarà risolto solo in un quadro di modernizzazione e di legalizzazione
complessivo del sistema.»
Secondo
la sua esperienza e le sue conoscenze, signor Parlachiaro, in Italia esiste
qualche isola felice, dove le capacità e le competenze trovano il giusto
riconoscimento, o le decine di atenei italiani sono tutti allineati e coperti?
«Se questa isola felice esiste io non l’ho mai neanche intravista.
Certo ci sono università più avanzate, meglio organizzate, apparentemente più
moderne di altre (parlo sempre del settore umanistico), ma in realtà ovunque
ogni barone mette sulla cattedra solo i polli del proprio pollaio e, tra
questi, prima degli altri, solo quelli in possesso dei requisiti extra-merito
di cui sopra. Non esiste la minima possibilità, per giovani di talento privi di
quei requisiti, di vincere un posto da ricercatore o da associato, per il
semplice motivo che non viene consentito loro neanche di cimentarsi in un
concorso regolare: la mia esperienza mi insegna che tutti i concorsi
universitari sono infatti rigorosamente truccati, a tutti i livelli. Sarebbe,
da questo punto di vista, paradossalmente più leale abolire i concorsi e
legalizzare il privilegio dei baroni alla cooptazione. Ma se questo si facesse,
allora bisognerebbe conseguentemente, a mio avviso, privatizzare le università.
Cosa che personalmente non auspico, perché sarebbe un passo indietro, anziché
una riforma.»
Infine
signor Parlachiaro, uno sguardo al futuro. Vede qualche spiraglio di luce o nei
prossimi anni sull'università italiana sarà ancora buio pesto?
«Personalmente sono ormai definitivamente fuori del mondo universitario e non saprei fare prognosi o suggerire ricette sicure per un malato così grave. Ritengo tuttavia che i tempi siano abbastanza maturi per una “universitopoli”, cioè per una tangentopoli universitaria. Credo insomma che una maggiore attenzione della magistratura verso le procedure di reclutamento e, più in generale, di gestione della nostra università potrebbe portare alla luce molte iniquità sommerse e dare una energica scossa all’ambiente. Tuttavia credo che l’iniziativa più importante debba venire soprattutto dal legislatore. L’attuale progetto di riforma (che io contesto sotto molti punti di vista, soprattutto per i pericoli di precarizzazione) ha quantomeno il piccolo merito di avviare procedure concorsuali nazionali per contrastare i “localismi”. Non basterà, evidentemente, perché si possono truccare anche concorsi nazionali se li si lascia comunque in mano ai baroni. Tuttavia questa è la direzione giusta: separare il più possibile il reclutamento dal suo contesto locale, cominciando già dal semplice dottorato o dall’assegno di ricerca. È infatti dai gradini più bassi che inizia la cooptazione clientelare di cui sopra; agire solo ai livelli più alti, quelli dei professori associati e degli ordinari, sarebbe inutile. Bisogna che lo stato metta i giovani ricercatori nelle condizioni di giocarsi il proprio futuro su di un piano di assoluta trasparenza e di effettiva parità. Cosa facile a dirsi, ma purtroppo, bisogna riconoscerlo, ancora oggi difficilissimo a farsi.» >>
[G. Rincicotti: <Intervista>, 31 marzo 2006, da http://www.unimagazine.it/modules.php?name=Unimagazine&file=articolo&sid=1399 ]
<<Alcuni indicatori
forniscono delle informazioni utili sul rendimento degli Atenei ma le
classifiche, nel loro complesso, non riescono a rappresentare in modo esaustivo
la realtà universitaria. È questo, in sintesi, il giudizio espresso da alcuni
docenti delle facoltà perugine. Perplessità che vengono evidenziate
efficacemente dal professore Giorgio Eduardo Montanari, Preside della Facoltà
di Scienze Politiche. «Per valutare queste classifiche -- afferma il docente di
Statistica -- bisogna fare una duplice riflessione. In primo luogo, le
graduatorie presentano un difetto all'origine: sono basate sul reperimento di
informazioni immediatamente disponibili,
facilmente reperibili sul sito web del Ministero dell'Università. Questo vuol
dire che si prendono in considerazione solo degli aspetti quantitativi (che
sono, di per sé, parziali) e che manca una adeguata impostazione metodologica a
monte. In secondo luogo, sarebbero necessari degli "studi di validazione"
che mettano in relazione gli indicatori con la realtà universitaria. Faccio un
esempio: la progressione di carriera degli studenti. Il basso numero di fuori
corso non è sempre indice di qualità degli studi in un Ateneo. In alcuni casi potremmo essere in presenza di un efficace azione di
tutorato che facilita l'apprendimento degli studenti; in altri casi, invece,
potremmo essere in presenza di esami più
semplici che permettono un facile accesso agli anni successivi. Insomma, è
fondamentale capire quale realtà c'è dietro
a questi indicatori. Nonostante tutto, però, almeno per gli aspetti
considerati, da alcuni valori possiamo trarre indicazioni utili dal confronto con gli altri Atenei. Quello che
manca, ripeto, sono gli "studi di validazione" degli indicatori». Il
Preside della Facoltà di Ingeneria [sic], professore Corrado Corradini,
fornisce un giudizio in linea con il pensiero di Montanari: «Le classifiche
degli Atenei sono in qualche misura utili, però non sono rigorosamente
rappresentative della qualità delle Università. Faccio un esempio relativo alla
Facoltà di Ingegneria, con il parametro
"Relazionali internazionali". Con questo indicatore, infatti, ci si
riferisce principalmente al numero degli studenti che partecipano al programma
di scambio internazionale Erasmus. La nostra Facoltà, però, ha deciso di non
incentivare questo scambio perché le lauree in Europa nel settore
ingegneristico sono di qualità sicuramente inferiore alle nostre. In altre
parole, riconosciamo raramente l'equipollenza degli esami svolti all'estero,
richiedendo nella maggior parte dei casi un colloquio integrativo da
effettuarsi in Italia dopo il rientro dello studente dal soggiorno all'estero.
Inoltre, è alquanto riduttivo valutare i rapporti internazionali quasi unicamente
con il numero di studenti in mobilità in entrata e in uscita verso e
dall'estero».
Più morbido, invece, il commento del Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, professore Giorgio Bonamente. Il docente di Storia Romana sostiene, infatti, che «le classifiche sono un punto di riferimento molto utile sebbene presentano dei momenti di debolezza. Tuttavia, un criterio non è mai neutro e va accettato tenendo conto di questo margine di relatività. Dando uno sguardo alle classifiche, comunque, non posso non notare che l'Ateneo di Perugia è collocato bene e quindi non posso che esserne soddisfatto».>>
[Andrea Possieri: “L’opinione delle facoltà: classifiche non esaustive, mancano gli ‘studi di validazione’”, l’Università, n.4, luglio/agosto 2006, p. 4.]
<<In merito all’articolo di Mario Pirani apparso su Repubblica di lunedì 30/10 vorrei notare, per amor di verità, che sebbene sia vero che noi siamo pagati meno di molti altri colleghi europei, io professore universitario al massimo della carriera (ora in pensione) percepisco poco più di 6000 euro lordi o circa 4000 euro netti al mese e quindi credo che potremmo senza eccessiva sofferenza rinunciare agli scatti biennali in questa situazione di emergenza finanziaria, mentre sarebbe assolutamente impossibile imporre tale rinuncia non solo ai ricercatori ma anche ai professori associati.>>
[Margherita Hack: “Noi professori universitari e i giovani ricercatori”, la Repubblica, “Lettere”, 1 novembre 2006, p. 18; il quotidiano ha pubblicato una risposta, che riservo a un’altra categoria]
<<Non vorrei essere scambiato per il solito professore universitario che sputa nel piatto che mangia. No, al contrario io qui vorrei andare solo controcorrente e provare, forse con impudenza, a non “difendere l’indifendibile”.
Innanzitutto appare paradossale che ogni volta che i problemi dell’università guadagnano gli onori della cronaca, i giornali si riempiano di commenti, diagnosi e cure da parte dei vari professori universitari, che sono anche editorialisti. È come se si chiedesse un fondo al più esimio dei tassisti per discutere della liberalizzazione delle licenze.
I professori universitari sono parte del problema non della soluzione. Il sistema malato è costituito da noi professori, non da marziani che non conosciamo. Spesso infatti gli stessi che pontificano ricette sui giornali sono quelli che entrano nelle commissioni di concorso e spesso, per dichiarata fama, dettano la legge del nepotismo nel proprio settore disciplinare.
Inoltre vorrei dire che non è sicuramente prioritario metter più soldi in questa Università. Come chiunque può leggere sul Bollettino dei concorsi di Roberto Perotti, sorprenderà molti saper che la spesa per studente è maggiore in Italia che in Inghilterra (che ha il miglior sistema universitario d’Europa) e che un professore italiano con un po’di anzianità guadagna di più del 90% dei professori americani. I quali hanno stipendi differenti a secondo [sic] della loro produttività, mentre in Italia i docenti sono pagati a seconda dell’anzianità in ruolo [e del ruolo, NdC]. Mettere più soldi in questa Università quindi non serve a molto: prima bisogna riformarla. E con lei, questo paese.>>
[Guido Ascari [Prof. Economia, Univ. di Pavia], “Io, docente universitario, mi dichiaro colpevole”, La Repubblica, “Lettere”, 23 novembre 2006, p. 20.]
<<[...] Anche la didattica nella scuola (università compresa) è un punto dolente. Molti di noi ricordano professori eccellenti, che si dedicavano con grande passione all’insegnamento e professori che invece cercavano di lavorare il meno possibile. Non solo tutte e due le categorie sono pagate ugualmente, ma addirittura non esiste nessun criterio di valutazione attendibile del loro vero valore didattico. E non può esistere un tale criterio finché gli studenti saranno muti e non verranno consultati. Bisogna far riempire agli studenti questionari sui corsi, chiedendone i pregi e i difetti e far assegnare punteggi differenziali per i vari parametri e rendere pubblici i risultati dei questionari. Così si dà un meritato riconoscimento pubblico agli insegnanti che si dedicano al loro lavoro e si stimola l’amor proprio degli altri insegnanti. [...]>>
[Giorgio Parisi: “Se pubblico vuol dire ‘scadente’”, il manifesto, 30 settembre 2006, p. 7.]
<<1. Una perniciosa
anomalia dell’università italiana.
Malgrado la ricchezza delle risorse intellettuali nel nostro Paese, che non
sono certo inferiori a quelle degli altri Paesi, lo stato complessivo
dell’università italiana non è confortante. Le rilevazioni internazionali la
collocano agli ultimi posti, nel mondo industrializzato, per la formazione e la
ricerca -non solo per il numero percentuale dei laureati e specializzati. I
“cervelli” italiani che emigrano stabilmente all’estero -dove spesso
emergono-sono migliaia ogni anno, mentre sono mosche bianche gli stranieri
valenti che scelgono il nostro Paese per la ricerca e la didattica.
Noi stessi, docenti italiani che spesso viaggiamo e possiamo fare confronti con
le università di altri Paesi, costatiamo non solo l’esistenza di un nostro
ritardo -che sembra aumentare, anziché diminuire-sul piano scientifico,
tecnologico, organizzativo e delle risorse economiche (per esempio, il numero
assai inferiore dei nostri “dottorati di ricerca”) e nel rapporto col mondo del
lavoro (disoccupazione intellettuale cronica, inadeguatezza dei tirocini pre-e
post-laurea, ecc.); ma, anche, costatiamo l’esistenza di una nostra
perniciosa anomalia “culturale” o di “mentalità” nella gestione delle carriere
universitarie, nel riconoscimento -o meglio, nel non riconoscimento- del merito
scientifico e didattico individuale, nei rapporti inter-generazionali, e in
genere negli “stili” relazionali fra colleghi e con l’Istituzione.
Appare chiaro, a molti di noi, che i due problemi sono strettamente collegati;
nel senso che l’anomalia “culturale” o “di mentalità” (non facilmente visibile
dall’esterno) spiega, perlomeno in larga misura, il vistoso ritardo
scientifico, tecnologico, organizzativo e nelle risorse economiche.
2. Le due forme del potere accademico:
“Potere Di Ruolo” e “Potere Per il Potere”.
Questa nostra anomalia coinvolge la questione generale del potere, e del potere
accademico in particolare, su cui s’impone una distinzione fondamentale.
L’esercizio del potere accademico può essere dettato dall’autorevolezza della
Conoscenza cui il ruolo accademico -di docente o ricercatore- rimanda, ed
esprimersi quindi come difesa e promozione di significativi indirizzi
culturali, scientifici o didattico-formativi e come servizio sociale e istituzionale.
In questo caso, possiamo parlare di “Potere Di Ruolo” o “Potere Di Servizio
[...]
Oppure, l’esercizio del potere accademico può essere dettato solo dal potere
stesso, in quanto prevaricazione. Cioè, in quanto occupazione di posizioni di
forza a vantaggio di singoli o gruppi, per interessi come il prestigio
personale, il tornaconto economico, la costituzione di cooptazioni e alleanze,
l’ottenimento di cariche, l’influenza sul funzionamento delle strutture, il
controllo delle risorse e delle persone, l’accaparramento di attività
professionali extra-accademiche, e così via – ma non per obiettivi culturali,
né scientifici, né didattico-formativi, né sociali, né veramente istituzionali.
In questo secondo caso, possiamo parlare di “Potere Per il Potere” in ambito
universitario [...]
3. La “capacità pervasiva” del
“Potere Per il Potere” (PPP).
L’esperienza indica che il “Potere Per il Potere” (PPP, per semplificare)
possiede una levata “capacità pervasiva”. I possessori di PPP universitario si
comportano in modo fra loro identico, in relazione all’esercizio del potere, a
prescindere dalle loro altre diverse appartenenze. Uomini o donne, vecchi o
giovani, laici agnostici o religiosi, politicamente di destra o di sinistra o
del centro, nelle regioni del Nord, del Centro e del Sud d’Italia, in Facoltà
grandi e in altre a “conduzione familiare”, nelle antiche università pubbliche
e nelle recenti università libere, e così via. Si rendono ininfluenti anche le
differenze di personalità che pur emergono al di fuori del PPP. A questo
proposito, si assiste spesso al subentro in posizione di PPP di una personalità
molto diversa da quella precedente, e alla scomparsa dopo breve tempo di ogni
differenza visibile fra l'una e l'altra. Ciò è dovuto a “ripensamenti”, che
sono adeguamenti ai meccanismi del PPP in quanto tale [...]
4. Il
“primato epistemico” del PPP.
Ci si può chiedere in che cosa il PPP nell’università sia
diverso dalle altre forme di prevaricazione, ovvero dagli altri PPP, che sono
presenti, in misura maggiore o minore, in tutte le organizzazioni
lavorative umane, pubbliche e private, e all’interno delle altre istituzioni
corporative (esercito, sanità, giustizia, chiese, ecc.). E, ancor più, nella
pratica quotidiana della cosiddetta politica professionale, dalla quale il
cittadino medio si aspetta di tutto.
Si può rispondere che i meccanismi e gli strumenti del
PPP universitario (“scambio”, “spartizione”, “ricatto”, “ritorsione”, ecc.)
sono in massima parte non specifici. Ciò dimostra l’omologazione della
Conoscenza istituzionalizzata alla società nel suo insieme, e quindi
l’insostenibilità di un suo status privilegiato rispetto alla sfera dei valori;
nonché la necessità di ripensare la concezione tradizionale e consolatoria
dell’intellettuale come critico legittimo del sociale, perché non condizionato
dal sociale stesso.
Tuttavia, non bisogna dimenticare una peculiarità del PPP
universitario: e cioè la ricchezza inesauribile delle categorie della
Conoscenza -concettuali e linguistiche- che esso manipola. Basta poco per
“correggere il tiro” e adattare queste categorie ai propri interessi
particolaristici, senza mai essere veramente -“inconfutabilmente”- smentiti. Al
contrario, il PPP in ambito economico o politico deve fare i conti con la limitatezza
e persino la povertà delle proprie categorie concettuali. Superato un
certo livello di mistificazione, che è addirittura prevedibile -anche nel caso
del più abile politico professionista o finanziere imbonitore- il PPP non
universitario è costretto a un confronto con il mondo dei fatti, che gli fa
perdere credibilità e lo brucia. E’ molto più facile smascherare le vere
intenzioni di un uomo politico, che non quelle di un intellettuale. I politici
“di razza” lo sanno, e per questo attribuiscono importanza alle
“fondazioni ideologiche” del loro operato, e pagano gli intellettuali disposti
ad elaborarle per loro.
Pertanto, si può parlare di un “primato epistemico” del
PPP universitario rispetto agli altri PPP.
5. I “finti
concorsi”.
I “finti concorsi” costituiscono l’aspetto più visibile
del PPP universitario.
Il concetto di “concorso”, in sé, implica l’aprirsi
periodico di un sistema protetto, la ricerca del nuovo -oltre che di una
legittima continuità-, per realizzare sempre meglio gli obiettivi del sistema
stesso. Ci si rivolge all’esterno per reclutare risorse che non ci sono, o non
ci sono più, all’interno.
Tuttavia, nel sistema universitario italiano, il concorso
è molto spesso finalizzato al mantenimento e al rafforzamento del PPP che ad esso
pre-esiste, e alla chiusura verso tutto ciò che potrebbe alterarlo, cioè
l’immissione nel sistema di elementi veramente nuovi, non “collaudati”, e
pertanto destabilizzanti. Il concorso, e ancor prima la sua progettazione e
costruzione, diventa allora il momento cruciale di coagulo e di espressione -e
al contempo il banco di prova- della forza maturata, fino a quel momento, da
ciascun possessore di PPP, in veste di padrino. In questi casi, prima che il
concorso venga bandito, o comunque prima del suo inizio, i rapporti di forza
fra i possessori di PPP -che si traducono in accordi paritari fra di loro, o
nel prevalere dell’uno sull’altro-predeterminano i vincitori, che corrispondono
alle persone “portate” da ciascun padrino.
Ci si trova così in presenza di “finti concorsi”, ovvero
di una grave finzione istituzionale. Così come sono “finzioni
pseudo-culturali”, in questi casi, i “giudizi comparativi” che riempiono le
pagine dei verbali redatti dai commissari e che si riducono a formule retoriche
standard, precostituite -salvo qualche aggettivo differenziante più o meno
“creativo”- per “giustificare” l’esclusione dei candidati che già in partenza
-e senza alcuna valutazione dei loro titoli- erano destinati ad essere esclusi.
Spesso, i plichi contenenti le loro pubblicazioni non vengono neppure aperti.
Tuttavia, non sono finzioni il merito e i titoli
(pubblicazioni, competenze, esperienze, ecc.) delle persone -sia i
vincitori predeterminati, sia i candidati esclusi a priori- che
partecipano a questi “finti concorsi”. Ciò richiederebbe uno specifico
discorso a parte.
La “capacità pervasiva” del PPP, in questi “finti
concorsi”, è dimostrata dal fatto che le loro strategie e modalità sono le
stesse per un concorso di Filosofia Morale e per un concorso di Management,
tanto per citare due ambiti disciplinari fra loro molto distanti.
Quanto al “primato epistemico” del PPP, esso è dimostrato
dalla inappellabilità nel merito dei giudizi concorsuali -per cui i soli
ricorsi giudiziari che hanno qualche speranza di venire accolti sono quelli
fondati su motivi di forma e procedura (errori materiali nelle trascrizioni,
nelle date, ecc.). [...]
7. La necessità
di smantellare il PPP.
La necessità di smantellare -con urgenza…- il PPP
universitario è intuitiva, ma può essere utile focalizzare alcuni motivi per
farlo.
Primo. Sul piano etico, individuale e sociale, il PPP è
obbrobrioso. Ha creato e continua a creare un numero inaudito di drammi
personali. L’impotenza nei confronti dell’iniquità istituzionalizzata in ambito
intellettuale -nei confronti della «nientificazione» del proprio lavoro di
anni, secondo il termine usato da un valente ricercatore italiano in procinto
di emigrare-, è una delle peggiori fonti di frustrazione.
Secondo. Ostacolando e danneggiando il merito scientifico
e didattico degli individui, il PPP è un fattore determinante del vistoso
ritardo nella produttività intellettuale del sistema Italia.
Terzo. Al di là del contesto italiano, è in corso un
dibattito internazionale sui condizionamenti esercitati dai grandi poteri
economici (multinazionali, ecc.) sulla libertà accademica, e sulla ricerca
scientifica in generale [...]
8.
L’insufficienza delle battaglie individuali contro il PPP.
Il luogo ideale di competenza per dare battaglia al PPP
universitario è l’università stessa, in cui sono molto numerosi coloro che lo
avvertono come un fardello insopportabile. Si tratta di una questione
inscindibilmente etica e culturale, e l’università -soprattutto in Italia- è
l’Istituzione della Cultura. Non ha senso che tale battaglia venga condotta -in
una versione ristretta, superpersonalizzata e culturalmente povera- soltanto
nelle aule dei tribunali, per poi venire deformata e strumentalizzata dai
mass-media scandalistici e dai politicanti.
Tuttavia, l’esperienza insegna che le battaglie contro il
PPP, pur condotte dall’interno dell’università, sono destinate a fallire se
sono solo individuali.
Infatti, non sono sufficienti le esternazioni e
rivendicazioni -anche sotto forma di libri mordaci- di vittime di
ingiustizie concorsuali o più in generale accademiche. Seppur assai
condivisibili, esse non vanno oltre il fatto personale, e alle considerazioni,
generali, sì, ma poco strutturate che ad esso sono legate. Ed è facile
etichettare queste esternazioni e rivendicazioni come forme di autocommiserazione
o di vendetta personalistica, o persino in termini di malattia mentale -per
esempio, nel caso di un sessantenne “frustrato” che, a dispetto di molte e
qualificate pubblicazioni è rimasto nel ruolo giovanile di ricercatore, dopo
essere stato respinto in decine di concorsi. E chi è solo, in un sistema
inquinato coeso, tende a realizzare, anche in modi per lui
stesso impensabili, la profezia del suo essere malato. [...]
9. Lo studio istituzionale -anche e
soprattutto psicologico- delle cause e degli effetti del PPP come primo passo
verso il suo effettivo smantellamento.
Malgrado il pullulare ufficioso dei riferimenti al PPP,
esso non è riconosciuto e ufficializzato nella comunità universitaria come
“normale” oggetto di studio scientifico; e ciò costituisce il suo
principale punto di forza.
Pertanto, il riconoscere e ufficializzare il PPP come
oggetto di studio scientifico costituisce il primo passo -anche se non certo
l’unico- verso il suo smantellamento.
Per analogia, il pregiudizio e il razzismo sarebbero
assai più influenti e pericolosi di quanto non siano, se non fossero
oggettivati e sviscerati dalle scienze sociali (compresa la psicologia), i cui risultati
vengono in parte diffusi in ambito mediatico.
Per inciso, ci si può chiedere perché le scienze sociali
(compresa la psicologia) abbiano oggettivato e sviscerato il pregiudizio e il
razzismo, ma non il PPP.
Lo studio del PPP, nel quadro di un progetto
universitario condiviso e interdisciplinare, deve indagare sia sulle sue cause
generali, di carattere storico-culturale ed economico, relative alla
società italiana nel suo complesso, sia sulle sue cause specifiche,
relative al contesto universitario italiano. E deve indagare sulle
interazioni fra le cause generali, e sulle interazioni di queste con le cause
specifiche. [...]
Andando per ordine, e in forma schematica:
I-Cause generali del PPP, di carattere storico-culturale
ed economico, relative alla società italiana nel suo complesso.
-La tradizione del
feudalesimo e neo-feudalesimo.
Il possessore di PPP si aspetta, dalla persona che egli
“aiuta” nella carriera, una “riconoscenza” che si traduca in un vantaggio
personale, per lui, al di fuori del contesto istituzionale. Molto spesso, la
persona “aiutata” trova che ciò, in fondo, sia “giusto”.
Questa struttura relazionale può essere ricondotta alla
tradizione feudale, in cui il beneficiario riconosceva esplicitamente, al
rappresentante di un potere “pubblico”, il “diritto” di ricavare un vantaggio
anche “personale” dall’esercizio delle sue funzioni istituzionali (come il
conferimento di una carica o di un feudo). L’attuale “capitalismo anomalo” e
dinastico italiano, riconducibile alla concentrazione del potere economico e
mediatico nelle mani di pochissime famiglie, nonché il “berlusconismo”
-ampiamente condiviso in Italia- corrispondono a una logica
“favoritistica” neofeudale, che non trova riscontro negli altri grandi
Paesi dell’Occidente. L’irrisolvibilità dei nostri “conflitti d’interesse”
anche ai massimi livelli governativi -una cosa che continua a stupire gli
osservatori stranieri- è dovuta, soprattutto, al fatto che per moltissimi
italiani -in ciò neo-feudali e pertanto “anomali” rispetto agli altri cittadini
dell’area occidentale-, chi amministra il “bene pubblico” non può non derivarne
anche un “bene privato”; e questo a prescindere dal suo orientamento
ideologico-politico, e a prescindere dalle sue dichiarazioni di diniego. Queste
rientrano in un gioco delle parti, ed egli sa che “la gente” lo “capisce”,
perché farebbe lo stesso al posto suo.
-La tradizione
omertosa intrecciata con la tradizione “gattopardesca”.
La prassi diffusa dei “finti concorsi” esprime una
sindrome collettiva di accettazione-connivenza; o, più semplicemente, di
omertà. Essa spiega la sicurezza del possessore di PPP nel negare anche
l’evidenza dei fatti (candidati che ricorrono alle vie legali, telefonate
pre-concorsuali intercettate dalla Finanza -di cui parlano i giornali in questi
mesi-, ecc.). Egli è sorretto dalla consapevolezza dell’omertà generale -dei
commissari, ma anche della grande maggioranza dei candidati-, perché tutti
sanno che questa modalità concorsuale patologica è strutturale almeno quanto
la modalità sana, e pertanto non ha alternative. Tutti sanno che qualsiasi
cambiamento (nuove regole concorsuali, ecc.) verrebbe facilmente riassorbito,
per cui sarebbe solo un “cambiare per non cambiare”... In questo contesto, qualsiasi proposito di cominciare a
“fare pulizia in casa propria” è stroncato in partenza come donchisciottesco:
si obietta, infatti, che si sarebbe i soli a farla, questa “pulizia”, e che
l’auto-denigrazione allontanerebbe le risorse che sono necessarie anche per gli
individui che realmente valgono e producono.
Questa struttura sociale può essere ricondotta alla
tradizione omertosa come difesa contro l’occupante straniero, che ha segnato
per secoli il tessuto collettivo italiano -lungo tutto lo Stivale, non solo nel
Sud-, in modo anomalo rispetto agli altri grandi Paesi europei; e
alla tradizione del “cambiare tutto per lasciare tutto cosi com’è”,
magistralmente delineata ne Il
Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Preziosi sono anche gli scritti di
Leonardo Sciascia, e alcune intuizioni di Pasolini.
-La tradizione clientelistica (risalente
al tardo Impero Romano) e nepotistica (di origine papalina).
Queste due tradizioni si sono fuse, con un esito di
potenziamento, e sono rimaste in profondità nel nostro tessuto sociale (e
quindi anche universitario) fino ad oggi. E’ la nostra “raccomandazione”, che è
semanticamente l’opposto della recommendation della cultura anglosassone.
In questa ampia
prospettiva storico-culturale, la non trasparenza dei concorsi universitari
italiani può essere letta -almeno in parte- come un caso particolare della
generale scarsa trasparenza di tutti i poteri in Italia -rispetto alla
quale, secondo una classifica OCSA del febbraio 2006 (per quel che può
valere) siamo al quarantesimo posto, in coda a tutti i Paesi del mondo
industrializzato.
-La mancanza di una elaborazione compiuta
della “laicità” e di un’ “etica laica”, a causa dell’influenza clericale e
della “cultura del sospetto” di un certo marxismo (l’etica come copertura
ideologica), e del particolarissimo intreccio italiano fra un certo marxismo e
un certo cattolicesimo. Il tutto in assenza di una Riforma religiosa come
quella Protestante, con le sue istanze di auto-responsabilizzazione
dell’individuo anche al di fuori del suo clan, e in presenza della
fortissima influenza esercitata, in Italia più che altrove, dalla Controriforma
cattolica.
Ancora oggi, in Italia, chi “s’interessa di etica” “deve essere” un cattolico,
o un cattolico travestito. In francese “moraliste” significa “studioso di
questioni morali”, mentre in italiano “moralista” significa “ipocrita” o
“bigotto”. In inglese “idealist” è uno che ha degli ideali, mentre in
italiano “idealista” significa “sognatore” (sciocco o pericoloso). [...]
II-Cause
specifiche del PPP, relative al contesto universitario italiano.
-Auto-referenzialità quasi assoluta
dell’università italiana.
In assenza di controllo sociale, in un regime di prevalente separatezza dal
mondo del lavoro, e in condizioni di monopolio della Conoscenza -per la
mancanza di alternative istituzionali, quali, per esempio, le Accademie di
altri Paesi-, è fortemente incentivata la “confusione” fra il Potere Di Ruolo
(o Potere Di Servizio) e il PPP.
-Carattere privilegiato e “sacrale”
dell'investitura accademica.
In Italia questa investitura è stata influenzata dalla “consacrazione
clericale” (il “sacerdos in aeternum” della tradizione cattolica),
confermata “in ambito laico” dalla concezione neo-idealistica (crociana e
soprattutto gentiliana) relativa alla trasmissione del Sapere. Ciò incide
potentemente sulla percezione e auto-percezione del docente “consacrato”. Da
noi un “docente a contratto”, che ha insegnato all’università solo per pochi
mesi e ha guadagnato in tutto circa 1000 Euro, tende a mettere la dicitura di
“professore” sul suo biglietto da visita per il resto della vita.
Figuriamoci l’auto-percezione del professore ordinario…
-Parcellizzazione degli ambiti
disciplinari, che predispone al favoritismo clientelare.
La settorializzazione della Conoscenza istituzionalizzata, già presente
internazionalmente, nell’ordinamento universitario italiano è stata esasperata
in una vera e propria parcellizzazione micro-disciplinare. Questa condizione,
che sembra fatta su misura per le operazioni di PPP, consente che poche
persone, sempre le stesse o i loro cloni, ritaglino e colonizzino un proprio
territorio conoscitivo. Questo territorio può essere definito con un linguaggio
e modalità esclusive, e si può lavorare solo per conservarlo in esclusiva per
se stessi e per la propria combriccola. La torta della “Conoscenza” può essere
spartita in tante fette e fettine per i suoi proprietari, senza lasciare
“fuori” neppure le briciole. Ogni settore disciplinare o conoscitivo e ogni
sotto-settore può diventare un “club riservato”, con la piena autorità
conferita dall’Istituzione. [...]
III-Lo studio
psicologico degli effetti del PPP sugli individui e sui gruppi che fanno
ricerca e insegnano all’interno dell’università.
Mi limito a pochi spunti.
-L’assenza di sensi di colpa nel
possessore di PPP.
Il gestire o il lasciarsi gestire da “pressioni” estranee alla qualità
scientifico-didattica dei candidati, e anche l'intenzione di trarre
vantaggi personali o di gruppo dalla loro promozione o bocciatura mentre
l'unico “vantaggio personale” eticamente consentito dovrebbe essere la
gratificazione per la promozione della qualità scientifico-didattica in sé- non
sembrano generare sensi di colpa, e navigano in una dimensione scissa dalla
coscienza etica e sociale, che spesso è viva in altre dimensioni
esistenziali -extra-accademiche- del possessore di PPP. Una interessante scissione, da
approfondire.
-I danni psicologici nelle vittime del
PPP.
L’incertezza sul comportamento
del possessore o della combriccola di PPP da cui si deve dipendere (non
essendoci con lui o con essa “regole chiare e condivise”), la percezione
ambigua del “doppio codice” del potere accademico (visibile e occulto), i
conflitti intrapsichici fra i vissuti relativi alla Conoscenza e i vissuti
relativi al Potere, determinano, nel personale universitario, alterazioni a
livello cognitivo, motivazionale, emozionale, relazionale intra-accademico ed
extra-accademico. Inquinano il clima micro-sociale lavorativo, che è l’humus
della ricerca, e rendono decisamente patologica la competitività (già di per sé
“al limite”) fra le giovani leve e ambigui i rapporti intergenerazionali.
Rendono non sereno -e scarsamente produttivo in termini reali, cioè non in
termini di “pubblicazioni solo strumentali alla carriera localistica- il lavoro
di ricerca, interferendo soprattutto con i delicati processi dell’ideazione
creativa; e scaricano impreparazione e frustrazione nella didattica. Corrompono
il concetto e l’attribuzione del merito reale e rendono non credibili
anche le nuove “regole stringenti” relative alla valutazione della
produttività. E’ inutile abbottonare bene una camicia, se si pensa che il
primo bottone sia stato abbottonato storto.
-Danni a livello della ricerca
interdisciplinare.
Essendo chiuse gerarchicamente e verticalmente su se stesse, le strutture di
PPP escludono la comunicazione orizzontale che caratterizza
l’interdisciplinarietà della ricerca.
[...]
N O T E
(1) Il sottosegretario all’Università e alla Ricerca
Luciano Modica del nuovo governo di centro-sinistra ha preannunciato la
contrarietà al ripristino dei concorsi nazionali: «I concorsi nazionali non ci
convincono. Li abbiamo sperimentati per 18 anni e non hanno mai funzionato
bene».
(2) Sul piano internazionale, esiste un notevole
interesse per l’ “anomalia” dell’università italiana, soprattutto in relazione
ai concorsi, e diversi articoli sono stati pubblicati sull’argomento, negli
ultimi anni, non solo su giornali rivolti al largo pubblico, come il Guardian, ma anche su riviste
prestigiose come Nature e The Lancet. Inoltre, un’influente
rivista online, “JUST Response”,
ospita un settore dedicato interamente al malcostume accademico italiano.>>
[Estratto da: Sadi Marhaba, “La “non trasparenza” di concorsi e carriere nell’università
italiana. Lo stato del problema e il possibile contributo alla sua risoluzione
da parte della psicologia”, Giornale
Italiano di Psicologia, n. 4, dicembre 2006, pp. 663-8. L’autore è
professore ordinario e afferisce al Dipartimento di Psicologia Generale
dell’Università di Padova.]
Il sistema
universitario in Italia premia gli intriganti, castiga gli studiosi (11.II.2007)
<<Aria brutta per i furbi che influenzano i concorsi universitari nella
più completa impunità o quasi. Così ha più volte annunciato il Ministro Mussi
in uscite pubbliche e interviste. Da più parti si plaude al ruolo dissuasore
che la neonata Agenzia di valutazione avrà sul nepotismo endemico della nostra
macchina universitaria. La volontà politica sembra esserci. Ma è adeguata la
diagnosi?
Il Ministro ha dichiarato in un'intervista che il fatto che con qualunque sistema concorsuale fin qui provato si riproduce la stessa corruzione rimanda a "un problema culturale che va risolto prima di dedicarsi alle alchimie del concorso perfetto". Ma e' solo un problema culturale?
Una studiosa americana come Susan Rose-Ackerman, famosa nel mondo per i suoi studi comparativi sulla corruzione e autrice di una delle più interessanti analisi sulla lezione che i paesi latinoamericani possono trarre dalla vicenda italiana della maxi-tangente Enimont, sostiene che la repressione per via giudiziaria ovunque alla lunga è impotente a contrastare la corruzione se questa gode di un incentivo strutturale nel settore di riferimento. In altri termini, se il guadagno addizionale ottenibile con il comportamento corrotto supera continuativamente e nettamente il rischio di sanzioni, nel lungo periodo la repressione non ce la fa a contrastare il fenomeno.
Torniamo al caso dell'università. Se in Italia, a differenza degli USA, non abbiamo tenure-track, ovvero non c'è obbligo per l'università che assume un ricercatore di procurarsi il budget per i suoi futuri avanzamenti di carriera subordinandoli solo a un giudizio di merito, ma se invece il giudizio di merito -- emesso da una commissione concorsuale -- neanche viene in essere se prima non è stata vinta una dura e vera battaglia per l'impiego delle scarse risorse presenti nelle facoltà, non ci troviamo qui di fronte a un elemento strutturale, e non soltanto culturale, che incentiva la corruzione?
E' evidente infatti che le qualità che un candidato deve avere per assicurarsi che fra tutte le aspirazioni di carriera presenti nella sua facoltà proprio la sua, assieme a quella di pochi altri fortunati, si traduca in un bando di concorso e che la volontà di bandire questa piuttosto che quella materia si mantenga per tutto il tempo necessario nelle lunghe stagioni pre-concorsuali italiane (come questa che si annuncia adesso, ad esempio) sono qualità completamente diverse dal chinare il capo sui libri. Bisogna tenere insieme maggioranze, stringere accordi, fare patti, poi eleggere commissari, tutte lodevoli attività ma che disgraziatamente richiedono capacità che con l'eccellenza nello studio mantengono un rapporto assai tenue.
E se stesse proprio nella
"marcia in più" (in più rispetto alla qualità dei propri studi) che è
oggi condizione necessaria per vincere un concorso – in primis la capacità di
tessere rapporti che conducano al famoso "bando di concorso", di
proporsi come centro di una rete, di ottenere l'elezione di commissari ben
disposti, di mantenere questa buona disposizione nel tempo, ecc. – se fosse in
questa variabile strutturale, e per nulla solo culturale, la spiegazione
dell'ostinato persistere di quella corruzione che ha reso il termine italiano
"concorso" una parola nota ai colleghi stranieri, in cui suscita
sempre un sorriso? Se fosse qui una delle ragioni
del suo resistere a ogni riforma?
La conclusione da trarne sarebbe che è vana la speranza di contrastarla con la magistratura – strada che fra l'altro impone più rischi al ricorrente, colpito da immediato ostracismo, che al corrotto, certo che una eventuale condanna ci metterà anni a colpirlo – se non si attaccano le basi strutturali della corruzione. Adottiamolo davvero, il sistema americano della tenure-track ed elimineremo le premesse sui cui poggiano i comportamenti corrotti nostrani. Il cambio di "cultura istituzionale" seguirà allora, con i suoi tempi e l'aiuto della repressione giudiziaria.>>
[“Contributo di Alessandro Ferrara”; Ferrara e' ordinario di Filosofia politica
presso l'Università di Roma "Tor Vergata" e Presidente della Società
Italiana di Filosofia Politica, 11 febbraio 2007, Comunicato ANDU.]
<<[...] il reato di nepotismo universitario è semplicemente un corollario di un più grave reato: quello di mafia. Infatti, se il delitto di mafia è definito come controllo del territorio, i baroni universitari hanno usato le disgraziate procedure di selezione per controllare il territorio. E dato che avevano il potere di predeterminare i vincitori, hanno fatto vincere anche figli, figlie, nipoti, mogli e amanti.>>
[Quirino Paris, professore presso l’Università della California, la Repubblica, 25 gennaio 2008, “Lettere & Commenti”, p. 28.]
<<ROMA
(17 marzo) - Il “3+2” è un flop. Colpa degli errori di applicazione e
delle distorsioni che lo hanno accompagnato. Non c’è solo il proliferare
clientelare dei corsi di laurea e la frammentazione delle materie. Dopo un calo
iniziale, la piaga dei fuori corso aumenta. La riforma, che doveva servire a
ridurre il numero dei ritardatari, non ha ottenuto i risultati sperati.
Infatti
il numero degli studenti-lumaca cresce. Così a otto anni dall’avvio i numeri
dicono che occorre una profonda revisione del doppio livello di laurea. Ecco i
dati: oltre quattro studenti su dieci non sono in regola e il fenomeno tende a
peggiorare. Nel 2006-2007 gli «studenti fuori corso o ripetenti erano il 40,7%
degli iscritti all’università, tra vecchio e nuovo ordinamento», recita il nono
Rapporto del Comitato nazionale di valutazione, presentato lo scorso dicembre.
Dato che ha già subito un incremento.
Consultando il sito del Comitato si scoprono aggiornamenti inediti: «Nel
2007-2008 il totale di studenti (vecchio e nuovo ordinamento) è pari a
1.806.056, di questi risultano regolari (ovvero iscritti da un numero di anni
non superiore alla durata del corso) 1.058.628, pari al 58,6% del totale.
Risultato: gli iscritti non regolari sono 747.428, il 41,4% del totale», lo
rileva il Comitato nazionale di valutazione. Se poi si va indietro nel tempo si
vede che il numero dei regolari è in progressivo calo. Nel 2006-2007 erano il
59,3%, nel 2007-2008 il 58,6%. Si può ipotizzare che siano gli studenti ante
riforma a tenere alta la percentuale del fuori corso. Ma è vero in parte.
Infatti, nel 2006-2007 i fuori corso del nuovo ordinamento, ossia quelli del
”3+2”, erano il 31,5%. Nel 2007-2008 sono diventati il 36% (il totale degli
iscritti al ”3+2” è di 1.499.008, di questi sono regolari 959.356, ossia il
64%). Anzi, c’è un dato ancora più sorprendente. Nel vecchio ordinamento il
numero dei regolari nel 2005-2006 era del 5,1%, nel 2006-2007 è salito al 5,7%.
«C’è una tendenza opposta nei corsi del nuovo ordinamento - osserva il Comitato
di valutazione - Poiché, confrontando gli stessi periodi, la regolarità degli
studi si è ridotta di 2,5 punti percentuali, toccando i valori più bassi
dall’introduzione della riforma».
E’ desolante il quadro che emerge dal dossier. Significa che il nuovo
ordinamento, nonostante qualche miglioramento ottenuto, non fa decollare
l’università italiana. Su oltre un milione e ottocentomila studenti solo un
milione è in regola con gli studi. Il 41,4% di ripetenti o fuori corso è il
valore più alto registrato in tutto il periodo considerato, prova che il
sistema è in crisi. Dai dati per nulla incoraggianti si evincono le difficoltà
degli studenti italiani nel tenere il passo con le lezioni e gli esami. A
suscitare preoccupazione ci sono anche le cifre degli abbandoni: «Uno studente
su cinque dopo avere frequentato il primo anno getta la spugna». Preoccupanti
anche le percentuali degli ”studenti inattivi”, che nel corso dell’anno
precedente non hanno sostenuto alcun esame o acquisito crediti formativi: nel
2005-2006 sono stati il 16%, nel 2006-2007 il 18,3%. I dati negativi sono in
crescita.
«Il ”3+2” non solo non ha risolto i problemi, ma ne ha creati altri. Ha
prodotto un netto abbassamento della qualità della didattica danneggiando gli
studenti - sostiene Nunzio Miraglia, dell’Andu, l’Associazione nazionale
docenti universitari - La riforma è stata imposta, è stata una operazione di
ammodernamento dall’alto, i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. Uno
dei mali peggiori è stato il proliferare di stampo clientelare dei corsi di
laurea. E’ stato un errore anche avere imposto un meccanismo rigido nella
articolazione degli anni. Più volte abbiamo richiesto un monitoraggio della
riforma, senza pregiudizi, senza dire che tutto è sbagliato». L’altro problema
è quello degli sbocchi professionali: le lauree triennali hanno come obiettivo
la formazione di professionalità definite, però il mercato ha molte resistenze
nei confronti dei triennalisti. Risultato: la maggior parte degli studenti
sente di avere una «laurea di serie B» e va avanti con il biennio
specialistico, allungando i tempi di permanenza all’università, il contrario di
quello che si auspicava.
Positiva, invece, l’esperienza di molti atenei del Nord. Il rettore del
Politecnico di Milano, Giulio Ballio, fa un bilancio favorevole del ”3+2”:
«Siamo riusciti ad abbassare l’età di ingresso nel mondo del lavoro, ci è
costato lacrime e sangue ma ci siamo riusciti, cambiando i contenuti di tutti i
corsi di laurea». Convinto che si debba fare una riforma del ”3+2” il rettore
di Tor Vergata, Renato Lauro. «Molte scelte andrebbero riviste, l’esperienza
non è stata positiva - osserva Lauro - Però va anche detto che nel settore
delle professioni sanitarie la laurea di primo livello ha risolto molti
problemi. Penso comunque che se i ragazzi non tengono il passo il problema è
anche legato alla fragilità della loro preparazione». «Certo, la scuola ha le
sue colpe - osserva Mauro Moresi, docente dell’ateneo della Tuscia - E’
soprattutto scarsa la formazione di base in matematica, fisica e in genere
nelle materie scientifiche». Ma anche nel campo letterario ci sono carenze, lo
dimostrano i tanti corsi di alfabetizzazione che molti atenei hanno dovuto
allestire per le matricole.
Quando Luigi Berlinguer si adoperò per varare la riforma, partì dalla
constatazione che l’età dei neolaureati italiani era in media molto alta, oltre
i 27 anni, che le università avevano un numero enorme di studenti fuori corso e
che il numero degli abbandoni era elevato, sette su dieci. Nacque la formula
del ”3+2” che richiedeva che gli universitari si rimboccassero le maniche e
organizzassero i loro insegnamenti in modo efficiente. Pochi lo hanno fatto, il
sistema feudale dell’università italiana ha prodotto reazioni patologiche,
dalla moltiplicazione dei corsi a quella degli esami, incurante degli obiettivi
da raggiungere. >>
[Anna Maria Sersale: “Università: fuori corso quasi la metà / degli studenti. Il flop del 3+2”, il Messaggero, 17 marzo 2009
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=50906&sez=HOME_SCUOLA# ]
<<Lettera aperta a studenti e genitori da parte del Coordinamento
Nazionale Ricercatori Universitari
Cari studenti e genitori,
i “ricercatori” universitari italiani stanno
protestando contro il DDL sull’Università e la manovra finanziaria dell’On.
Tremonti.
Questa forma di protesta comporterà disagi anche
per voi, quindi riteniamo giusto che sappiate perché parte della difficoltà che
sta vivendo l’Università sarà anche da voi condivisa.
L’Università sta vivendo un momento difficile. Le
risorse a disposizione sono andate riducendosi negli anni, i fondi per la
ricerca e per la didattica sono diventati talmente esigui che spesso non si
riesce a fornire il minimo necessario. Talvolta mancano i fondi per le
fotocopie e, sempre più spesso, anche per la carta igienica, come in moltissime
scuole.
Negli anni scorsi la necessaria espansione della
conoscenza e l’indispensabile insegnamento della stessa ha richiesto ad una
società moderna come la nostra di ampliare l’offerta formativa degli atenei. Il
termine offerta formativa indica ciò che gli atenei possono mettere a
disposizione dei cittadini del proprio territorio e del proprio Paese in
termini di corsi e di didattica. L’aumento di tale offerta non è un capriccio
di gente che seduta dietro ad una scrivania pensa a come impiegare tempo e
denaro altrui. In realtà, è un atto di responsabilità che tiene conto delle
esigenze del presente, che cerca di offrire ai giovani gli strumenti per meglio
affrontare le sfide che la moderna società pone. Le mille sfaccettature della
nostra società rendono necessaria un’offerta formativa la più variegata
possibile. Un giovane deve poter scegliere tra mille possibilità formative, non
tra dieci come nel passato, perché a differenza del passato le opportunità di
lavoro sono diversificate così come gli interessi che attendono i giovani di
oggi.
Ma nessuna offerta formativa ha un vero valore se
la “società” non è in grado di offrirla al numero più alto possibile di
giovani. E questo vale soprattutto in un periodo di crisi, allorquando le
famiglie economicamente più deboli sono anche le più colpite dall’aumento dei
costi per l’accesso dei propri figli all’Università.
I tagli al finanziamento dell’Università già da
tempo hanno messo in crisi questo sistema e i “ricercatori” si sono sacrificati
negli anni, svolgendo un compito che permettesse di mantenere la qualità e la
quantità dell’offerta formativa e cioè della didattica.
Questo significa che molti tra quelli che
chiamate “professori” e che hanno insegnato corsi, hanno fatto esami, hanno
assistito gli studenti nelle loro tesi e che hanno raccolto i dubbi e le
frustrazioni durante i vostri anni d’università non sono veri “professori”, ma
“ricercatori”, gente che per dovere deve fare ricerca e non “insegnare” e “fare
lezione”. Questo significa che per fare ciò che permette agli studenti di
imparare, superare gli esami e diventare “dottori”, il ricercatore deve
scegliere tra il proprio dovere e l’interesse dell’università e degli studenti.
Sì, perché solo facendo ricerca e pubblicandola un ricercatore può incrementare
il suo punteggio per fare “carriera” e diventare “professore” di ruolo. La
didattica che permette di mantenere l’offerta formativa e agli studenti di
laurearsi, non è utile per superare un concorso e per progredire nella propria
carriera. Tutto questo sembra incredibile, quasi verrebbe da ridere, se non
fosse che molti giovani ricercatori guadagnano 1.250 euro al mese, si bloccano
gli scatti di anzianità, si riduce la tredicesima e via di questo passo.
Si esce da una crisi anche aumentando le possibilità
creative e di conoscenza dei giovani, si esce da una crisi investendo sul
futuro, come è stato fatto in altri Paesi, e non penalizzando le Università che
debbono formare e trasmettere la creatività e la conoscenza. Si esce da una
crisi anche sponsorizzando chi ha lavorato al di là delle proprie competenze,
perché ha mostrato il proprio valore. Molti, inoltre, perderanno il loro posto
di lavoro, perché “precari” o “a contratto”, pur avendo insegnato e seguito gli
studenti.
I ricercatori stanno protestando nell’unica
maniera civile e legale a loro concessa. D’ora in poi si atterranno soltanto a
ciò che il loro statuto giuridico impone. Quindi, non insegneranno più: la
conseguenza sarà la riduzione dell’offerta formativa degli atenei. Molti
studenti andando nelle segreterie non troveranno più, probabilmente, i corsi
che avrebbero voluto frequentare e dovranno cercarseli in altre università,
ammesso che in altre università, senza i “ricercatori”, tali corsi possano
essere attivati. Questa è la realtà.
Le tasse di iscrizione aumenteranno, i servizi
per gli studenti si ridurranno, l’offerta formativa calerà drasticamente in
quantità e qualità. Ecco perché interessa anche a voi la protesta dei
“ricercatori”.
I “ricercatori” stanno protestando per far sì che
il futuro dell’Università e dei giovani non sia pregiudicato da tagli alle
risorse; i “ricercatori” stanno protestando per avere una “riforma” che preveda
un’Università pubblica pienamente efficiente, che preveda un futuro per tutti i
giovani, che permetta all’Università pubblica di offrire le stesse opportunità
a tutti i suoi cittadini. Perché laurearsi non torni ad essere un privilegio di
pochi.
L’Università deve essere riformata, guarita,
restaurata, amata, desiderata, coccolata; non bistrattata, impoverita e
dimenticata tra i denti di chi la vuole smembrare e sbranare.
Evitare tutto questo dipende in gran parte da noi
che lavoriamo nelle università, ma anche dagli studenti e dai loro genitori:
insomma, dipende da tutti gli Italiani.
Aiutateci a darvi il futuro che tutti meritiamo.
Coordinamento Nazionale Ricercatori Universitari>>
[“Perché protestano i ricercatori”, 1 ottobre
2010, http://w3.uniroma1.it/cnru/?p=889
]
<<I sottoscritti,
docenti presso l’Università e il Politecnico di Torino, riprendendo le
motivazioni e le argomentazioni esposte nelle innumerevoli mozioni e delibere
dei vari organi collegiali dell’ateneo, nonché aderendo alle ragioni
sottostanti la protesta dei ricercatori indisponibili, chiedono ai competenti
organi sindacali la proclamazione di una giornata di sciopero, da tenersi al
più presto.
Si intende con ciò ribadire
con forza la contrarietà al ddl Gelmini che, coniugato con i pesanti tagli al
FFO, segna un attacco senza precedenti alla realtà e all’idea stessa di una
università pubblica, di qualità e per tutti, alla libertà di ricerca e di
insegnamento, al diritto allo studio.
Rifiutiamo in particolare:
·
il progetto di governance prefigurato
dal ddl, ispirato ad una logica verticistica ed aziendalistica
·
i provvedimenti penalizzanti il ruolo dei
ricercatori strutturati
·
l’istituzionalizzazione e l’allungamento del
precariato pre-ruolo
·
il sostanziale abbandono di un sistema di welfare
universitario pubblico a garanzia del diritto allo studio
Chiediamo:
·
il ritiro del ddl Gelmini
· la previsione di finanziamenti adeguati a mantenere il carattere pubblico e autonomo dell’università (art. 33 Cost.), qualità e libertà nella ricerca e nell’insegnamento (art. 33 Cost.), l’accesso agli studi e alla ricerca universitari anche ai «privi di mezzi» (art. 34 Cost.)>>
[“Docenti Universitari
Torinesi per lo sciopero contro il DDL Gelmini”, http://www.lsmetropolis.org/2010/10/du-to-per-sciopero-contro-ddl-gelmini/
]
<<Nella logica da condominio – incapacità di guardare lontano, e
perseguire l'interesse di un singolo invece che quello generale – che domina il
ceto
politico non v'è da stupirsi dell'atteggiamento che si manifesta verso il mondo
della ricerca e dell'insegnamento universitario: misconoscimento dell'una,
svalutazione dell'altro. Quello che, ciò malgrado, un po' sorprende è l'impudicizia
con cui si procede, desertificando il territorio della scienza,
bloccando ogni possibilità di accesso di giovani studiosi alle professioni cui le
loro capacità e aspirazioni li destinerebbero, praticamente cancellando i
fondi di dotazione di atenei e strutture superiori e, a guisa di riparo,
aprendo le porte a capitali privati, a cui, riconoscenti, ministeri e
assessorati
concedono il ruolo guida. Impudicizia: non hanno pudore a distruggere non solo università
e ricerca superiore, ma l'intero sistema scolastico italiano che non
era tra i peggiori del mondo; tutt'altro, specie ai livelli di scuola primaria.
Su tale logica condominiale, si sta materializzando da un paio d'anni il cupio dissolvi: la catastrofe
dell'università non è la fine di un settore, magari
importante, ma pur sempre un settore della vita sociale nazionale; è,
piuttosto, l'annuncio della fine delle speranze di un Paese. Un documento di
studenti
dell'Ateneo dove insegno – quello di Torino – denuncia, nel governo nazionale, ora
spalleggiato da quello regionale, nella mani dei leghisti, proprio la
volontà di cancellare il futuro, con una politica demenziale che nega sostegno agli
studenti e alle loro famiglie (specie le meno abbienti), ricordando il
dettato dell'art. 34 della Costituzione («... I capaci e meritevoli, anche se privi
di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La
Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie
ed altre provvidenze...»). E invece, la Repubblica non solo non aiuta,
ma deprime, scoraggia, dissuade. Già, perché il primo elemento che balza agli occhi
è il ritorno dell'università a luogo per privilegiati; annullando di colpo
tutte le faticose conquiste degli scorsi decenni: privilegio, dico, e non
élite: chi può permettersi di concludere gli studi e, ancor più, tentare
l'accesso alla
«vita degli studi», non può che avere alle spalle una famiglia abbiente. La «meritocrazia»
di cui straparlano le Gelmini e i Brunetta (ma quali sarebbero,
poi, i loro personali «meriti»? Questo lo ignoriamo), è una feroce gerarchia sociale
fondata sul censo (e magari sull'obbedienza), e non sulle qualità
personali, sulla capacità di lavoro, sulla disposizione all'impegno e anche, quando
occorre, al sacrificio.
Naturalmente, analisi come la mia offrirebbero il destro all'esimio editorialista
del Corriere della Sera, Angelo
Panebianco (grande sostenitore
della Gelmini insieme con il capo della Conferenza dei Rettori delle Università
Italiane, la Crui, Enrico Decleva), per altre sparate contro i settori
«conservatori» e «corporativi» che resistono stoltamente alla ventata innovatrice
e modernizzatrice di cui Mariastella sarebbe intrepida protagonista:
e allora per evitarlo, aggiungo, last but
not least, qualche riflessione sullo stato presente dell'Università
italiana. Non posso fingere che non l'Università
in quanto tale, bensì il mondo accademico del Bel Paese, non sia attraversato, non
da oggi, da profondi fenomeni di corruzione: morale e intellettuale. Non è
solo il nepotismo, il clientelismo, la selezione degli aspiranti ricercatori e docenti,
diciamo, poco attenta alla qualità; è una condizione generale, in cui
le norme sono fatte per essere eluse o aggirate; le Facoltà e i Dipartimenti sono
terreni di guerre per bande, definite non da orientamenti ideali e neppure
da affinità disciplinari, ma semplicemente da logiche di appartenenza, per spartirsi
le esigue risorse e accaparrarsi fettine di sottopotere; una
condizione nella quale la differenza tra destra e sinistra è pressoché inesistente;
mentre, a dispetto di tutto il Sessantotto passato e i possibili
futuri, vige tuttora, in troppi ambienti, una logica feudale e mafiosa: si procede
in base alla fedeltà al capo: e si è premiati se essa è totale, si è
messi in guardia o direttamente minacciati se vacilla; infine, se si osa la ribellione,
si subiscono pesanti ritorsioni o, semplicemente, si è «invitati» a
cercare altrove il proprio destino.
E allora, io ho firmato il documento dei docenti torinesi (e anche quello degli
studenti) contro le logiche sciagurate della signora Gelmini; ma non dimentico,
e mi batterò con ugual forza contro lo schifo che promana dall'interno dell'accademia.>>
[Angelo d'Orsi:* “La distruggono dall'esterno, la squalificano dall'interno”, il manifesto, 9 ottobre 2010
* Angelo D'Orsi professore di
Scienze politiche, ha firmato l'appello contro il ddl Gelmini insieme ad altri
200 docenti dell'Università di Torino e del
Politecnico]