Sara Gandini* e Marco Mamone Capria**
L’epidemiologia e le insensatezze dell’emergenza coronavirus
Sara Gandini* e Marco Mamone Capria**
Sono tanti gli episodi assurdi, al limite del surreale, che sono accaduti durante questo periodo di lockdown, episodi in cui si manifestano tutti i limiti dei ragionamenti che contrappongono il diritto alla salute con il diritto al lavoro, come se potessero essere disgiunti. Ma se non si ha un lavoro, se non si ha di che comprarsi da mangiare, come si fa a stare in salute? Se non si ha una casa, anzi una casa decente, dove e come si può fare la quarantena? La crisi economica che ci aspetta sarà pesantissima: come pagheremo la sanità pubblica? E soprattutto come pagherà le proprie spese sanitarie chi uscirà maggiormente indebolito da questa crisi, quando è ben noto che già prima di essa milioni di italiani rinunciavano ogni anno a cure che non si potevano permettere? Questo fantomatico “diritto alla salute”, che, come in questi mesi sembra essere stato dimenticato, la Costituzione italiana mette molto dopo l’articolo 13, porta persino a rinunciare a bisogni simbolici come quello di celebrare i funerali, in un momento in cui non si può nemmeno assistere i propri cari in ospedale.
Il bombardamento mediatico ha non solo angosciato la popolazione, ma intimorito la comunità scientifica nazionale, rendendola restia a mettere in discussione le basi razionali del lockdown, e facendole avvertire come pericolosa persino la necessità di studiare le caratteristiche della malattia, fare confronti con gli altri paesi e con altre malattie, per capirne la natura e come affrontarla. Un confronto utile è per esempio quello tra la mortalità di questi mesi con quella del 2015, in cui in Italia nei primi 8 mesi del 2015 si sono registrati 45.000 decessi in più (dati Istat), e in cui l'incremento di morti potrebbe essere dovuto in larga parte alle sindromi similnfluenzali, di cui il Covid-19 è il più nuovo esempio. In quell'anno, in molti comuni italiani abbiamo avuto più decessi di quanti ne abbiamo avuti quest'anno e in Lombardia un numero simile.
Diversi articoli anche sulla stampa uscirono quell’anno e negli anni seguenti, per denunciare che le terapie intensive in Lombardia erano al collasso per l’influenza.
Facciamo anche notare che l’inquinamento atmosferico, e soprattutto nell’area geografica più colpita dal Covid-19, rappresenta una causa e concausa di decessi difficile da sopravvalutare, se si considera che nel 2016 si sono contati in Italia 14.600 decessi per biossido di azoto (NO2), 3000 per ozono (O3) e 58.600 per il particolato sottile PM2,5.
Anche su queste cifre, che sicuramente non rappresentano un’emergenza sanitaria inferiore al Covid-19 e che hanno portato il nostro paese davanti alla Corte di Giustizia europea, i media hanno generalmente taciuto e non si è sviluppato attorno ad esse nessun ampio dibattito politico.
È proprio grazie a questi confronti che appare evidente che la ragione della crisi attuale è da ricercare non tanto nell'imprevedibilità del virus, quanto in scelte irresponsabili di chi ci ha governato e ha ritenuto opportuno, in ossequio a vincoli di bilancio che andavano invece contrattati in sede europea senza aspettare il Covid-19, disinvestire nella sanità pubblica, nonostante le denunce di medici ed epidemiologi. È il caso di sottolineare anche un altro fatto, ignorato dai principali media, che nel 2016 in Italia ci sono stati 49.301 decessi per infezioni ospedaliere, e che nel nostro Paese si verifica il 30% dei decessi per sepsi nei 28 Paesi Ue. È evidente che la contaminazione dei reparti ospedalieri ha contribuito alla crisi delle strutture sanitarie che troppi vorrebbero attribuire esclusivamente al Covid-19. Esplicitare questo vuol dire capire quali sono le strategie giuste da attuare, ci permette ad esempio di studiare alternative come quella della Germania e quella della Svezia che non hanno dovuto chiudere tutto (8). Il confronto con la Germania ci insegna l’importanza di investire nei medici di base, nell’assistenza medica territoriale e in generale nella sanità, che da noi ha subito tagli pesantissimi. Nel 2019 l’osservatorio GIMBE denunciava che negli ultimi 10 anni ci sono stati tagli e definanziamento del Servizio Sanitario Nazionale pari a 37 miliardi. Già nel 2014 erano state fatte denunce che mostravano come il diritto costituzionale alla salute dei cittadini italiani sia subordinato alle esigenze della finanza pubblica che attraverso decine di miliardi di tagli ha messo in forte crisi il Sistema Sanitario Nazionale. Anche l'ISTAT ricordava in questi giorni i tagli alla sanità sottolineando che dal 2009 in questo settore c'è stata una progressiva riduzione degli occupati a tempo indeterminato, invecchiamento del personale e crescita del ricorso al lavoro flessibile. Purtroppo nei momenti in cui la popolazione è terrorizzata c’è bisogno di certezze e i ragionamenti critici spaventano. Ciò che però sorprende è la disponibilità di scienziati di ispirare drammatiche scelte di governo sulla base di argomenti e modelli matematici non sottoposti al vaglio della comunità scientifica. L’autorità della scienza funziona solo se le conclusioni ottenute da uno studio possono essere messe liberamente in discussione. Il metodo scientifico si basa sulla formulazione di ipotesi che devono poter essere confermate o confutate dall’analisi dei dati. Tutti i ricercatori dovrebbero esplicitare fin dall'inizio le loro tesi e mostrare se i dati le supportano o le negano, chiarendo i metodi e le fonti usate per analizzarli. La tesi sostenuta dalla maggioranza è che sia stato sottovalutato il problema e che la causa dell'aumento delle morti in alcuni comuni della Lombardia sia dovuta a questa sottovalutazione del problema e che se avessimo fatto un lockdown completo, con misure draconiane fin da subito, questo non sarebbe successo. Ma questo andrebbe dimostrato e il compito non sarà facile. È innegabile che in alcuni comuni della Lombardia e in alcune RSA sono successe delle tragedie. Ma uno dei motivi principali di queste tragedie è stato l’avere concentrato tutta l’emergenza negli ospedali, favorendo anche un’epidemia parallela di errori diagnostici, e non avere puntato sulla sanità territoriale per il trattamento precoce. L’avere affrontato un problema di salute pubblica con un linguaggio e una mentalità bellici, e con una gestione da “protezione civile” ha fatto il resto.
I primi provvedimenti presi dal governo e gli inviti alla precauzione, come ad esempio il decreto del presidente del consiglio dei ministri (DPCM) dell’8 marzo in cui si raccomandava a tutte le persone anziane o affette da una o più patologie croniche di evitare di uscire dalla propria abitazione, se non in caso di stretta necessità, erano ragionevoli. Del resto, le stesse direttive dell’OMS suggeriscono di isolare il maggior numero possibile di persone entrate in contatto con il virus e mettere in quarantena i loro contatti più stretti – non altro. L'evidenza scientifica sull'efficacia di ulteriori misure di controllo della diffusione del virus, a cominciare dalla prescrizione di mascherine a tutta la popolazione, è infatti molto debole. A riconferma il capo del Programma di emergenze sanitarie dell’OMS Mike Ryan ha ultimamente dichiarato che a loro giudizio “la Svezia ha messo in atto misure di salute pubblica molto forti. Quello che hanno fatto di diverso è che si sono basati su un rapporto di fiducia con la cittadinanza". In Italia, invece, si è pensato che ci fosse bisogno di misure autoritarie per mettere in sicurezza i cittadini, concepiti in generale come degli irresponsabili, e dissimulando il fatto che le tragedie accadute in realtà sono tutte a carico di chi amministra la sanità.
Bisogna tenere presente che le previsioni sulla catastrofe sanitaria che la chiusura tardiva del Nord avrebbe provocato al Sud non si sono avverate, e questo fatto meriterebbe di essere oggetto di attente riflessioni. Alcuni epidemiologi che studiano le influenze stagionali e i Coronavirus del passato sostengono che quando “riapriremo” il virus tornerà e che tra un anno le differenze tra paesi che hanno applicato un lockdown più o meno rigido saranno dovute più alla struttura demografica e sociale della popolazione che alle misure adottate. Anche John Ionnadis, professore in epidemiologia alla Stanford University, spiega da tempo che la mortalità da Covid-19 sembra essere molto sovrastimata. Uno studio ha stimato tra i 25 e i 43 mila decessi attribuibili alle similinfluenze in ognuna delle stagioni influenzali tra il 2013 e il 2017, numeri non così dissimili da quelli del Covid-19. Nel 2017, nel periodo 1 marzo – 30 aprile, in Italia i decessi con presenza di almeno una malattia respiratoria sono stati 27.083. Nello stesso periodo i decessi con Covid-19 rilevati dal sistema di sorveglianza1nel 2020 ammontano a 27.938. È inoltre interessante notare che ad esempio in UK i tassi di mortalità delle quattro cause non Covid-19 nel mese di marzo sono tutti al di sotto della media dei precedenti 5 anni, e denunce simili sono state fatte anche in Italia. L’ipotesi è che anche decessi che sarebbero accaduti comunque per altre cause preponderanti vengano etichettati come Covid-19. Questo è grave anche perché la paura del Covid-19 ha fatto sì che il numero di accessi in pronto soccorso per ischemie e infarti sia calato significativamente aumentando le morti per arresto cardiaco non solo in Italia ma anche all’estero. Durante il lockdown per fare fronte all’emergenza diversi trattamenti per altre patologie sono state rimandati, sebbene si tratti anche di patologie conuna mortalità molto elevata., come quelle oncologiche Anche in futuro l’attività diagnostica e di cura, che già oggi comporta liste d’attesa lunghe, avrà ritardi nei trattamenti di patologie che, affrontate tempestivamente, potrebbero invece essere curate in modo migliore.
I modelli predittivi che cercano di dimostrare l’efficacia del lockdown completo sono necessariamente contraddittori, dovendo semplificare e modellizzare realtà estremamente complesse. Bisognerebbe almeno esplicitare le fonti di variabilità e le ipotesi da cui si parte, ma gli stessi modelli dell'Imperial College, che hanno influenzato grandemente le scelte di molti paesi, non erano nemmeno passati al vaglio della revisione indipendente di alcuna rivista scientifica, e questo è esattamente quanto avvenuto anche per i rapporti del Comitato tecnico-scientifico del governo Conte. Ciò è grave, perché tutte le analisi hanno dei limiti e le interpretazioni non sono mai univoche. I dati sono sempre discussi dal singolo ricercatore partendo dalle proprie competenze, e ogni analisi dipende dalle urgenze dell’autore della ricerca: da cosa decide di mettere al centro, da cosa vuole dimostrare. La comunità scientifica ha il dovere proprio di aiutare a comprendere se le analisi sono state condotte correttamente, se i dati sono stati interpretati coerentemente, se sono stati messi in rilievo i limiti, e se si può aggiungere altro. In ambito scientifico il parere del singolo esperto conta molto poco. Ciò che conta è il lavoro della comunità scientifica nel suo complesso, che però deve essere lasciata libera di confrontarsi senza censure e autocensure.
La tesi del rapporto del Comitato Tecnico Scientifico alla base del DPCM del 26 aprile è che sia necessario rallentare la riapertura perché in caso contrario le conseguenze sul sistema sanitario sarebbero terribili. Oltre a calcoli di dubbio valore, come evidenziato da previsioni irrealistiche, e la mancata considerazione del profilo geografico ed ecologico dell‘epidemia, mancanza che di per sé sminuisce il valore di raccomandazioni fondate soltanto sul modello matematico utilizzato, era necessario tenere conto del benessere della comunità nel suo complesso e includere gli effetti a tutto tondo del lockdown nel presente ma anche nel futuro. Perché se il paese entrerà in recessione non avremo le risorse per pagare il sistema sanitario nazionale e fare gli investimenti necessari per una ricerca scientifica non governata da interessi privati, della quale abbiamo estremo bisogno per una vasta gamma di problematiche sanitarie, che non si riducono certo alle malattie contagiose.
Molti intellettuali di sinistra scrivono che non è per obbedienza passiva a un ordine imposto che gli italiani hanno accettato senza problemi il lockdown, e che l’unico modo in cui in questo momento ci si può prendere “cura dell’altro” è proprio l’isolamento. Sembrerebbe un ragionamento sensato, se non fosse che buona parte della popolazione è fuori dal quadro della narrazione. Per permettere a noi di restare a casa bisogna che qualcuno ci procuri tutti gli oggetti e servizi che ci fanno stare tranquilli, dalle mascherine, ai test, alla sanità…. al cibo portato dai riders. Per permettere a noi benestanti di non correre rischi condanniamo gran parte della popolazione alla disoccupazione e alla povertà. Si fa precipitare una nazione in una crisi economica paragonabile a quella del 1929, e si osa chiamare tutto questo solidarietà. È il corto circuito intellettuale di una sedicente sinistra che in effetti adotta una postura individualista mascherata da sollecitudine per la salute pubblica e si dimentica di tutti coloro che un lavoro e una casa proprio non li hanno o li hanno persi.
Naomi Klein nel volume pubblicato nel 2007 [Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri, ndt] già avvertiva che emergenze come quelle delle pandemie creano le condizioni ideali per realizzare programmi politici che in circostanze differenti incontrerebbero una durissima opposizione. Il cosiddetto “capitalismo dei disastri” nasce grazie alle speculazioni sulle catastrofi e sulle guerre sia a livello economico che politico. Come ha detto quest’anno: «Nei momenti di crisi, le persone tendono a concentrarsi sull’emergenza quotidiana del sopravvivere alla crisi, qualunque essa sia, e tendono a riporre fiducia eccessiva nel gruppo al potere». Il messaggio che passa è che per il bene di tutti sia necessario ridurre le libertà, compresa quella di opporsi alle scelte del governo, in nome di una mitica unità nazionale, proprio nel momento in cui l’emergenza rende più profonde le diseguaglianze. Rinunciando allo spazio per praticare il conflitto, nel giro di qualche giorno ci potremmo ritrovare tutti a lavorare dal lunedì alla domenica, dalle 7 di mattina all’una di notte – naturalmente solo perché lo Stato possa difendere la nostra salute...
Peraltro l'obiettivo del lockdown doveva essere quello di prendere tempo per far sì che il virus si diffondesse lentamente, per potenziare i reparti di terapia intensiva e al tempo stesso renderli meno necessari anche grazie a diagnosi personalizzate, fornire un numero di dispositivi di protezione individuale (dpi) a tutti coloro che ne hanno bisogno, dare tempo ai medici per sperimentare terapie e capire come fare a migliorare la prognosi, nonché educare la società a nuovi comportamenti più responsabili. L'obiettivo non era e non poteva essere arrivare a 0 contagi. Non viviamo in una isola, i confini delle nazioni sono porosi, viviamo in un mondo globalizzato... Ma con il terrorismo mediatico messo in scena non è facile fare ordine nelle paure.
Nella fase 2 bisogna imparare a convivere con il virus, anzi con i virus similinfluenzali nel loro complesso, e pensare a tutelare le persone a rischio anche perché prima di un anno, come minimo, non ci sarà un vaccino da proporre, con tutte le cautele del caso e il rispetto per le scelte individuali, ai soggetti più a rischio. Come si ritrova anche nel documento pubblicato su JacobinItalia dal titolo “Primum vivere, non sopravvivere”, sappiamo chi sono le persone che hanno maggiori possibilità di sviluppare forme gravi di malattia.
Tutte le persone a rischio (primi fra tutti gli uomini dai 65 anni in su e sotto i 65 ma con patologie concomitanti) devono ricevere spiegazioni e indicazioni, principalmente dai propri medici di base, sui rischi che corrono ma deve essere chiaro che tutelare non vuol dire rinchiudere, restare a casa è una possibilità che – se scelta liberamente – va sostenuta con servizi a domicilio.
Nel frattempo (e può essere un tempo molto più lungo di quanto certi media suggeriscono), è evidente che, mantenendo la protezione per i soggetti più fragili, bisogna fare in modo che quante più persone è possibile acquisiscano gli anticorpi. Il virus deve diffondersi perché più persone sviluppino immunità, e sia possibile curare l’infezione anche con il plasma di pazienti guariti.
Più si diffonderà e meno avremo paura, ma cosa è stato fatto per affrontare il prossimo diffondersi del virus? quali misure sono state messe in campo per dare ai cittadini la fiducia necessaria per affrontare la fase 2 con tranquillità? Invece di creare ospedali fantasma mai utilizzati non sarebbe meglio aumentare le assunzioni a tempo indeterminato di medici, infermieri e personale sanitario? Perché se le paure portano alla depressione, psicologica ed economica, allora sì che sono guai. Non si può pensare ad esempio che la soluzione sia tenere chiuse le scuole o lasciare a casa i bambini a turni perché potrebbero essere contagiosi. Primo perché è ovvio che non si può tornare a lavorare se si tengono chiuse le scuole, secondo perché chi pagherebbe questa chiusura più di tutti al solito sarebbero le donne, terzo perché se non si lavora non ci sono nemmeno i soldi per pagare la sanità e le spese mediche di ognuno. Per altro una revisione sistematica della letteratura pubblicata The Lancet Child & Adolescent Health mostra che l’evidenza scientifica a sostegno della chiusura nazionale delle scuole per combattere il covid-19 è molto debole, e i dati relativi alle epidemie di influenza suggeriscono che le chiusure delle scuole potrebbero avere effetti relativamente piccoli su un virus dall’elevata trasmissibilità, come quella attribuita al CoV-2.
È ora quindi che chi ci governa si assuma le responsabilità di questa emergenza e non faccia di nuovo ricadere sui cittadini le responsabilità e le conseguenze degli errori fatti – la cura non deve essere peggiore del male che si vuole curare. Per non trovarci impreparati di fronte alle prossime inevitabili malattie epidemiche e al contempo per tenere in conto di tutte le patologie, anche quelle non trasmissibili ma legate agli stili di vita e all’inquinamento, è necessario investire sulla ricerca scientifica, sulla prevenzione e su un’informazione medico-sanitaria equilibrata e senza false certezze.
*Sara
Gandini, Epidemiologa/Biostatistica presso l’Istituto Europeo
di Oncologia di Milano. Professoressa a contratto di statistica
medica presso l'Università Statale di Milano
https://www.researchgate.net/profile/Sara_Gandini
**Marco Mamone Capria, matematico ed epistemologo presso l'università di Perugia, coordina il progetto Scienza e Democrazia (www.dmi.unipg.it/mamone/sci-dem) e collabora con l'organo dell'Ordine Nazionale Biologi.
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Facciamo anche notare che l’inquinamento atmosferico, e soprattutto nell’area geografica più colpita dal Covid-19, rappresenta una causa e concausa di decessi difficile da sopravvalutare, se si considera che nel 2016 si sono contati in Italia 14.600 decessi per biossido di azoto (NO2), 3000 per ozono (O3) e 58.600 per il particolato sottile PM2,5.
Anche su queste cifre, che sicuramente non rappresentano un’emergenza sanitaria inferiore al Covid-19 e che hanno portato il nostro paese davanti alla Corte di Giustizia europea, i media hanno generalmente taciuto e non si è sviluppato attorno ad esse nessun ampio dibattito politico.
È proprio grazie a questi confronti che appare evidente che la ragione della crisi attuale è da ricercare non tanto nell'imprevedibilità del virus, quanto in scelte irresponsabili di chi ci ha governato e ha ritenuto opportuno, in ossequio a vincoli di bilancio che andavano invece contrattati in sede europea senza aspettare il Covid-19, disinvestire nella sanità pubblica, nonostante le denunce di medici ed epidemiologi. È il caso di sottolineare anche un altro fatto, ignorato dai principali media, che nel 2016 in Italia ci sono stati 49.301 decessi per infezioni ospedaliere, e che nel nostro Paese si verifica il 30% dei decessi per sepsi nei 28 Paesi Ue. È evidente che la contaminazione dei reparti ospedalieri ha contribuito alla crisi delle strutture sanitarie che troppi vorrebbero attribuire esclusivamente al Covid-19. Esplicitare questo vuol dire capire quali sono le strategie giuste da attuare, ci permette ad esempio di studiare alternative come quella della Germania e quella della Svezia che non hanno dovuto chiudere tutto (8). Il confronto con la Germania ci insegna l’importanza di investire nei medici di base, nell’assistenza medica territoriale e in generale nella sanità, che da noi ha subito tagli pesantissimi. Nel 2019 l’osservatorio GIMBE denunciava che negli ultimi 10 anni ci sono stati tagli e definanziamento del Servizio Sanitario Nazionale pari a 37 miliardi. Già nel 2014 erano state fatte denunce che mostravano come il diritto costituzionale alla salute dei cittadini italiani sia subordinato alle esigenze della finanza pubblica che attraverso decine di miliardi di tagli ha messo in forte crisi il Sistema Sanitario Nazionale. Anche l'ISTAT ricordava in questi giorni i tagli alla sanità sottolineando che dal 2009 in questo settore c'è stata una progressiva riduzione degli occupati a tempo indeterminato, invecchiamento del personale e crescita del ricorso al lavoro flessibile. Purtroppo nei momenti in cui la popolazione è terrorizzata c’è bisogno di certezze e i ragionamenti critici spaventano. Ciò che però sorprende è la disponibilità di scienziati di ispirare drammatiche scelte di governo sulla base di argomenti e modelli matematici non sottoposti al vaglio della comunità scientifica. L’autorità della scienza funziona solo se le conclusioni ottenute da uno studio possono essere messe liberamente in discussione. Il metodo scientifico si basa sulla formulazione di ipotesi che devono poter essere confermate o confutate dall’analisi dei dati. Tutti i ricercatori dovrebbero esplicitare fin dall'inizio le loro tesi e mostrare se i dati le supportano o le negano, chiarendo i metodi e le fonti usate per analizzarli. La tesi sostenuta dalla maggioranza è che sia stato sottovalutato il problema e che la causa dell'aumento delle morti in alcuni comuni della Lombardia sia dovuta a questa sottovalutazione del problema e che se avessimo fatto un lockdown completo, con misure draconiane fin da subito, questo non sarebbe successo. Ma questo andrebbe dimostrato e il compito non sarà facile. È innegabile che in alcuni comuni della Lombardia e in alcune RSA sono successe delle tragedie. Ma uno dei motivi principali di queste tragedie è stato l’avere concentrato tutta l’emergenza negli ospedali, favorendo anche un’epidemia parallela di errori diagnostici, e non avere puntato sulla sanità territoriale per il trattamento precoce. L’avere affrontato un problema di salute pubblica con un linguaggio e una mentalità bellici, e con una gestione da “protezione civile” ha fatto il resto.
I primi provvedimenti presi dal governo e gli inviti alla precauzione, come ad esempio il decreto del presidente del consiglio dei ministri (DPCM) dell’8 marzo in cui si raccomandava a tutte le persone anziane o affette da una o più patologie croniche di evitare di uscire dalla propria abitazione, se non in caso di stretta necessità, erano ragionevoli. Del resto, le stesse direttive dell’OMS suggeriscono di isolare il maggior numero possibile di persone entrate in contatto con il virus e mettere in quarantena i loro contatti più stretti – non altro. L'evidenza scientifica sull'efficacia di ulteriori misure di controllo della diffusione del virus, a cominciare dalla prescrizione di mascherine a tutta la popolazione, è infatti molto debole. A riconferma il capo del Programma di emergenze sanitarie dell’OMS Mike Ryan ha ultimamente dichiarato che a loro giudizio “la Svezia ha messo in atto misure di salute pubblica molto forti. Quello che hanno fatto di diverso è che si sono basati su un rapporto di fiducia con la cittadinanza". In Italia, invece, si è pensato che ci fosse bisogno di misure autoritarie per mettere in sicurezza i cittadini, concepiti in generale come degli irresponsabili, e dissimulando il fatto che le tragedie accadute in realtà sono tutte a carico di chi amministra la sanità.
Bisogna tenere presente che le previsioni sulla catastrofe sanitaria che la chiusura tardiva del Nord avrebbe provocato al Sud non si sono avverate, e questo fatto meriterebbe di essere oggetto di attente riflessioni. Alcuni epidemiologi che studiano le influenze stagionali e i Coronavirus del passato sostengono che quando “riapriremo” il virus tornerà e che tra un anno le differenze tra paesi che hanno applicato un lockdown più o meno rigido saranno dovute più alla struttura demografica e sociale della popolazione che alle misure adottate. Anche John Ionnadis, professore in epidemiologia alla Stanford University, spiega da tempo che la mortalità da Covid-19 sembra essere molto sovrastimata. Uno studio ha stimato tra i 20 e i 25 mila decessi attribuibili all'influenza per anno in Italia nelle stagioni invernali tra il 2013 e il 2017, numeri non così dissimili da quelli del Covid-19. Nel 2017, nel periodo 1 marzo – 30 aprile, in Italia i decessi con presenza di almeno una malattia respiratoria sono stati 27.083. Nello stesso periodo i decessi con Covid-19 rilevati dal sistema di sorveglianza1nel 2020 ammontano a 27.938. È inoltre interessante notare che ad esempio in UK i tassi di mortalità delle quattro cause non Covid-19 nel mese di marzo sono tutti al di sotto della media dei precedenti 5 anni, e denunce simili sono state fatte anche in Italia. L’ipotesi è che anche decessi che sarebbero accaduti comunque perché legati per altre cause vengano etichettati come Covid-19. Questo è grave anche perché la paura del Covid-19 ha fatto sì che il numero di accessi in pronto soccorso per ischemie e infarti sia calato significativamente aumentando le morti per arresto cardiaco in Italia ma anche all’estero. Durante il lockdown per fare fronte all’emergenza diversi trattamenti per altre patologie sono state rimandati, sebbene si tratti anche di patologie come quelle oncologiche che hanno una mortalità molto elevata., come quelle oncologiche Anche in futuro l’attività diagnostica e di cura, che già oggi comporta liste d’attesa lunghe, avrà ritardi nei trattamenti di patologie che, affrontate tempestivamente, potrebbero invece essere curate in modo migliore.
I modelli predittivi che cercano di dimostrare l’efficacia del lockdown completo sono necessariamente contraddittori, dovendo semplificare e modellizzare realtà estremamente complesse. Bisognerebbe almeno esplicitare le fonti di variabilità e le ipotesi da cui si parte, ma gli stessi modelli dell'Imperial College, che hanno influenzato grandemente le scelte di molti paesi, non erano nemmeno passati al vaglio della revisione indipendente di alcuna rivista scientifica, e questo è esattamente quanto avvenuto anche per i rapporti del Comitato tecnico-scientifico del governo Conte. Ciò è grave, perché tutte le analisi hanno dei limiti e le interpretazioni non sono mai univoche. I dati sono sempre discussi dal singolo ricercatore partendo dalle proprie competenze, e ogni analisi dipende dalle urgenze dell’autore della ricerca: da cosa decide di mettere al centro, da cosa vuole dimostrare. La comunità scientifica ha il dovere proprio di aiutare a comprendere se le analisi sono state condotte correttamente, se i dati sono stati interpretati coerentemente, se sono stati messi in rilievo i limiti, e se si può aggiungere altro. In ambito scientifico il parere del singolo esperto conta molto poco. Ciò che conta è il lavoro della comunità scientifica nel suo complesso, che però deve essere lasciata libera di confrontarsi senza censure e autocensure.
La tesi del rapporto del Comitato Tecnico Scientifico alla base del DPCM del 26 aprile è che sia necessario rallentare la riapertura perché in caso contrario le conseguenze sul sistema sanitario sarebbero terribili. Oltre a calcoli di dubbio valore, come evidenziato da previsioni irrealistiche, e la mancata considerazione del profilo geografico ed ecologico dell‘epidemia, mancanza che di per sé sminuisce il valore di raccomandazioni fondate soltanto sul modello matematico utilizzato, era necessario tenere conto del benessere della comunità nel suo complesso e includere gli effetti a tutto tondo del lockdown nel presente ma anche nel futuro. Perché se il paese entrerà in recessione non avremo le risorse per pagare il sistema sanitario nazionale e fare gli investimenti necessari per una ricerca scientifica non governata da interessi privati, della quale abbiamo estremo bisogno per una vasta gamma di problematiche sanitarie, che non si riducono alle malattie contagiose.
Molti intellettuali di sinistra scrivono che non è per obbedienza passiva a un ordine imposto che gli italiani hanno accettato senza problemi il lockdown, e che l’unico modo in cui in questo momento ci si può prendere “cura dell’altro” è proprio l’isolamento. Sembrerebbe un ragionamento sensato, se non fosse che buona parte della popolazione è fuori dal quadro della narrazione. Per permettere a noi di restare a casa bisogna che qualcuno ci procuri tutti gli oggetti e servizi che ci fanno stare tranquilli, dalle mascherine, ai test, alla sanità…. al cibo portato dai riders. Per permettere a noi benestanti di non correre rischi condanniamo gran parte della popolazione alla disoccupazione e alla povertà. Si fa precipitare una nazione in una crisi economica paragonabile a quella del 1929, e si osa chiamare tutto questo solidarietà. È il corto circuito intellettuale di una sedicente sinistra che in effetti adotta una postura individualista mascherata da sollecitudine per la salute pubblica e si dimentica di tutti coloro che un lavoro e una casa proprio non li hanno o li hanno persi.
Naomi Klein nel volume pubblicato nel 2007 [Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri, ndt] già avvertiva che emergenze come quelle delle pandemie creano le condizioni ideali per realizzare programmi politici che in circostanze differenti incontrerebbero una durissima opposizione. Il cosiddetto “capitalismo dei disastri” nasce grazie alle speculazioni sulle catastrofi e sulle guerre sia a livello economico che politico. Come ha detto quest’anno: “Nei momenti di crisi, le persone tendono a concentrarsi sull’emergenza quotidiana del sopravvivere alla crisi, qualunque essa sia, e tendono a riporre fiducia eccessiva nel gruppo al potere”. Il messaggio che passa è che per il bene di tutti sia necessario ridurre le libertà, compresa quella di opporsi alle scelte del governo, in nome di una mitica unità nazionale, proprio nel momento in cui l’emergenza rende più profonde le diseguaglianze. Rinunciando allo spazio per praticare il conflitto, nel giro di qualche giorno ci potremmo ritrovare tutti a lavorare dal lunedì alla domenica, dalle 7 di mattina all’una di notte – naturalmente solo perché lo Stato possa difendere la nostra salute...
Peraltro l'obiettivo del lockdown doveva essere quello di prendere tempo per far sì che il virus si diffondesse lentamente, per potenziare i reparti di terapia intensiva e al tempo stesso renderli meno necessari anche grazie a diagnosi personalizzate, fornire un numero di a tutti coloro che ne hanno bisogno, dare tempo ai medici per sperimentare terapie e capire come fare a migliorare la prognosi, nonché educare la società a nuovi comportamenti più responsabili. L'obiettivo non era e non poteva essere arrivare a 0 contagi. Non viviamo in una isola, i confini delle nazioni sono porosi, viviamo in un mondo globalizzato... Ma con il terrorismo mediatico messo in scena non è facile fare ordine nelle paure.
Nella fase 2 bisogna imparare a convivere con il virus, anzi con i virus similinfluenzali nel loro complesso, e pensare a tutelare le persone a rischio anche perché prima di un anno, come minimo, non ci sarà un vaccino da proporre, con tutte le cautele del caso e il rispetto per le scelte individuali, ai soggetti più a rischio. Come si ritrova anche nel documento pubblicato su JacobinItalia dal titolo “Primum vivere, non sopravvivere”, sappiamo chi sono le persone che hanno maggiori possibilità di sviluppare forme gravi di malattia. “Tutte le persone a rischio (primi fra tutti gli uomini dai 65 anni in su e sotto i 65 ma con patologie concomitanti) devono ricevere spiegazioni e indicazioni, principalmente dai propri medici di base, sui rischi che corrono ma deve essere chiaro che tutelare non vuol dire rinchiudere, restare a casa è una possibilità che – se scelta liberamente – va sostenuta con servizi a domicilio”. Nel frattempo (e può essere un tempo molto più lungo di quanto certi media suggeriscono), è evidente che, mantenendo la protezione per i soggetti più fragili, bisogna fare in modo che quante più persone è possibile acquisiscano gli anticorpi. Il virus deve diffondersi perché più persone sviluppino immunità, e sia possibile curare l’infezione anche con il plasma di pazienti guariti.
Più si diffonderà e meno avremo paura, ma cosa è stato fatto per affrontare il prossimo diffondersi del virus? quali misure sono state messe in campo per dare ai cittadini la fiducia necessaria per affrontare la fase 2 con tranquillità? Invece di creare ospedali fantasma mai utilizzati non sarebbe meglio aumentare le assunzioni a tempo indeterminato di medici, infermieri e personale sanitario? Perché se le paure portano alla depressione, psicologica ed economica, allora sì che sono guai. Non si può pensare ad esempio che la soluzione sia tenere chiuse le scuole o lasciare a casa i bambini a turni perché potrebbero essere contagiosi. Primo perché è ovvio che non si può tornare a lavorare se si tengono chiuse le scuole, secondo perché chi pagherebbe questa chiusura più di tutti al solito sarebbero le donne, terzo perché se non si lavora non ci sono nemmeno i soldi per pagare la sanità e le spese mediche di ognuno. Per altro una revisione sistematica della letteratura pubblicata The Lancet Child & Adolescent Health mostra che l’evidenza scientifica a sostegno della chiusura nazionale delle scuole per combattere il covid-19 è molto debole e i dati relativi alle epidemie di influenza suggeriscono che le chiusure delle scuole potrebbero avere effetti relativamente piccoli su un virus come il COVID-19.
È ora quindi che chi ci governa si assuma le responsabilità di questa emergenza e non faccia di nuovo ricadere sui cittadini le responsabilità e le conseguenze degli errori fatti – la cura non deve essere peggiore del male che si vuole curare. Per non trovarci impreparati di fronte alle prossime inevitabili pandemie e al contempo per tenere in conto di tutte le patologie, anche quelle non trasmissibili ma legate agli stili di vita e all’inquinamento, è necessario investire sulla ricerca scientifica, sulla prevenzione.
*Sara
Gandini, Epidemiologa/Biostatistica presso l’Istituto Europeo
di Oncologia di Milano. Professoressa a contratto di statistica
medica presso l'Università Statale di Milano
https://www.researchgate.net/profile/Sara_Gandini
**Marco Mamone Capria, matematico ed epistemologo presso l'università di Perugia, coordina il progetto Scienza e Democrazia (www.dmi.unipg.it/mamone/sci-dem) e collabora con l'organo dell'Ordine Nazionale Biologi.
Inserito: 17 maggio 2020
Scienza e Democrazia/Science and Democracy
www.dmi.unipg.it/mamone/sci-dem