Stefano Dumontet, Marco Mamone Capria
Covid-19: una patologia di una società malata
È importante ricordare che la nostra società non soffre solo di patologie nel senso medico del termine. Siamo anche malati di un’informazione distorta e propagandistica, i cui esponenti si costituiscono in inquisizione per spegnere sul nascere i tentativi di rettificarla, lanciandosi in attacchi contro i presunti fomentatori di “fake news” – il nuovo anglismo con cui si cerca di evitare di entrare nel merito delle critiche limitandosi a denigrarle.
Il risultato è un malessere informativo – che possiamo chiamare “infodemia” – quotidianamente diffuso tra i cittadini, che subiscono danni di varia natura: disorientamento, paura e disponibilità ad accettare qualunque “verità rivelata”, per quanto infondata o irrazionale.
Una caratteristica dell’infodemia è quella di travisare le conclusioni riportate in alcune pubblicazioni scientifiche, trasformando ipotesi di lavoro in verità assolute. Tali verità vengono poi regolarmente smentite da altri risultati, che dipingono una diversa, e a volte opposta, realtà. La selezione delle ricerche su cui fare leva permette un arbitrio completo sulle pretese basi scientifiche dei processi decisionali, e gli stessi risultati possono essere trattati come canonici quando fa comodo e ridicolizzati quando non fa più comodo. La scienza, dipinta come unica dispensatrice di verità, è in effetti amministrata da presunti esperti capaci di negare anche l’evidenza, e che a volte mostrano sintomi anche esteriori di psicopatia. Tutto questo senza un’analisi complessiva delle evidenze disponibili che le collochi in un quadro coerente ed equilibrato.
Nella gestione della presunta emergenza sanitaria del covid-19, gli esempi di tale situazione sono innumerevoli. Si va dalle dichiarazioni apodittiche sull’assoluta e riconosciuta impossibilità di nuocere del SARS-Cov-2, alla descrizione del suo terribile potere patogeno (naturalmente da parte dello stesso sedicente esperto e a pochi giorni di distanza), dalle commosse celebrazioni dei morti (”avrebbe compiuto cent’anni tra qualche settimana”, lasciando intendere che questa pandemia ha stroncato una vita che poteva battere ogni record di longevità) al ridicolo sovradimensionamento delle morti attribuite al SARS-Cov-2 (che ha suscitato scandalo persino in rappresentanti dell’Ordine dei Medici).
Questa premessa è necessaria per capire come le statistiche possano essere ignorate, nascoste, mal interpretate o addirittura piegate ad interpretazioni di fantasia. Se Karl Marx attribuiva all’esercito di riserva dei disoccupati la funzione essenziale di calmierare la contrattazione salariale a favore del sistema capitalistico, oggi ci troviamo di fronte ad un “esercito di riserva dei deceduti”, che possono essere esposti, oppure nascosti, secondo le necessità. In altri termini, la nostra società malata produce, per molti e diversi motivi, una mortalità enorme, che può essere messa in evidenza, nel caso occorra, attribuendone la causa a ciò che più conviene al momento. Esattamente quanto successo per la crisi Covid-19.
Infertilità e inquinamento ambientale
A questo punto è necessario raccontare quanto sia grave la situazione della salute pubblica a causa di eventi riconducibili ad attività umane e non a presunti patogeni. Cominciamo da uno dei problemi più acuti e più dolorosamente sentiti da chi ne è colpito, ma al tempo stesso alla base della lucrativa industria della procreazione assistita: l’infertilità.
La specie umana condivide con molti altri animali il problema della ridotta riproduttività, dovuta, in molti casi, all’azione di molecole di sintesi che agiscono da “interferenti (o perturbatori) endocrini” (Endocrine Disrupting Compounds). L’allarme sul pericolo rappresentato dalla riduzione della fertilità umana era stato lanciato da Phyllis Dorothy James, una scrittrice di libri gialli inglese, in un suo romanzo del 1992 daI titolo I figli degli uomini, in cui si descrive l’Inghilterra del 2021, una nazione che condivide il destino di un pianeta in cui da venticinque anni non nascono più bambini. Dal libro è stato realizzato nel 2006 un omonimo film inserito nella lista dei 100 migliori film del XXI secolo dalla BBC. Rachel Carson invece ipotizzò, nel suo libro Primavera silenziosa del 1962, l’avvento di primavere senza il canto degli uccelli, a causa dell’azione di inquinanti organici persistenti, tra cui l’insetticida DDT (para-diclorodifeniltricloroetano), allora largamente utilizzato (sia per uso domestico che in agricoltura) e poi bandito a causa della sua alta tossicità ambientale. Per inciso il DDT è annoverato tra gli interferenti endocrini in grado di provocare infertilità nell’uomo (Tabb e Blumberg, 2006) e la sua persistenza ambientale è tale che dopo la sua messa al bando, avvenuta in Europa nel 1986, questo insetticida è oggi presente anche nelle aree più remote del nostro pianeta (Huang et al., 2020; Takur e Pathania, 2020). Il DDT è un inquinante persistente, lipofilo, altamente tossico, capace di accumularsi lungo la catena alimentare e passibile di essere trasportato su lunghe distanze dalle normali dinamiche ambientali (Takur e Pathania, 2020).
Oggi sono più di 100.000 le sostanze chimiche disponibili in commercio solo in Europa. Questo numero cresce rapidamente, poiché vengono introdotti in commercio nuovi prodotti ogni giorno (ECHA, 2019). Dieci anni fa si stimava che l’86% di queste molecole non erano mai state studiate per evidenziare le loro caratteristiche di tossicità umana ed ambientale, neppure per mezzo della sorveglianza successiva alla commercializzazione; anche la direttiva europea REACH non si è arrischiata a increspare il mare dell’ignoranza più di tanto, dato che ha richiesto lo studio di soltanto una minuscola frazione di tali sostanze: 5500 su oltre 100.000 (Mamone Capria, 2009). Tra le sostanze chimiche in uso e c’è un numero imprecisato di perturbatori endocrini capaci di introdursi nel nostro ambiente interno ed esterno ed inquinare bacini idrici, mari, suoli e atmosfera (Faniband et al., 2014).
Sia la James, una scrittrice di romanzi gialli, sia la Carson, una zoologa, hanno messo in guardia, da due punti di vista diversi, dalla deriva incontrollata degli effetti sulla salute dovuti all’esposizione a prodotti tossici. La realtà è molto più vicina al romanzo distopico della James di quanto si possa credere. Carlsen et al. (1992) rilevano una diminuzione di spermatozoi nel seme umano da 113 milioni per millilitro nel 1939 a 66 milioni per millilitro nel 1990. Levine et al. (2017) mettono in evidenza una diminuzione del numero di spermatozoi nel liquido seminale del 59,3% dal 1973 al 2010, in quasi tutti i paesi occidentali, oltre che un progressivo peggioramento della qualità del seme. Questi fenomeni sono conosciuti da tempo, tanto che lo statunitense National Research Council aveva rilevato, già nel 1989, che nei paesi industrializzati una coppia su cinque aveva problemi riproduttivi.
Il 5 novembre 2019, il professore Olle Johansson, in occasione di un congresso tenutosi alla Camera dei Deputati (https://www.terranuova.it/Agenda/Convegni-e-conferenze/Stop-5G-convegno-alla-Camera-dei-Deputati), dichiarò che la fertilità maschile sta riducendosi in modo esponenziale e potrebbe tradursi in una infertilità irreversibile fra solo 5 generazioni. Tutto questo a causa delle tecnologie wireless e dell’esposizione a prodotti tossici presenti nell’ambiente. Il danno alla linea germinale umana può causare effetti transgenerazionali sino alla terza o quarta generazione successiva a quella che è stata vittima di esposizione a prodotti tossici (Davis et al., 1998). I danni non si limitano alla diminuzione delle fertilità, ma comprendono femminilizzazione dei neonati maschi, ridotto sviluppo dei testicoli, criptorchidismo (mancata discesa dei testicoli nella cavità scrotale), ipospadia (malformazione del pene), aumentato rischio di tumori, deficit cognitivi, disturbi comportamentali, ecc. Questi esempi mostrano che il termine “interferenti endocrini” è un eufemismo che maschera effetti devastanti sulla specie umana.
L’evidenza di danni transgenerazionali ha spinto l’epidemiologa belga Adelheid Soubry a studiarne gli effetti epigenetici1 e a contribuire al nuovo paradigma interpretativo chiamato “Paternal Origins of Health and Disease” (origine paterna della salute e delle malattie) (Soubry, 2018; 2015). La Soubry osserva che l'epigenetica, come base del meccanismo non genetico di effetti ereditati dalla progenie (effetti transgenerazionali), ha modificato il concetto originale di gene come unico strumento per l'ereditarietà delle caratteristiche parentali (Soubry, 2015). Quindi, il vivere in un ambiente malsano, essere esposti a molecole tossiche, subire una cattiva alimentazione a causa di prodotti contaminati, avere stili di vita a rischio comporta effetti negativi sulla progenie, anche attraverso modificazioni della gametogenesi maschile, in grado di cambiare la programmazione genica e quindi interferire sui processi omeostatici e sugli equilibri metabolici, aumentando il rischio di malattia nella prole per più di una generazione a venire.
Van Cauwenbergh et al. (2020) presentano una sintesi della letteratura scientifica sugli effetti transgenerazionali di noti interferenti endocrini su mammiferi diversi dall’uomo. Tutti gli studi esaminati concordano con la possibilità che le modificazioni epigenetiche indotte dagli interferenti endocrini sui maschi possono essere causa di aberrazioni del fenotipo sino alla terza generazione. Esperimenti sul nematode Caenorhabditis elegans (un rappresentante della microfauna del suolo) indicano invece che tali danni possono spingersi sino alla decima generazione. Bisogna considerare comunque che questi invertebrati, lunghi circa 1 millimetro, hanno un tempo di generazione di circa 3-4 giorni ed una vita media di 2-3 settimane.
Nello stesso lavoro è contenuta una considerazione curiosa:
“Un'osservazione degna di nota è che gli studi orientati all'esposizione [di interferenti endocrini] si riferiscono solo a modelli animali. Non ci sono studi sull'uomo”2.
È abbastanza suggestivo che si dica che non ci sarebbero “studi sull’uomo” benché esistano ormai numerose evidenze epidemiologiche dei danni causati dagli interferenti endocrini sugli esseri umani. Al tempo stesso ciò offre un’istruttiva prospettiva sull’industria della sperimentazione animale, che produce dati (generalmente incoerenti) che vengono applicati agli umani solo quando fa comodo, e considerati irrilevanti altrimenti. La lista degli interferenti endocrini riportata da Van Cauwenbergh et al. (2020) è veramente lunga e comprende vari tipi di pesticidi, additivi delle plastiche, diossine e idrocarburi policiclici aromatici.
Vittime dell’inquinamento atmosferico
Fin qui l’effetto sulla fertilità umana delle molecole tossiche prodotte dall’uomo e rinvenibili nell’ambiente, nel nostro cibo o nelle nostre case. A questo bisogna aggiungere la morbilità e la mortalità derivanti dall’esposizione quotidiana agli inquinanti. L’elenco delle molecole tossiche a cui siamo esposti, e quello dei rischi sanitari connessi, è veramente lunghissimo.
Un buon esempio, in negativo, è l’incidenza delle patologie e delle morti precoci dovute all’inquinamento atmosferico. Il sito dell’European Environmental Agency riporta (EEA, 2019) la percentuale della popolazione europea esposta a concentrazioni di inquinanti atmosferici superiori alla linee guida dell’OMS. Nel sito si scopre che nel 2017 (ultimo dato disponibile) i valori sono del 77,2% per le PM2,5 (polveri sottili del diametro inferiore a 2,5 millesimi di millimetro), del 44,4% per le PM10 (polveri sottili del diametro compreso tra 10 e 2,5 millesimi di millimetro), del 95,9% per l’ozono (O3) e del 6,5% per il biossido di azoto (NO2). Questi valori sono in relativo miglioramento rispetto al 2006, che faceva registrare il 97,4% della popolazione esposta alle PM2,5, l’85,6% alle PM10, il 99% all’O3 e il 18,2% all’NO2. La stessa Agenzia Europea per l’Ambiente riporta (EEA, 2019) il numero, estremamente preoccupante, di morti precoci per inquinamento atmosferico in Italia per il 2016 (ultimo dato disponibile): 76.200 decessi. Di questi, 58.600 sono riconducibili alla polveri sottili, 3000 all’ozono e 14.600 al biossido di azoto. I dati sono in assoluto i più alti d’Europa, più alti anche della Germania, una nazione con circa 83 milioni di abitanti, mentre l’Italia ne ha circa 60 milioni.
È solo ignorando questi dati, del tutto ufficiali, che l’epidemia del covid-19 (la cui mortalità ha verosimilmente non solo una connessione ma forse anche un’importante sovrapposizione statistica con le malattie respiratorie causate dall’inquinamento atmosferico) può aver assunto agli occhi dell’opinione pubblica le proporzioni terrificanti che doveva avere per giustificare l’imposizione di un regresso senza precedenti nei diritti civili e nel controllo democratico dell’operato della classe dirigente. I morti per inquinamento sono oggi una delle maggiori componenti dell’esercito della mortalità di riserva. Se in questi anni fossero stati citati, con i loro numeri e la loro identità, dai principali media avrebbero reso accettabile per la cittadinanza la limitazione dell’utilizzo delle automobili private, e si sarebbero così anticipati i soli benefici sicuri (minore inquinamento atmosferico e minor numero di feriti e morti in incidenti stradali) del blocco della vita sociale e dell’economia deciso dai profeti di sventura governativi del covid-19.
Le patologie: gestazionali, respiratorie, cerebrali, cardiovascolari
I primi effetti dannosi dell’inquinamento atmosferico sulla salute umana possono mostrarsi in gravidanza durante lo sviluppo del feto. Da un’analisi della letteratura scientifica Mabahwi et al. (2014) rilevano che gli inquinanti atmosferici, in particolare il particolato fine (PM2,5) ed i gas di scarico derivanti dal traffico veicolare, riducono la circonferenza cranica media dei neonati e aumentano il rischio di un basso peso alla nascita. I livelli medi di esposizione all'inquinamento delle gestanti prese in considerazione dallo studio variavano da 10 a 30 microgrammi per metro cubo. Per ogni aumento di 5μg/m³ nell'esposizione a PM2,5 durante la gravidanza, il rischio di basso peso alla nascita aumenta del 18%. Lo studio in questione è stato condotto in 12 paesi europei dal gruppo di lavoro sugli effetti dell'inquinamento atmosferico (ESCAPE) ed ha coinvolto 74.000 donne che hanno partorito tra il 1994 e il 2011.
L’American Lung Association (2013) in un rapporto dal titolo Health Effects of Ozone and Particle Pollution indica i seguenti effetti derivanti dall’esposizione agli inquinanti atmosferici:
- problemi respiratori e cardiovascolari (inclusi gli ictus);
- aumento della mortalità nei neonati e nei bambini;
- aumento del numero di infarti (soprattutto tra gli anziani e nelle persone con patologie cardiache);
- infiammazione del tessuto polmonare negli adulti giovani e sani;- aumento delle visite al pronto soccorso per pazienti affetti da disturbi respiratori acuti;
- aumento del ricovero per asma nei bambini; aumento della gravità degli attacchi di asma nei bambini.
Ross (2009) riporta come lunghe esposizioni a polveri sottili provochino coagulazione del sangue, ipertensione e reattività vascolare, mentre Russell e Brunekreef (2009) osservano che gli effetti sul polmone sono associati a danni cellulari e infiammazione. Crescenti evidenze sottolineano che le specie reattive dell’ossigeno (ROS), sia presenti nelle polveri sottili che prodotte nelle cellule stimolate, giocano un ruolo importante in questi processi.
Già nel 1995 Seaton et al. proponevano un meccanismo di azione delle particelle acide ultra-fini, caratteristiche dell'inquinamento atmosferico. Queste causerebbero infiammazione alveolare, cambiamenti nella coagulabilità del sangue e rilascio di mediatori in grado di provocare sindromi respiratorie acute in soggetti sensibili.
L’inquinamento atmosferico non provoca solo decessi per malattie a carico del sistema respiratorio. Come evidenziato da Vidale et al. (2010), studi epidemiologici hanno dimostrato che un livello elevato di l'inquinamento dell'aria esterna può aumentare l'incidenza e il rischio di mortalità per malattie cerebrovascolari. Gli autori trovano una correlazione statisticamente significativa tra la mortalità da ictus e il livello di inquinamento atmosferico a Como, in relazione alla concentrazione di PM10 e di biossido di azoto nei mesi di dicembre, gennaio e febbraio, nel periodo tipico dell’epidemia di influenza. Frampton et al. (2006) hanno osservato che l’inalazione di particolato atmosferico ultrafine è responsabile di infiammazione sistemica e vasocostrizione, che può portare alla sovra-espressione di citochine pro-infiammatorie e di una serie di eventi che terminano in una trombosi: una sindrome osservata anche nel caso di pazienti colpiti da SARS-Cov-2 interessati da problemi tromboembolici.
Il già citato lavoro di Seaton et al. (1995) sottolinea che le polveri sottili, producendo fenomeni infiammatori, hanno un effetto sulla coagulabilità di sangue e aumentano la suscettibilità degli individui ad episodi di malattie cardiovascolari.
La figura qui di seguito illustra gli effetti globali dell’esposizione prolungata a polveri sottili (Ross, 2009).
Come si vede gli effetti negativi sul sistema cardiovascolare e sul sistema respiratorio si associano a infiammazione sistemica e all’induzione della coagulazione del sangue. Il risultato è che nei pazienti si riscontrano effetti trombotici e tromboembolici: esattamente gli effetti la cui scoperta nelle autopsie di “malati di covid-19” eseguite da alcuni medici italiani, nonostante la – come chiamarla? – cortese dissuasione (i difensori d’ufficio del governo hanno precisato che non si trattava di un “divieto”) contenuta in ben due circolari ministeriali (ad aprile e a maggio), ha contribuito a un cambio di strategia terapeutica cui si deve, molto più che al “distanziamento sociale”, la diminuzione degli accessi alle terapie intensive.
La covid-19 è una malattia nuova?
Uno dei temi oggi più dibattuti è la presunta novità delle manifestazioni patologiche causate dal virus SARS-Cov-2. La gravità dell’infezione è stata sostenuta da praticamente tutti i commentatori, che sottolineano come il virus abbia preso “alla sprovvista” i medici perché capace di provocare una malattia nuova di cui non si sapeva nulla. Sino ai primi di marzo 2020 non si avevano indicazioni terapeutiche chiare, come si evince dal documento redatto dal gruppo di lavoro FadInMed (2020). Nello stesso documento si descrive così il meccanismo patogenetico del virus:
“ll meccanismo principale di morbilità e letalità della SARS è la cosiddetta sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) per cui, dopo l’infezione dell’epitelio delle vie respiratorie inferiori mediata dall’interazione della proteina di superficie del virus con il recettore d’ingresso ACE2 si scatena una violenta infiammazione acuta dei polmoni che porta alla formazione di uno strato di fibrina sugli alveoli polmonari impedendo così gli scambi gassosi”.
Dal “position paper” della Società Italiana di Diagnostica Vascolare e della Società Italiana di Medicina Vascolare, redatto da Costanzo et al. (2020), riprendiamo alcune delle patologie riscontrate nel caso di infezione da SARS-Cov-2 e le commentiamo con quanto già da tempo noto nella letteratura scientifica.
1) Infiammazione come causa di coagulopatia. Gli autori del “position paper” ricordano come la correlazione tra infiammazione e coagulazione sia stata ampiamente dimostrata, nel senso che un processo infiammatorio può provocare un’alterazione della coagulazione attraverso, tra l’altro, l’attivazione di citochine infiammatorie. Se torniamo indietro sino al 1997, troviamo che una rassegna bibliografica di Burstein già indicava il possibile ruolo negativo delle citochine sul sistema emostatico e sulla trombogenesi, e due anni dopo Esmon et al. (1999) ricordavano come il meccanismo che lega infiammazione e coagulazione fosse stabilito al di là di ogni ragionevole dubbio. In un ulteriore articolo del 2005, Esmon descriveva le fasi dell’interazione tra infiammazione e coagulazione, l’avvio della coagulazione, la diminuzione dell'attività dei meccanismi anticoagulanti naturali e il danneggiamento del sistema fibrinolitico. Le citochine infiammatorie sono i principali mediatori coinvolti nell'attivazione della coagulazione. La conclusione dell’articolo è che esiste un circolo vizioso tra aumento dell'infiammazione e aumento della coagulazione che, a sua volta, rinforza l'infiammazione. L’impossibilità da parte dei naturali meccanismi anticoagulanti di controllare il processo aumenta l’avanzare dell’infiammazione. Ciò suggerisce che gli anticoagulanti possono rappresentare un trattamento efficace nel caso di sindromi infiammatorie acute.
2) Sinergia tra coagulopatia e infezione virale. Questa sindrome è nota almeno dal 1967, anno in cui McKay e Margaretten pubblicarono un articolo dal titolo “Disseminated intravascular coagulation in virus diseases”, in cui si indicava la coagulazione intravasale disseminata come causa delle emorragie dovute ad infezioni virali e si suggeriva un’appropriata terapia anticoagulante per diminuire morbilità e mortalità.
Esistono diversi articoli scientifici, sin dagli anni ’90 del secolo scorso, che indicano un legame tra infezione virale e coagulopatia. Su Lancet, una tra le riviste mediche più lette al mondo, compaiono nel 1998 due articoli che descrivono questa sindrome a carico del virus influenzale A (H5N1): Yuen et al. e Class et al.Yeun et al. descrivono quest'infezione in 12 pazienti in cui si riscontrarono diverse tipologie di effetti patologici, tra cui polmonite, difficoltà respiratoria acuta (ARDS), coagulopatia, emorragia polmonare, mentre Claas et al. riportano del caso di un bambino di 3 anni, sempre affetto da infezione da virus influenzale A(H5N1), ricoverato in ospedale con sintomi di polmonite, ARDS, sindrome di Reye (rara encefalopatia infantile causata dall’assunzione di acido acetilsalicilico in pazienti con infezione virale), che determinò insufficienza multiorgano e coagulazione intravascolare disseminata.
Se questa è la diagnosi, sembrerebbe abbastanza chiara l’inutilità di ventilare polmoni in cui la coagulazione del sangue impedisce lo scambio gassoso. L'intera controversia sulla mancanza di respiratori nelle unità di terapia intensiva acquisisce la sua vera dimensione: una discussione inutile. Non tutti i pazienti richiedono ventilazione. Inoltre, un gruppo di lavoro europeo, che ha analizzato i determinanti dei decessi nelle unità di terapia intensiva nei pazienti con influenza negli anni 2009-2017 (Adlhoch et al., 2019), ha evidenziato che il rischio di morte aumentava di 4 volte nel caso di pazienti ventilati, ma non nel caso di pazienti che ricevevano solo ossigeno.
Michael Cox e coautori fanno un'osservazione interessante, in un articolo del 2020, sui pericoli della ventilazione forzata. I pazienti Covid-19 sono generalmente sottoposti a ventilazione meccanica invasiva per un lungo periodo (in media 9,1 giorni). Ciò aumenta le possibilità di contrarre infezioni polmonari batteriche, anche mortali. Gli stessi autori sottolineano che la maggior parte dei decessi, causati dall'influenza del 1918, erano dovuti a infezione batterica successiva a infezione virale, in particolare causata dal batterio Streptococcus pneumoniae. Molte delle morti per la pandemia di influenza H1N1 nel 2009 sono state anch’esse associate a coinfezioni batteriche. Una stima dell'importanza delle coinfezioni nell'attuale pandemia di Covid-19 sottolinea che circa il 50% dei pazienti con Covid-19 è deceduto per infezioni secondarie di origine batterica. Questo argomento, fino ad oggi, è molto poco studiato.
In un articolo del 2019 Sarda et al. riportano che la mortalità per insufficienza respiratoria acuta, in casi di pazienti critici, è di circa il 20%, indipendentemente da tipo di virus influenzale coinvolto. Un’infezione batterica secondaria si verifica nel 20% dei casi gravi. I batteri Streptococcus pneumoniae e Staphylococcus aureus rimangono i patogeni prevalenti.
A questo punto varrebbe la pena riflettere sull’enorme aumento di mortalità a causa di infezioni contratte in ospedale, che provocano ogni anno circa 49.000 decessi, contro i circa 18.000 dei primi anni 2000 (Mamone Capria, 2020).
Dalle informazioni disponibili sembra insomma che le manifestazioni patologiche causate dal SARS-Cov-2 tutto siano tranne che “nuove” o “sconosciute”. Nonostante questo, si ha la netta sensazione che si voglia sottolineare, insieme alla sovrastima dei casi di morte da covid-19 (per un approfondimento su questo tema visitare il sito www.dmi.unipg.it/mamone/sci-dem/scidem.htm), l’assoluta novità dei riscontri clinici dovuti al virus e l’impossibilità di mettere in campo mezzi adeguati per difendersi dalla sua aggressività. In un articolo a firma di Amy McKeever, pubblicato il 1 giugno 2020 sul sito italiano di National Geographic, dal titolo “Infiammazioni cerebrali, eruzioni cutanee, ictus: ecco perché i sintomi "più strani" del coronavirus stanno emergendo solo adesso” e dal sottotitolo “Questi sintomi spaventosi erano prevedibili. Ecco cosa sanno gli scienziati sui ‘nuovi effetti’ del coronavirus”, si rimane, con la solita ambiguità nell’esposizione dei fatti, all’interno della narrazione catastrofista. “Nuovi” e “spaventosi” sono i due aggettivi che connotano tutto l’articolo, anche se leggendo con attenzione si viene a sapere che i “misteriosi” coaguli imputati al SARS-Cov-2, di cui la McKeever parla, non erano poi così nuovi: in effetti erano già noti da circa... 160 anni, grazie alle ricerche di Rudolf Virchow, il fondatore della patologia cellulare.
Sono spesso citate nuove manifestazioni patologiche a carico del SARS-Cov-2, come le eruzioni cutanee (Euronews, 2020) già riportate, l’individuazione dell’intestino come ulteriore organo bersaglio del virus attraverso uno studio che ha utilizzato organoidi3 (Lamers et al., 2020), il che indicherebbe una possibile trasmissione oro-fecale del virus come ipotizzato da ricercatori cinesi (Gu e Wang, 2020), o la correlazione con la sindrome di Kawasaki (un processo infiammatorio a carico dei vasi sanguigni di cui sono vittime i bambini, che ha cause non ancora chiarite, e la cui associazione con il covid-19 è fortemente dubbia (Kerpen, 2020)), come riportato da Verdoni et al. (2020). Anche l’“alluce da COVID” fa la sua comparsa, un problema forse dovuto a microcoaguli.
Conclusioni
Il motivo conduttore di tutte le informazioni e di tutte le varie notizie che circolano da mesi, sui media e negli articoli scientifici, è di far percepire il SARS-Cov-2 come una minaccia mondiale e possibilmente perpetua. Abbiamo sentito e letto di un mondo che non sarà mai più come prima. Il redazionale di Morning Future (2020) ci informa che “La tempesta passerà, ma abiteremo in un mondo molto diverso” in cui si dovrà scegliere tra sorveglianza totalitaria e responsabilizzazione dei singoli, o tra isolazionismo e solidarietà globale. Viene insinuata una nuova impostazione etica, non scaturita dal libero confronto, ma (con un passaggio illecito dal quid facti al quid juris) imposta dalla realtà della crisi sanitaria. È stato cioè deciso che evitare il diffondersi di un certo agente virale – che peraltro è innocuo sulla stragrande maggioranza delle persone colpite e, come abbiamo visto, ha manifestazioni tutt’altro che inedite e intrattabili – costituisca una priorità etico-politica che può prevaricare su ogni altra. Se non saremo in grado di rispondere a tale sfida inchinandoci alle prescrizioni di Big Pharma e delle sue organizzazioni di facciata – tra le quali sono ormai da comprendere anche ministeri e agenzie sanitarie nazionali e internazionali – ci dovremo rassegnare a una “sorveglianza totalitaria”: sempre per il nostro bene, naturalmente. Altre deliranti proposte post covid-19 reclamano una presa di coscienza del dato di fatto della “sorveglianza globale”. Così scrive l’avvocato Dimalta (2020) parlando della nostra povera “privacy” e della app di tracciamento individuali messe a punto per la sorveglianza dal Covid-19:
“Ma superando per un attimo il muro che separa ciò che è ipoteticamente giusto da ciò che è attualmente reale, non possiamo non riconoscere come, nei fatti, siamo già tutti geolocalizzati. I dati utilizzati da queste app di tracking sono già in mano alle Big Tech come Google. Allora, perché combattere una guerra anacronistica contro queste app che aiuterebbero a convivere con il Covid-19?”.
Capolino (2020) ci ricorda le parole di Gordon Lichfield, direttore di MIT Technology Review,
“Per fermare il coronavirus dovremo cambiare radicalmente quasi tutto quello che facciamo: come lavoriamo, facciamo esercizio fisico, socializziamo, facciamo shopping, gestiamo la nostra salute, educhiamo i nostri figli, ci prendiamo cura dei nostri familiari”.
Ancora un richiamo alla nuova etica eterodiretta. Una sezione dell’articolo di Capolino si intitola “Vivere in uno stato di pandemia”, così che sia chiaro a tutti che questa crisi non è fatta per finire. Dunque, niente più contatti fisici, niente più autobus affollati (cioè maggiore circolazione di automobili private?), sempre con la mascherina indosso o pronta, e preparati a pandemie ricorrenti ogni 18 mesi, come preconizza Evangelisti (2020), che ci informa anche delle novità riguardo ai taxi e all’aria condizionata imposte dal covid-19. Non mancano in rete decaloghi delle cinque cose che non saranno più come prima, delle dieci cose che cambieranno per sempre o delle dodici cose a cui dovremo abituarci. Un po' come i dieci suggerimenti per essere felici o per avere un lavoro di successo. Ma stavolta si tratta di istruzioni di infelicità pubblica e privata.
Sembra proprio che tutta l’energia impiegata nel far diventare un’influenza la più grande crisi sanitaria della storia dell’umanità (Mamone Capria, 2020), debba in qualche modo essere ripagata. Sotto l’aspetto sanitario ci troveremmo in una situazione del tutto inedita (ma scopriamo che non è così, visto che le evidenze cliniche generate dal Covid-19 erano già note da decenni) e dal punto di vista del tributo di vite umane saremmo di fronte ad una tragedia di proporzioni mai viste (ma scopriamo che i morti contano, e si contano giorno dopo giorno, solo quando c’è interesse ad esporli, e delle decine di migliaia di decessi dovuti a complicazioni generate da sindromi similinfluenzali, ad inquinamento atmosferico, a malattie infettive contratte in ospedale non abbiamo mai saputo nulla). Dunque, non facciamoci troppe illusioni, la pandemia tornerà e non sarà nemmeno necessario modificare un agente patogeno in laboratorio. Basterà inventarsene uno. Funzionerà lo stesso.
Bibliografia
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Burstein, S. A. (1997). Cytokines, platelet production and hemostasis. Platelets, 8(2-3), 93-104.
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Inserito: 12 giugno 2020; ultima revisione: 9 ottobre 2020
Scienza e Democrazia/Science and Democracy
www.dipmat.unipg.it/mamone/sci-dem
1 Le istruzioni epigenetiche regolano l’espressione dei geni senza che sia alterata la sequenza del DNA e possono essere trasmesse alla prole. Tali istruzioni sono fondamentali per lo sviluppo e per la sopravvivenza della prole.
2 A remarkable observation was that these exposure-oriented studies were only performed in animal models. No human studies were found.
3 Definizione di organoidi secondo https://www.osservatorioterapieavanzate.it/terapie-avanzate/organoidi-e-ricerca-biomedica: “Gli organoidi sono definibili come aggregati di cellule che assumono spontaneamente una precisa conformazione tridimensionale, finendo con l’assomigliare a organi in miniatura.”