Filippo Schillaci


Per una valutazione di rischio dell’attività venatoria

ovvero

800.000 fucili e una passione a mano armata


[Il 26 novembre 2010 il Corriere dell’Umbria così titolava in prima pagina:


La tragedia si è consumata nei boschi del Narnese. È la terza vittima in un mese

Ucciso in una battuta di caccia

Scambiato per un cinghiale, il compagno gli spara


L’articolo riferiva che «Dall’inizio del 2010 sono quindi quattro i cacciatori morti in Umbria, senza parlare poi dei tanti feriti».


Due anni dopo, il 19 settembre 2012 , ennesima notizia dello stesso tipo:

Spara al figlio per errore
e lo uccide nella battuta di caccia

È accaduto nella notte nei boschi sopra Fiesole a pochi chilometri da Firenze.

La vittima aveva 32 anni

http://firenze.repubblica.it/cronaca/2012/09/19/news/spara_al_figlio_per_errore_e_lo_uccide_nella_battuta_di-42821202/?ref=HREC2-9



Ancora: 14 ottobre 2012



Caccia, cercatore di funghi

ucciso in Calabria

Associazione vittime: "Fermare la carneficina"

Scambiato per un cinghiale, Vincenzo Pulicicchio è stato freddato a Soveria Mannelli (Catanzaro). Nell'attuale stagione venatoria, scattata il primo settembre, morte 9 persone, 28 i feriti. Una delle vittime e sette feriti non avevano nulla a che vedere con la caccia. La denuncia dell'associazione: "Vergogna nazionale, Paese ostaggio di una lobby armata"



www.repubblica.it/cronaca/2012/10/14/news/caccia_ucciso_in_calabria_cercatore_di_funghi-44499080/?ref=HREC2-6





Ancora: 11 novembre 2012



Dodicenne colpito alla testa durante

battuta di caccia

Ragazzino in fin di vita in ospedale a Nuoro



http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2012/11/11/Dodicenne-colpito-testa-durante-battuta-caccia_7775706.html



(NdC)]


Un paesaggio di campagna in autunno; una strada si snoda fra campi e boschi resi quasi invisibili dalla fitta nebbia. Sulla strada transita a velocità ridotta una pattuglia dei carabinieri. Sembra tutto tranquillo quando da una macchia di alberi a qualche centinaio di metri dalla strada si odono provenire dei colpi d’arma da fuoco. L’auto si ferma, i carabinieri scendono e si avvicinano al punto da cui provengono gli spari. Un po’ per la nebbia un po’ per la fitta vegetazione, solo quando sono ormai a poche decine di metri da lui riescono a scorgere un uomo in una tenuta vagamente paramilitare armato di fucile e intensamente impegnato a farne uso. La nebbia è fitta e l’uomo sta letteralmente sparando alla cieca. I carabinieri lo raggiungono, lo disarmano e gli chiedono i documenti, pronti a condurlo con loro in caserma. L’uomo mostra una tessera, i carabinieri la esaminano, poi gliela restituiscono insieme al fucile e vanno via. L’uomo riprende a sparare alla cieca fra la nebbia e la fitta vegetazione.


Possiamo aggiungere un epilogo: il giorno prima ha piovuto e le condizioni nel bosco sono ideali per andare in cerca di funghi. Nonostante la nebbia un’intera famiglia, padre madre e un bambino, ha deciso di farlo. Il sentiero che essi stanno percorrendo passa poco distante dal luogo in cui è appostato l’uomo col fucile; essi sentono gli spari ma stranamente non vi fanno caso. Proprio lì, alla base di un cespuglio, sono nati durante la notte parecchi funghi. I tre si avvicinano, si chinano e cominciano a raccogliere. Nel far ciò smuovono i rami del cespuglio. L’uomo armato coglie quel movimento, vede delle sagome che si muovono nella nebbia dietro al cespuglio. L’uomo punta il fucile e spara.


L’episodio che ho narrato è immaginario ma non lo è la situazione che esso descrive. In modi simili a questo ogni anno muoiono in Italia dalle 40 alle 50 persone. Questi fatti giungono all’opinione pubblica tipicamente solo attraverso brevi resoconti nelle cronache locali dei quotidiani nei quali ricorrono parole come “incidente” e “incredibile fatalità”, e ciò accade solo quando l’esito di questi episodi è mortale o comunque grave. Quando tutto si risolve “soltanto” in momenti di tensione e paura o nell’impossibilità di uscire di casa perché tutto intorno volano i proiettili, il comportamento abituale della stampa è ignorare i fatti come irrilevanti.


Ma di cosa si sta parlando? Per capirlo basterà dire cosa c’era scritto sul documento che l’uomo armato ha mostrato ai carabinieri: “Licenza di caccia”, tre paroline magiche che hanno trasformato in un’azione perfettamente legale un comportamento fino a un attimo prima considerato folle: usare un’arma da fuoco sul territorio aperto al libero transito di chiunque, e per di più fra la nebbia e la fitta vegetazione, ovvero in condizioni di pessima visibilità. Un tiratore che decidesse di allenarsi in questo modo andrebbe incontro a pesanti sanzioni ma questo stesso comportamento diventa improvvisamente legale se viene perpetrato a scopo “venatorio”.


Esiste dunque una legge, in Italia e similmente in moltissimi altri Paesi del mondo, che autorizza per quasi 5 mesi all’anno centinaia di migliaia di uomini armati a fare libero uso di armi da fuoco su almeno il 70% del territorio extraurbano, comprese le proprietà private a prescindere dal consenso del proprietario, e lo fa senza imporre al “cacciatore” il rispetto di alcuna norma di sicurezza, a parte il mantenimento di una irrisoria distanza da edifici e strade principali. Basti dire che, come l’aneddoto di apertura ci mostra, non è previsto alcun obbligo di sospensione dell’attività venatoria nemmeno in caso di nebbia, come invece il più elementare buon senso imporrebbe, né l’obbligo per il cacciatore di indossare calzature antinfortunistica, nonostante numerosi “incidenti” mortali siano avvenuti a causa della perdita di controllo dell’arma in seguito a cadute su terreni scivolosi. Nessuna norma impone al cacciatore di non portare con sé persone non adeguatamente addestrate ed è anzi abitudine diffusa portare familiari e perfino bambini, i quali in più occasioni sono rimasti a loro volta vittime della “passione” a mano armata del loro congiunto.


* * *


Ma i morti sono solo la classica punta dell’iceberg, perché il problema caccia non riguarda solo chi osa avventurarsi nei boschi anche quando le sparatorie hanno inizio, e non è solo in luoghi privi di presenze umane (ammesso che ormai ne esistano) che esse si scatenano bensì anche nelle campagne coltivate (che, non dimentichiamolo, sono luoghi di lavoro) e spesso perfino in zone abitate, letteralmente in mezzo alle case. La sorveglianza è nella maggior parte dei casi nulla, la popolazione è abbandonata a se stessa e spesso vive nei fine settimana ore di autentico incubo. A questo proposito, riporto nel seguito alcune testimonianze risalenti alla scorsa stagione di caccia e giuntemi da varie parti d’Italia.


Così mi scrisse ad esempio una persona che vive a Zagarolo, per di più in una zona in cui il sindaco già dal 2004 ha imposto il divieto di caccia a tutela dell’incolumità pubblica e nella quale tuttavia si continua impunemente a sparare:


Sabato ci sono state come al solito numerose fucilate provenienti dal vallone sotto casa mia. Ho chiamato la Polizia Provinciale ma mi hanno detto che di sabato le pattuglie sono poche e mi hanno suggerito di telefonare ai Carabinieri. Siamo alle solite.


Sottolineo due cose: il sottinteso che telefonare ai Carabinieri sia inutile e il fatto che proprio nei fine settimana, ovvero quando con più violenza si scatenano le sparatorie, la Polizia Provinciale riduca le pattuglie.


E ancora, da Gallicano nel Lazio, dove da anni un’analoga ordinanza giace negli archivi comunali senza che nessuno si preoccupi di darle attuazione:


Non ho da raccontare storie particolari ma eventi quotidiani. Ieri stavo presso la mia casa scavando per fare una tettoia quando ad un metro dalla mia recinzione sento sparare verso di me. Comincio a gridare contro questi individui ed essi mi rispondono che mi avevano scambiata per un cinghiale (sì, un cinghiale alto 170 cm con una zappa in mano!).


Quando ho provato a rivolgermi alle forze dell'ordine (carabinieri, vigili...) mi sono sentita rispondere: “Lo so! Ma con tutti i casi che trattiamo quotidianamente questi fatti vengono messi in secondo piano! Provi a trattare e comunicare con questi cacciatori!” ...Certo, dopo che magari hanno impallinato uno dei miei bambini!


Da San Fior, nel trevigiano:


Abbiamo circa 10 ettati prevalentemente coltivati a vigneto dove quasi ogni giorno i cacciatori esercitano la loro "arte" facendone di tutti i colori. (…) Nell'art.7 della legge sulla caccia si dice che la caccia è vietata sui terreni in attualità di coltivazione, compresi i vigneti naturalmente, ma poi? Non sanno che sparando sugli impianti di irrigazione dei filari si causano danni anche se non v'è più uva sulle viti?


Da Genova:


I miei genitori ieri hanno tentato di andare per funghi, sono dovuti tornare a casa perché pensavano di essere arrivati in Iraq. Anche io sono stufa di sentire spari da casa mia, abito in collina ma in zona molto abitata.


Da Torvaianica, dove gli abitanti hanno chiesto anche loro nel 2007 un'ordinanza al proprio sindaco ricevendo la beffa di vedersela emanare a stagione di caccia conclusa e revocare poco prima che iniziasse la successiva:


Sabato qui a Campo Ascolano i cacciatori hanno ferito un cane al quale hanno dovuto amputare una zampa... i residenti sono senza parole… volantini affissi ovunque ma aleggia la consapevolezza che contro questi delinquenti non si può fare niente... domenica erano fermi sul viottolo all'altezza del ponticello a 20 m dalle case, un passante li ha redarguiti e loro hanno risposto “fatte i cazzi tua” ed alla minaccia “chiamo la forestale” la risposta è stata “chiama chi te pare”. La cosa più sconvolgente è che sono due cacciatori che abitano nella mia stessa via, li ho visti rientrare sabato dopo che era successo il fatto al povero cane. Hanno sparato dalle 6 di mattina fino alle 13, vicinissimi, con pioggia di pallini sul mio tetto ovviamente. Il tutto condito con la risposta della forestale che dice “Non abbiamo pattuglie da mandare in zona, chiami i carabinieri, FORSE loro vengono” e poi la solita risposta : “Signora, guardi che possono sparare”.


Si traggano le dovute conclusioni... siamo ostaggi dei cacciatori, questa è una realtà che mi sta portando agli attacchi di panico, tachicardia ed ansia... scusate lo sfogo.


Fucilate fra la gente, fucilate ovunque ci sia occasione di sparare. Perfino a ridosso degli aeroporti militari, come segnalò nel dicembre 2004 in una interrogazione parlamentare addirittura un senatore di AN.


Le testimonianze che ho riportato non sono recentissime ma questo è un dettaglio irrilevante: ogni anno si ripetono le stesse situazioni, si recita lo stesso incredibile copione. Un comunicato stampa della LAC veneta del 24 settembre 2009 riporta fatti del tutto analoghi risalenti a pochi giorni prima.


Rimane da capire come sia possibile che una simile situazione di illegalità diffusa si perpetui impunemente e, a monte di ciò, come sia possibile un vuoto legislativo e mediatico di questa portata su un fenomeno che, sia pur in lenta diminuzione, coinvolge un gran numero di persone in maniera spesso drammatica e a volte tragica.


* * *


Centinaia di migliaia di fucilieri dilettanti sono dunque autorizzati a sparare su almeno il 70% del territorio extraurbano italiano con una libertà tale che sarebbe considerata follia in qualunque altro contesto. Se però tale follia è perpetrata a scopo “venatorio” essa diventa, come per magia, “legale”. E continua a esserlo nonostante essa provochi ogni anno decine di vittime umane. Tutto ciò lo abbiamo visto nella prima parte di questo articolo. Vediamo ora di entrare nei dettagli di questa “magia” e di capirne il funzionamento.


La “magia” si chiama in Italia legge 157 del 11 febbraio 1992, e porta il titolo “Norme per la protezione della fauna omeoterma e per il prelievo venatorio”. Già il suo art. 1 introduce a un mondo di anomale omissioni. Eccolo:


L’esercizio dell’attività venatoria è consentito purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole.


L’omissione che colpisce è che “l’esercizio dell’attività venatoria” non costituisca pericolo per l’incolumità pubblica, cosa ben strana trattandosi di un “esercizio” consistente nell’uso massiccio di armi da fuoco in luoghi promiscui con altre attività umane e che pertanto «può porre in pericolo la tranquilla convivenza dei cittadini, la loro incolumità, particolari attività da questi svolte, ecc.».1 Quest’ultima frase non l’ho tratta da una pubblicazione ambientalista o animalista ma da un manuale di tecnica venatoria della Federazione Italiana della Caccia. È un manuale piuttosto vecchio a dire il vero, risalendo al 1979, tuttavia il fatto che sul tema di cui stiamo discutendo non vi sia stata in 30 anni alcuna evoluzione fa sì che esso, sotto questo aspetto, sia ancora di piena attualità, un’attualità di cui cercheremo di fare buon uso nel seguito.


Ma prima di andare avanti cerchiamo di farci un’idea quantitativa delle dimensioni del fenomeno. Per quanto possa apparire incredibile (ma non più di tanto, viste le premesse) non esistono dati ufficiali sul numero di morti provocati ogni anno dall’attività dei cacciatori. Unica eccezione, nel 2002, un dossier EURISPES2 che ne conteggiò 47. Conteggi ufficiosi fatti in base a rassegne stampa negli anni successivi mostrano che questa cifra si ripete ogni anno con variazioni minime. Ma il numero assoluto da solo non dice nulla. Per rendersi conto di cosa esso significhi può essere utile, ad esempio, un confronto con i morti per incidenti sul lavoro. Essi furono quell’anno 1300, dunque apparentemente molti di più. Tuttavia rapportando questi valori assoluti alle dimensioni dei relativi fenomeni (800.000 cacciatori e 21 milioni di lavoratori, 5 mesi all’anno di caccia contro 11 mesi all’anno di attività lavorativa ecc.) si scopre che la frequenza degli incidenti mortali nella caccia è oltre 6 volte superiore a quella degli incidenti mortali sul lavoro (il conteggio dettagliato è riportato in [1]). In altre parole, se la consistenza numerica del fenomeno “caccia” fosse pari a quella del fenomeno “lavoro” i morti per incidenti di caccia in Italia sarebbero oltre 7200 all’anno.


Nonostante ciò, continuando a scorrere il testo della legge 157/92, si cercherebbero invano in esso norme relative alla prevenzione degli incidenti. Se si eccettua l’obbligo di mantenere irrisorie distanze da edifici e strade (obbligo peraltro abbondantemente disatteso, come abbiamo visto nella prima parte) il concetto di prevenzione sembra essere sconosciuto al legislatore venatorio. E non è per distrazione che sia così. In uno studio di qualche anno fa [1] sono stati analizzati alcuni consigli di prudenza contenuti nel manuale della Federcaccia prima citato che potrebbero essere presi come base per una ipotetica introduzione di norme di sicurezza nella legge sulla caccia. Ne è risultato che tali consigli sono in pratica inapplicabili. Ovvero che la caccia è, sotto l’aspetto della sicurezza, irriformabile. Vediamone due esempi.


Astenersi sempre dallo sparare a un selvatico se non si ha dinanzi a sé la massima visibilità, ricordando sempre [che] se un pallino a 100 metri  non abbatte un selvatico,  può sempre accecare  una persona! Se un selvatico si leva in terreni cespugliati ad altezza di uomo, astenersi in ogni maniera dallo sparargli: sulla traiettoria dei pallini può sempre esservi un essere umano!.


Nella realtà moltissimi incidenti accadono proprio per la violazione di questo consiglio. D’obbligo domandarsi come mai quello che dovrebbe essere un comportamento intuitivo per chiunque (non sparare alla cieca) viene invece così spesso accantonato nell’attività venatoria. La risposta è che le condizioni di piena visibilità nelle campagne e ancor più nei boschi si verificano molto di rado. Per l’esattezza si verificano esclusivamente nel caso di terreni prevalentemente o totalmente pianeggianti coperti da vegetazione molto bassa per una estensione pari a tutto il campo di tiro; cioè in una percentuale assolutamente esigua dei terreni soggetti all’attività venatoria. Il cacciatore che spara senza avere una chiara idea di cosa (o meglio chi) andrà a colpire dunque non è da intendersi come uno sconsiderato che nel premere il grilletto in quelle condizioni compie un gesto irresponsabile. Egli spesso si trova a dover inevitabilmente agire in quel modo, pena il fallimento della giornata di caccia. Se mai si potrebbe concludere che il gesto irresponsabile egli lo ha compiuto a monte, quando ha richiesto la licenza di caccia.

Analoghi discorsi valgono per il consiglio seguente:


Non sparare contro muretti, contro rocce, contro terreni sassosi; i pallini rimbalzano sempre prendendo le più imprevedibili direzioni; ciò avviene, anche se la cosa a molti può apparire impossibile, anche sull’acqua.

 

Nonché sui tronchi e sulle fronde degli alberi che, insieme a muretti, rocce terreni sassosi ecc. si incontrano pressoché ovunque sul territorio. L’esercizio venatorio avviene pertanto in moltissimi casi in presenza di condizioni ambientali in cui il rimbalzo, dunque la perdita di controllo della traiettoria dei pallini, è una eventualità altamente possibile.


Senza procedere ulteriormente in questa analisi (per la quale rimando nuovamente a [1]) si conclude che l’unica efficace misura di prevenzione razionalmente attuabile è quella di limitare la caccia ai casi prima descritti a proposito della visibilità e in più privi di elementi che possano provocare il rimbalzo dei proiettili. Il che poi equivale a vietarla quasi ovunque. E si comincia con ciò a comprendere le ragioni della arretrata impostazione della Legge 157/92 in tema di sicurezza: applicare a questo aspetto della caccia una evoluzione legislativa analoga a quella verificatasi in altri campi significa di fatto porre fine alla caccia.


E questa constatazione se ne porta dietro un’altra: la caccia è un’attività per sua intrinseca natura incompatibile con i moderni principi che vedono nella salute e nella sicurezza del cittadino un valore primario. Essa nasce in epoche remotissime e si svolge fin dalle sue origini secondo modalità affini alla guerriglia, né ha subito né può subire sostanziali evoluzioni se non in funzione della tecnologia degli attrezzi (dalla “clava” alla carabina) rimanendo tuttavia immutata, di questi ultimi, anzi essendo amplificata dal progredire della tecnica, la intrinseca caratteristica di strumenti atti ad offendere. La caccia attraversa con ciò immutata gran parte della storia umana come lo squalo ha attraversato immutato un lungo arco di evoluzione biologica. Perché la caccia continui a esistere la legislazione attinente deve rimanere estranea a ogni concetto di tutela preventiva della sicurezza, deve ignorare il fatto che tali concetti vengano sempre più acquisiti in ogni altro campo3, deve in altri termini divenire un anacronismo, un’aberrazione giuridica.


Ce ne sarebbe abbastanza da riempire le pagine dei quotidiani, tuttavia ciò non accade. Al contrario, gli incidenti di caccia e gli episodi di tensione sociale generati dai cacciatori sono sempre riportati solo nelle cronache locali, e con scarsa evidenza. Inoltre, nelle cronache degli incidenti ricorrono toni di stupore, richiami all’“incredibile fatalità”, come se ogni volta quell’incidente fosse il primo, l’unico. Questo atteggiamento dei giornalisti raramente è dovuto a una premeditata volontà censoria, piuttosto è espressione di una diffusa percezione del fenomeno venatorio, di ciò che potremmo chiamare un “comune senso della caccia” il quale attribuisce a essa un aberrante status di “normalità”. In altre parole il costume, ovvero l’immaginario sociale, vede in essa un dato di fatto interno al sistema sociale in cui il “signor Rossi” si identifica, al punto che in quell’immaginario che dà forma alla sua vita un fucile cessa di essere un’arma nel momento in cui è nelle mani di un cacciatore. Ciò non significa naturalmente che la sua presenza a mano armata, lì dove essa è particolarmente invasiva, sia ben accetta e che non generi fenomeni di malcontento e tensione. Al contrario, ciò accade con notevole frequenza. Tuttavia una cosa è il malcontento, un’altra è la reazione collettiva, il ricorso ai mezzi (tutt’altro che inesistenti, nonostante quanto si è detto) che lo stato di diritto mette a disposizione dei cittadini. La causa di ciò è che nella società occidentale contemporanea è pressoché completamente svanito il concetto di comunità. Il “signor Rossi” vede sempre più se stesso come individuo isolato, al più membro del proprio nucleo familiare, ma non parte del tessuto sociale che popola un certo luogo. Il pronome “noi” sembra svanito dal suo vocabolario. È chiaro invece che, essendo il problema collettivo, solo un’azione collettiva può giungere alla sua soluzione. Da ciò la più volte constatata inerzia della gente, anche quando è vittima di gravi situazioni di pericolo o di sopruso. Nei cacciatori, al contrario, un tale senso della comunità è ben vivo: essi sono riuniti in associazioni monolitiche e capillarmente presenti sul territorio, la solidità delle quali nasce dal fatto che la naturale tendenza all’autoreferenzialità di ogni aggregazione umana coincida nel loro caso con il particolare scopo specifico: la perpetuazione dell’associazione in altre parole coincide con la perpetuazione della caccia.


Questa disgregazione del concetto di comunità civile opposta alla presenza di un forte senso comunitario nelle schiere dei cacciatori è oggi il maggior ostacolo al mutamento dello stato di fatto4, il cui perdurare dunque non nasce da una presunta “invincibilità” dei cacciatori ma dall’inesistenza di una qualsiasi forza sociale che prenda in mano il problema costituito dalla loro residuale esistenza e lo conduca a soluzione.


Riferimenti


[1] F. Schillaci, Se la caccia fosse un lavoro, sul sito web Ambiente Diritto.

[2] AA. VV., Manuale di autodifesa dai cacciatori, Edizioni Agire Ora, Torino, 2005.

[3] F. Schillaci, Caccia all’uomo, Stampa Alternativa, Viterbo, 2005.

[4] AA. VV., La caccia è ancora un diritto in Italia e in Europa? Atti del convegno, Roma, febbraio 2008, sul sito web dell’Associazione Vittime della Caccia.






Inserito: 7 dicembre 2010; aggiunta redazionale: 11 novembre 2012

Scienza e Democrazia/Science and Democracy

www.dipmat.unipg.it/~mamone/sci-dem




1 AA. VV., La Caccia: tutela dell’ambiente, legislazione e tecnica venatoria, Federazione Italiana della Caccia, 1979.

2 Il cacciatore tra predazione e ambientalismo, EURISPES, settembre 2002.

3 Un ulteriore confronto possiamo farlo con il Codice della Strada, ad esempio fra il suo art. 190 che vieta l’uso di «tavole, pattini od altri acceleratori di andatura» sulla carreggiata o sui marciapiedi in quanto possono generare «situazioni di pericolo per altri utenti» e l’art. 13 della legge sulla caccia che consente l’uso del fucile sul territorio. Dunque, o il fucile è meno pericoloso dei pattini a rotelle, o nella legge sulla caccia c’è qualcosa di anomalo rispetto agli altri ambiti legislativi in cui entra in gioco il tema della sicurezza.

48 È appena il caso di notare che simili considerazioni valgono non solo con riferimento alla caccia ma anche per ogni altro problema coinvolgente la collettività umana.