Rita Pennarola

L'aborto e l'informazione scientifica di massa



Il contesto demografico e sociale

Le immagini che riempiono in queste ultime settimane i teleschermi, con gli sbarchi a catena di interi formicai umani sulle coste dell’isola di Lampedusa, emozionano gli italiani ed allarmano al tempo stesso l’opinione pubblica. Ma la ragione dell’inquietudine, al di là delle ripercussioni che l’arrivo in massa di nuovi immigrati comporterà sugli assetti sociali del Paese, è un’altra. In quella marea umana che si riversa sui nostri lidi senza sosta c’è un messaggio subliminale, sotteso, inconfessabile, non detto: sono loro, quelle centinaia di migliaia di uomini e donne dalla pelle scura, gli italiani di domani, i cittadini italiani che prenderanno il posto di una popolazione destinata a scomparire e già ampiamente avviata all’estinzione.


A dirlo non sono i soliti razzisti di area padana: sono i numeri. Pur con tutti i vantaggi – anche dal punto di vista genetico, antropologico e sociale – che la contaminazione fra i popoli comporta, non si può sottovalutare il fatto che, con indici di fertilità in picchiata e un calo costante nei tassi demografici, l’Italia è oggi uno fra i Paesi più anziani d’Europa. Siamo insomma ben lontani da quel salutare “tasso di rimpiazzo” – una media di due nuovi nati per ogni coppia in età fertile – che mantiene vivaci e proiettate nel futuro nazioni come la Francia o la Germania.

A tutto il 2010, secondo stime recenti rese note dagli istituti di statistica, il tasso di natalità in Italia è stato pari ad 1,40, con un calo ulteriore rispetto al dato del 2009 (1,41) ed un declino che si mantiene praticamente inarrestabile.

I motivi – come è stato ampiamente analizzato – non risiedono in particolari “dis-funzioni” biologiche degli italiani, bensì in politiche di welfare che nella confinante Francia, ma anche in altri Paesi europei, sostengono la coppia fin dal momento in cui concepiscono un figlio, portano avanti la gravidanza ed allevano il nuovo nato. Un sostegno che non si traduce in belle parole, ma in fatti concreti: assegno mensile per la donna incinta che sia carente di mezzi propri (a prescindere dal suo stato civile e dalla nazionalità), assistenza ginecologica gratuita durante tutto il percorso, e poi consulenze periodiche – sempre offerte dallo Stato – di personale specializzato in politiche della famiglia, con puericultrici a domicilio dopo la nascita ed un altro assegno di mantenimento fino al terzo anno di vita del bambino. Per i governanti francesi – che lo scorso anno hanno lanciato una campagna di propaganda avente ad emblema la “Marianne” col pancione – si tratta non certo di generosità, bensì di investimenti mirati per l’avvenire del Paese. Slogan della campagna è stato: “La Francia investe sul suo futuro”. Scelte che incidono non solo sulla crescita del tasso di natalità, ma anche sulla dignità della coppia e più in particolare della donna che, proprio in quel particolare momento della sua vita, riceve un surplus di dignità, attenzione e sostegno, in quanto priorità ed elemento centrale per il domani del suo Paese. Va detto che il tasso di abortività non accenna a diminuire, nemmeno fra i nostri cugini d’Oltralpe. Ma questo – spiegano gli esperti – dipende soprattutto dall’entrata in commercio della pillola RU 486, che è di fabbricazione francese e consente la eliminazione dell’embrione – di cui provoca il distacco – a poche settimane dal concepimento.

In ogni caso, è innegabile che alle donne francesi viene concessa ampiamente la possibilità di scegliere. E l’esperienza di quel welfare mostra come, pure in un periodo di crisi economica globalizzata, se si offrono alternative economiche e sostegni è possibile arrestare la deriva delle popolazioni occidentali verso l’auto-estinzione ed invertire la tendenza.

In Italia, dove le politiche per la famiglia sono state praticamente inesistenti (con governi di ogni colore politico) molte coppie, raggiunta una certa stabilità economica e ormai quasi quarantenni, cercano di correre ai ripari con la fecondazione assistita. I cui rischi sull’andamento della popolazione sono generalmente poco noti. A ricordarceli è stato, a giugno 2010, il Congresso della Società europea di riproduzione umana ed embriologia (Eshre): entro la fine del 2001 un bambino su 100, in Italia, nascerà grazie e tecniche di fecondazione assistita, ma l’altra faccia della medaglia sta nell’incremento delle anomalie cromosomiche rilevate dai ricercatori in gameti ed embrioni prodotti da coppie di età “avanzata”: fino al 60% di anomalie nelle donne in età superiore ai 42 anni.


Una legge inattuata

In Italia un elemento centrale di questa crisi delle nascite, simbolo di una logica politica miope, autoreferenziale, saldamente arroccata nel suo presente e priva di qualsiasi concreta visione prospettica, è proprio la mancata attuazione dell’articolo 1 della Legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, articolo che è al tempo stesso caposaldo e garanzia per qualsivoglia possibilità di legiferare sul diritto di aborto. Promulgata il 22 maggio del 1978 per abrogare gli articoli del codice penale che punivano l’interruzione volontaria di gravidanza, la legge 194 all’articolo 1 – che ne rappresenta il Prologo – così recita:


- Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio.

- L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite.

- Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l'aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.

Il primo punto, come abbiamo visto, è venuto meno nei fatti. In mancanza di concreto sostegno economico alla coppia (risoltosi nell’occasionale “bonus bebé”, misura una tantum da poche centinaia di euro, che per giunta è stata elargita solo a partire dal 2004 ed in forma discrezionale), il “diritto alla procreazione cosciente e responsabile” non è garantito dallo Stato, ma eventualmente solo dalla legge... biologica sulla riproduzione.

Anche i servizi sociosanitari previsti dal secondo punto del Prologo, dopo il buon avvio dei primi anni, sono ormai ridotti, nel migliore dei casi, a luoghi di visita ginecologica in funzione preventiva anti-AIDS o contro le altre malattie da contatto sessuale, quando non a semplici distributori di contraccettivi.

Secondo i dati contenuti nel rapporto “Organizzazione e attività dei consultori familiari pubblici in Italia anno 2008”, resi noti del ministero della Salute a 35 anni dalla nascita dei consultori, «le 2.097 strutture oggi esistenti risultano del tutto insufficienti per numero, non hanno quasi mai un adeguato personale e non sempre coprono tutti i servizi previsti, ad esempio solo una minima parte garantisce i colloqui con gli adolescenti». Per fare un esempio, la percentuale di ore d’ascolto degli adolescenti risulta «quasi inesistente» in Veneto e nel Lazio.

Tanto che proprio nel Lazio il consigliere regionale del Pdl Olimpia Tarzia, ex segretaria del Movimento per la Vita, ha avanzato la proposta di riconoscere i consultori privati o costituiti da associazioni familiari o che fanno capo a diocesi, già operanti sul territorio, al pari di quelli pubblici, e finanziare con risorse pubbliche queste realtà, previo accreditamento. E per la donna in difficoltà economiche che rinuncia all’aborto, si pensa ad un assegno di sostegno mensile.

Qualcuno dirà che si tratta di proposte “di destra”. Nel mio libro Ultimi – inchiesta sui confini della vita (Napoli, Pironti, gennaio 2010), rivendicando il diritto di “fare scandalo a sinistra”, da vecchia e mai pentita militante comunista sostengo che la vita, dal punto di vista biologico, non ha colore politico e risponde a leggi ferree che nessun partito è riuscito finora – fortunatamente – ad abrogare.



La dis-informazione programmata

Ben oltre le zuffe politiche sui diritti inalienabili dell’uomo e le contese partitiche fra Caste contrapposte, la legge biologica dovrebbe essere l’unico, autentico elemento cui far riferimento, in piena scienza e coscienza: tanto per legiferare in materie così delicate, quanto per farsi semplicemente una opinione personale. Ed è forse proprio per questo che anche nelle fasce medie della popolazione – con particolare incidenza proprio fra i legislatori – l’ignoranza delle leggi biologiche, in materia di inizio e fine vita, regna sovrana. Una dis-informazione che, tuttavia, non può dirsi casuale, ma rientra pienamente nei piani di coloro che su tali questioni hanno inteso finora seminare solo propaganda strumentale, al fine di condizionare le scelte dei cittadini.


Se appaiono sufficientemente chiari i motivi del condizionamento nel caso del fine-vita (prendiamo, ad esempio, degli interessi di Big Pharma nel colossale circuito della trapiantistica di organi o delle vendite, con prezzi alle stelle, di farmaci anti-rigetto), in materia di aborto le ragioni vere della propaganda sono in realtà meno immediate. Una, però, risulta a mio avviso di stringente evidenza: l’interruzione volontaria di gravidanza, legale o clandestina che sia, è servita in questi 35 anni a coprire la sistematica violazione della legge 194, da parte degli esecutivi di governo, in materia di informazione, prevenzione e sostegno delle donne.


Il concepimento, la trasformazione dello zigote in blastula, della blastula in morula, fino alla comparsa del tubo neurale e alla formazione dell’embrione, poi le successive, ardimentose mutazioni che ripercorrono, come in un libro aperto, la filogenesi dei vertebrati sulla terra… ecco argomenti sconosciuti del tutto anche ai più insigni letterati del Paese, ai più illustri giuristi, ad artisti, poeti, cantanti, ingegneri, astrofisici. E, soprattutto, oscuri per politici e politicanti che su questo difficile terreno non solo si avventurano, ma emanano leggi ed emettono sentenze.

Le carenze in materia dell’apparato formativo italiano, a partire dalla scuola, non rappresentano solo l’ennesimo vuoto in un sistema scolastico complessivamente monolitico ed autoreferenziale. No, quelle carenze sono il segno della precisa volontà di far crescere una popolazione inconsapevole e pronta a votare a seconda del vento che soffia più forte.

Alcuni giuristi e parlamentari si sono detti «sconvolti» dalla lettura del mio Ultimi. Ma a sconvolgere è il procedere incessante dei meccanismi – per noi in gran parte ancora indecifrabili – che regolano in ogni istante le funzioni degli esseri viventi.

In altre parole, la biologia non è una disciplina che il 99% della popolazione possa permettersi di ignorare, se ci definiamo un Paese civile e democratico. La scuola, ma anche le altre istituzioni, a tutti i livelli, dovrebbero renderne obbligatoria una conoscenza dettagliata e diffusa, non meno della matematico o della lingua italiana. Perché se anche i consultori avessero svolto appieno il compito loro assegnato dalla legge – ma abbiamo visto che non è così – le informazioni dell’ultimo minuto impartite ad una coppia quasi sempre impaurita, abbandonata dalla società al proprio destino e priva di sostegni economici, non sarebbe di certo stata sufficiente ad arginare quella scelta dell’aborto che, in quei casi, diventa solo una “legittima difesa” da parte di chi ha già una vita difficile o a rischio di sostentamento.

Difficilmente, invece, hanno fatto e fanno ricorso a strutture pubbliche – come consultori ed ospedali – le coppie o le donne che dispongono di mezzi economici. In quei casi, al fine di evitare indesiderata “pubblicità”, ci si rivolge a centri privati, quasi sempre illegali ma attivi a tempo pieno, nei quali comunque ben difficilmente viene svolta quella funzione di corretta informazione alla coppia – con tanto di “periodi di riflessione e ripensamento prima della scelta di abortire” - che è prevista dalla stessa 194. Il tutto avviene nella massima discrezione e con ogni confort per la paziente, previo pagamento di somme adeguate.



Uno su cinque

Sono state 121.301 le interruzioni volontarie di gravidanza in Italia. Il dato, l’ultimo disponibile e fornito dal ministero della Salute a gennaio 2010, è riferito al 2008. Nello stesso periodo i nati vivi sono stati 569.366. Significa all’incirca che un concepito su cinque non ce la fa a nascere. Le statistiche fanno segnare un lieve calo del tasso di abortività rispetto al 2007, ma non è possibile sapere se la quota mancante rispecchi un maggior ricorso alle strutture clandestine o, come pure sta già avvenendo, a presidi sanitari esteri. Fra questi ultimi si segnala in particolare la Gran Bretagna dove – secondo quanto reso noto dall’Eurispes a gennaio 2011 – lo scorso anno sono state 161 le cittadine italiane che hanno scelto quel Paese per la loro IVG (dati del Ministero della Salute inglese).


Colpa” di una obiezione di coscienza che in Italia risulta inarrestabile: nel 2008, stando ai dati del ministero della Salute, in Italia l'obiezione è arrivata a coinvolgere il 71,5% dei ginecologi, il 52,6% degli anestesisti e il 43,3% del personale non medico. Il che significa che l’aborto diventa un “male accettabile” per chi ne ignori le modalità o i contorni delle pratiche mediche. Ma per chi gli aborti li deve praticare tutti i giorni, il fardello può diventare insopportabile.


Il fenomeno dell’obiezione in crescita, peraltro, non ha di per sé a che vedere con le convinzioni religiose del personale sanitario. Lungi dal rimanere stabile, il dato cresce infatti fra quegli stessi medici, infermieri e paramedici che inizialmente avevano accettato di prestare la propria opera professionale per le interruzioni di gravidanza, mentre resta stabile quello zoccolo duro di antiabortisti convinti che fin dall’inizio avevano rifiutato di eseguire tali pratiche. Né pare razionale credere a fulminee conversioni religiose sulla via di Damasco per il crescente esercito di camici obiettori.



Non fare agli altri...

Quello che piuttosto appare con una certa evidenza è il ricorrere di un fenomeno quasi sempre eluso ma non per questo meno significativo: i medici ben difficilmente scelgono per sé quelle stesse prassi interventistiche che consigliano ogni giorno ai propri pazienti. L’ultima, approfondita ricerca in materia riguarda la Germania ed è raccolta nel libro-choc del giornalista d’inchiesta tedesco Jorg Blech, La medicina che non guarisce (Torino, Lindau, 2007). Ecco alcuni impressionanti passaggi.



Nel 2006 gli ortopedici dell’Università di Heidelberg domandarono a circa 200 colleghi tedeschi come si sarebbero comportati se fosse stata prospettata loro la necessità di sottoporsi ad alcuni fra i più comuni interventi chirurgici di routine. La percentuale media di coloro che avrebbero accettato l’operazione ortopedica non superava il 17%.

A stanare la risibile percentuale dei medici che, più in generale, decidono di stendersi sul lettino operatorio è stato il ricercatore del Canton Ticino Gianfranco Domenighetti, autore di molteplici indagini di questo tipo, i cui esiti vengono riferiti puntualmente da Blech. Lavorando in équipe con alcuni colleghi dell’Università di Zurigo, Domenighetti esaminò sette interventi chirurgici molto comuni e non urgenti (tonsillectomia, raschiamento, isterectomia, ernia inguinale, emorroidi, asportazione della cistifellea ed appendicectomia) eseguiti su circa 6.000 pazienti in analoghe condizioni di salute, per vedere quale fosse in media la frequenza di queste operazioni eseguite sui medici. L’uomo qualunque si trova sotto i ferri dal 47 fino all’84 per cento di volte più rispetto ad un operatore sanitario. «Il che significa - conclude Blech - che almeno un terzo delle operazioni eseguite è del tutto superfluo».

I risultati svizzeri servirono ad aprire la strada per analoghe ricerche in Germania: l’Istituto di epidemiologia sociale di Hannover ripropose il quesito sui sette interventi ad un campione di mille medici fra urologi, ginecologi, chirurghi, internisti ed otorinolaringoiatri: oltre la metà dei sanitari dichiarò che preferiva far ricorso all’autoguarigione anziché alle terapie standard della propria specialità. Oltre il 50 per cento delle ginecologhe avrebbe rifiutato l’isterectomia anche in caso di un grosso tumore benigno all’utero, il 56 per cento degli urologi avrebbe detto no all’asportazione della prostata pur se l’ingrossamento dell’organo avesse ridotto il flusso urinario. E un sondaggio realizzato in Svizzera rivela che solo il 18 per cento di figli dei medici è stato operato di tonsille, contro una percentuale del 33 per cento tra i pazienti comuni.

Nel corso delle lunghe ricerche eseguite per la stesura di Ultimi ho più volte cercato, attraverso diverse fonti, una statistica sulla percentuale di aborti fra le donne medico o comunque operatore sanitario. Non sono in grado di fornire questo dato, semplicemente perché nessuno – fra i tanti ginecologi consultati – ricorda di una collega che, in buona salute, si sia volontariamente sottoposta a tale pratica.

Forse il dato è mancante semplicemente perché nessuno lo ha mai elaborato.

Quello che però sono riuscita a dimostrare è che risulta praticamente nullo il numero di donazioni di organi da parte di medici o paramedici.

Anche alla luce dei risultati offerti da Blech, verrebbe da dire che per le interruzioni volontarie di gravidanza possa valere la stessa regola: lasciate che ad abortire siano gli altri.



La delega

Il nostro discorso – che andrebbe ancora dettagliato ed approfondito in molti punti, state la sua complessità e le molteplici implicazioni connesse – finisce qui, nello stesso punto dal quale abbiamo incominciato.


L’aborto è infatti uno di quei fenomeni – ma non certo l’unico – grazie al quale il tasso di natalità nel nostro Paese cala paurosamente di anno in anno.

Ad incidere sono in primo luogo le politiche sociali inadeguate, quando non completamente latitanti. Ma c’è anche quella sorta di mentalità dura a morire, una specie di “colpevolizzazione” non detta, a priori, della donna in stato di gravidanza che, se lavoratrice, teme di perdere l’occupazione conquistata a fatica oppure, se già madre, rischia di non poter più sostenere gli altri figli. Proprio nel momento in cui la natura le assegna il compito primario per gli esseri viventi, la donna italiana viene lasciata sola e, molto spesso, privata anche della dignità.

Sono questi i fattori per i quali oggi possiamo tranquillamente affermare che la popolazione italiana non ha solo affidato alle lavoratrici straniere la cura dei propri anziani. No, alle bionde ucraine o polacche, alle rumene non meno che alle ragazze albanesi o cingalesi divenute cittadine italiane noi abbiamo delegato il più straordinario compito che esista per una specie: la riproduzione.



Inserito: 1 aprile 2011; correzione refuso: 28 febbraio 2017

Scienza e Democrazia/Science and Democracy

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