Simon Maurano*


Rischio ambientale, scienza, democrazia, interessi economici

Il caso della crisi dei rifiuti in Campania



1. Rischio ambientale ed ecologia politica


La società contemporanea sembra aver raggiunto un punto di discontinuità col passato: tecnica e democrazia appaiono infatti come poteri alternativi di ordinamento del mondo (Ungaro 2004, pp.VIII-IX), mentre il potere politico a scala globale è spesso dominato dal mercato e da istituzioni d'ispirazione liberista che non sono in grado di prendersi in carico il problema del superamento tecnico della democrazia. La tecnocrazia diviene dunque una forma di potere in cui tecnologia e scienza scavalcano la politica nel ruolo di arena di decisioni fondamentali per le comunità sociali (locali, nazionali o globali).


In tale quadro, due processi in corso alimentano tale rapporto conflittuale tra potere della tecnica e potere della politica: quello della deistituzionalizzazione cumulativa e quello della specializzazione deselettiva (De Marchi 2001, pp. 128 e segg.). Il primo indica «l'eliminazione metodica di tutti i vincoli alla produzione tecnica considerati non razionali», dove la razionalità nel produrre è garantita dal mercato: tutto è fattibile se il mercato lo richiede, e nessuna autorità può bloccare la produzione, allorquando sia ritenuta insostenibile. Il secondo consiste nell'alta specializzazione settoriale delle comunità scientifiche, che genera effetti paradossali: se la specializzazione era nata come autonomia della scienza da ogni vincolo non razionalmente scientifico, la ristrettezza dei gruppi di scienziati che studiano solo determinate componenti di un tutto produce infine un'alta «rigidità paragonabile ai saperi tradizionali e dogmatici» (ibidem, p. 130). Esempio chiarificatore è quello del disastro del Vajont, dove la diga costruita era tecnicamente ineccepibile, tanto da resistere alla frana del monte Toc che provocò l'ondata che rase al suolo i paesi a valle: benché dal punto di vista ingegneristico la centrale elettrica era perfettamente costruita, non si era però preso in considerazione né il sapere locale tradizionale, che ben conosceva la franosità del Toc (in dialetto veneto "fradicio"), né il parere del geologo. Gerarchicamente, infatti, il sapere ingegneristico è considerato superiore a quello di altre discipline (ibidem, p. 131), e ancor più di quello di un gruppo di montanari. In aggiunta, bisogna considerare gli interessi economici in gioco: negli anni '60 l'approvvigionamento energetico era basilare per sostenere il boom economico, e dunque potremmo affermare che il fattore economico, ancor più degli altri, è spesso sovraordinato agli eventuali costi socio-ambientali. Simili vicende accadono in molti casi nel mondo, dove, quand'anche non si manifestino disastri improvvisi, si possono constatare effetti ben più subdoli, che agiscono a medio e lungo termine: basti pensare all'estrazione di metalli preziosi o del petrolio, allo smaltimento delle scorie tossiche o radioattive, all'uso dei bacini fluviali al di sopra delle loro capacità di ricarico. A scala globale, poi, il caso del riscaldamento climatico rappresenta oggi il problema probabilmente più carico di conseguenze, i cui effetti si distribuiranno di certo in modo diseguale.


Negli anni in cui cresce la percezione delle conseguenze negative del progresso tecnologico e del divario tra sviluppo tecnologico e sviluppo della democrazia nascono le prime forme di ambientalismo. Una corrente di pensiero in particolare muove le prime critiche alla modernizzazione, l'ecologia politica. Ambientalisti, studiosi, attivisti o politici presentano i rischi ambientali crescenti non tanto (e non solo) come conseguenza di errori nella valutazione dei rischi tecnologici, ma soprattutto come conseguenza di scelte politiche errate. Essi evidenziano proprio la possibilità di perseguire scelte politiche alternative che partano da riflessioni sugli obiettivi del progresso (De Marchi 2001, p.125; Ungaro 2004). I movimenti afferenti a tale corrente di pensiero rivendicano infatti la partecipazione politica alle scelte riguardanti la produzione e il consumo, sottolineando non solo il problema degli impatti ambientali, ma anche la loro sperequata distribuzione sul territorio (a scala locale e globale).


Le critiche dell'ecologia politica si scagliano dunque contro quella nuova forma di modernizzazione che, secondo Ulrick Beck, nasce alla fine del '900, quando, grazie agli sviluppi della scienza e della tecnica, diviene possibile godere dei benefici del progresso, ma solo a patto di convivere con i conseguenti rischi ambientali crescenti (Beck 1992). Le nuove attività economiche, infatti, seguono «una logica economica di scambio più tecno-logica, [che] può [...] rendere le mucche più produttive, ma anche “pazze”» (Ungaro 2004, p.VII). Alcuni effetti possono essere gravi e perfino irreversibili – basti pensare ai disastri come quelli di Hiroshima o Chernobyl, Seveso, Bhopal...(Centemeri 2006).


Meglio dunque rifugiarsi nell'idea di un ritorno al passato?


A chi asserisce che oggi si vive di più e meglio grazie al progresso, e a chi ha nostalgia di un passato mitico si può rispondere che probabilmente la questione è mal posta: ogni epoca ha le sue difficoltà oggettive. In epoca pre-moderna bisognava difendersi in particolare da pericoli insiti nell'ambiente, per loro natura poco prevedibili1, e lottare per la sopravvivenza contro una natura madre ma anche “matrigna”. Oggi scienza e tecnica, sottomettendo la natura alle volontà umane, hanno permesso uno sviluppo demografico rapidissimo e mai visto in precedenza, ma hanno anche generato impensabili minacce di annientamento della vita derivante ad esempio dai rischi del nucleare bellico, vissuti concretamente durante la Guerra Fredda, e ipoteche sulla qualità della vita futura, come il riscaldamento climatico. Esprimere un giudizio sul periodo moderno e quello pre-moderno è quindi impresa ardua, e tocca convinzioni personali e personali desiderata rispetto a stili e qualità di vita attesi. Il punto fondamentale è un altro: nell'attuale “nuova modernizzazione” descritta da Beck i rischi del progresso sono in buona parte conosciuti, anche se le conseguenze della sinergia delle esternalità negative della crescita economica è ancora in gran parte incerta (si pensi nuovamente ai possibili scenari futuri del cambiamento climatico); spesso però i decisori/tecnocrati preferiscono correre il rischio. Le ragioni consistono di solito nel fatto che:


- i rischi tecnologici e ambientali vengono valutati in base ad un calcolo costi/benefici che sopravvaluta l'importanza del profitto economico, minimizzando la perdita di valori sociali o di ambienti naturali;

- le esternalità negative dei rischi tecnologici e ambientali ricadono spesso in modo sperequato sul territorio.


Un problema fondamentale del calcolo costi/benefici è che i pochi decisori-tecnici che decidono lo fanno per tutti gli altri, con criteri di valutazione raramente condivisi: come afferma Martinez Alier spesso viene imposta la logica della valutazione monetaria di un progetto, riducendo tutti i valori ad un calcolo economico. Tale riduzionismo rende impossibili altre valutazioni, basate su altri valori: coloro che sono in grado di imporre i loro metodi di semplificazione della complessità secondo i propri valori, sono quelli che riescono a imporsi nelle decisioni che riguardano tutti (Martinez Alier 2009, pp.219-221).


2. Gestione e comunicazione del rischio ambientale nel caso campano della crisi dei rifiuti: esempi di partecipazione negata


In Campania le istituzioni e il settore privato gestore del settore rifiuti hanno rappresentato gli shareholder2 che hanno imposto la propria chiave di lettura della realtà. La loro semplificazione della complessità ha generato un certo sistema di gestione che, misto alla bassa efficienza delle amministrazioni locali, alla pervicacia delle organizzazioni criminali e alle connessioni tra queste ultime e i settori legali dell'economia, ha causato quel ben noto disastro, che ha avuto diffusione mediatica mondiale attraverso le immagini dell'immondizia accumulata nelle strade di Napoli.


Questa situazione è stata finora affrontata in gran parte per mezzo di attività palliative sia dal governo nazionale che dalle amministrazioni locali, quali il riuso di discariche già chiuse, il trasferimento di rifiuti all'estero o in altre regioni eccetera.


Nascosto dal bombardamento quotidiano di notizie sulle colline di rifiuti che compaiono periodicamente a Napoli, lo smaltimento illegale di rifiuti pericolosi in periferia ha continuato a generare enormi profitti per le organizzazioni criminali e grossi risparmi per i settori industriali nazionali più inquinanti, causando disastri ambientali in varie aree della regione un tempo fertili. Eppure anche le istituzioni preposte a gestire l'emergenza, che hanno agito in deroga alle norme per la tutela dell'ambiente proprio in nome dell'emergenza stessa, hanno contribuito a compromettere l'ambiente: spesso l'immondizia indifferenziata in eccedenza è stata pericolosamente stipata in discariche già sature, o mal costruite, o ancora con presenza di inquinanti pericolosi.


Anche la costruzione dell'inceneritore di Acerra non ha risolto i problemi, ma anzi ne ha aggiunti di ulteriori, come sarà accennato in seguito.


Pertanto, l'affare rifiuti ha alimentato un aspro conflitto ambientale con le popolazioni locali colpite da localizzazioni indesiderate di impianti di smaltimento. In molti casi le comunità locali sono andate oltre la singola questione locale, superato la “sindrome nimby3 di cui erano tacciate, e hanno contribuito a creare un movimento regionale, da un lato critico nei confronti delle istituzioni, dall'altro carico di proposte alternative di gestione sostenibile dei rifiuti. Esse non credono alle soluzioni proposte dalle istituzioni e dalle aziende coinvolte, che invece accusano di approfittare del regime di emergenza per ottenere vantaggi e profitti scaricando i costi sulle loro spalle.


Effettivamente la gestione dell'ambiente (delle risorse naturali, delle catastrofi, dell'energia...) è carica di interessi economici, poiché riguarda settori economici in cui le decisioni politiche muovono ingenti finanziamenti statali in diverse direzioni possibili. Basti pensare agli scandali delle ricostruzioni post-terremoto, alle recenti battaglie tra fautori della privatizzazione del settore idrico e comitati referendari per l'acqua pubblica, a quelle pro e contro l'energia nucleare, settori sui quali le aziende multiutilities hanno forti interessi, per capire quanto sia alta l'attenzione anche nel settore dello smaltimento dei rifiuti. In particolare il settore dell'incenerimento dei rifiuti può risultare appetibile per gli investitori, come in Italia prima che l'Unione Europea sanzionasse i finanziamenti statali elargiti agli inceneritori per ogni tonnellata di rifiuto bruciata, equiparata dalla normativa alle energie rinnovabili4.


Varie inchieste della magistratura, in Campania come in Abruzzo, hanno messo in luce come gli interessi dei gestori degli inceneritori contrastino con la normativa ambientale che impone di attuare quote crescenti di raccolta differenziata dei rifiuti. Ma ciò s'intuisce anche considerando le più banali leggi economiche: ogni azienda ricava maggiori profitti con la crescita delle vendite dei beni prodotti o i servizi offerti; se assumiamo lo smaltimento dei rifiuti come un servizio, la riduzione di rifiuti trattati attraverso politiche ambientali virtuose può naturalmente rappresentare un problema per gli investitori. Per approfondire l'argomento, al di là della verità giudiziaria in corso di accertamento, le considerazioni del libro Ecoballe di Paolo Rabitti illustrano bene quali e quanti interessi abbiano portato all'accumulo illegale di più di sei milioni di tonnellate di rifiuti, teoricamente utili all'incenerimento come parte secca, imballati e stoccati nelle campagne di Giugliano e di altri luoghi della regione.


Recentemente, poi, in Abruzzo la magistratura ha messo a nudo le attività di lobby di un blocco politico-affaristico pronto ad investire nella termocombustione dei rifiuti, ma solo se le pressioni sull'ente regionale fossero riuscite a condizionarne la politica, tanto da garantire il non raggiungimento degli obiettivi di raccolta differenziata: il fine del lavoro di lobby era quello di destinare una importante quota di immondizia allo smaltimento e non al recupero. Solo così sarebbe stato conveniente investire nell'inceneritore.5


Nella gestione dell'ambiente, quindi, le poste in gioco sono molto elevate, l'incertezza scientifica è terreno di scontro tra gli stessi esperti di scuole di pensiero differenti, mentre la necessità di prendere urgentemente decisioni non favorisce la ricerca di valutazioni né oggettive né condivise su quali rischi ambientali siano accettabili e su chi debba correrli (Funtowicz e Ravetz 2003). In un territorio dove la camorra ha fiutato la convenienza ad infiltrarsi in tutte i passaggi tecnici e amministrativi dello smaltimento rifiuti, poi, i condizionamenti alla politica dei rifiuti hanno reso ancor più difficile un ritorno a una gestione normale, pensata come servizio per la cittadinanza.


Come se non bastasse, si può affermare che per la Campania vale quanto già denunciato dai movimenti dell'environmental justice negli Stati Uniti negli anni '80-'90: spesso le comunità territoriali più deboli subiscono i maggiori impatti ambientali. Le motivazioni sono varie: costi bassi dei suoli, disponibilità ad accettare impianti inquinanti in cambio di opportunità lavorative, calcolo opportunistico di chi preferisce localizzare impianti inquinanti laddove la reazione attesa sarà più blanda o dove la legislazione per la protezione dell'ambiente è meno restrittiva ecc.


In tale quadro la valutazione del rischio ambientale imposta dalle istituzioni preposte a gestire l'emergenza ha teso, nella comunicazione ai cittadini, a minimizzare i problemi e i rilievi sollevati da abitanti ed esperti indipendenti preoccupati. Questo comportamento si può far rientrare probabilmente nei tentativi delle istituzioni di minimizzare gli effetti delle lotte nimby, e di riacquisire la fiducia dei cittadini: ma è proprio la gestione inefficiente delle crisi e dei conflitti ambientali che incrina spesso irrimediabilmente il rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini, come afferma ad esempio Centemeri nel suo saggio sul caso Seveso (Centemeri, 2006, pp.84-85).


In quel caso le autorità non conoscevano bene gli effetti precisi della diossina, ma, pur sapendo che era un inquinante nocivo, non si allertarono in tempo per scongiurare la catastrofe. Anche in Campania gli allarmi provenienti dai luoghi più colpiti dalla crisi dei rifiuti non hanno dato seguito a una adeguata reazione delle istituzioni, benché la letteratura scientifica internazionale abbia già dimostrato che lo smaltimento dei rifiuti ha impatti significativi sull'ambiente e sulla salute, nei casi di illeciti in particolar modo, ma anche nelle consuete pratiche di smaltimento consentite dalle normative della maggioranza dei paesi europei. Oggi la più recente legislazione europea, infatti, è orientata verso la sostituzione del mero smaltimento dei rifiuti urbani o industriali con pratiche di recupero dei materiali di scarto che evitino di ricorrere a quelle che sono considerate le peggiori opzioni di smaltimento: discarica e incenerimento.


Nella valutazione del rischio, dunque, la comunicazione dei diversi attori coinvolti gioca un ruolo molto importante. Intendo qui fornire tre esempi concreti di come in Campania la comunicazione istituzionale del rischio è stata improntata ad una valutazione che minimizza gli effetti negativi della cattiva gestione dei rifiuti campani, da un lato, e giustifica soluzioni non condivise dai cittadini ma improntate alla massimizzazione del profitto per gli shareholder coinvolti, dall'altro.


1) Sul problema dello smaltimento illegale di rifiuti speciali, tossici e nocivi, affare tra i più redditizi per la camorra, si è dibattuto molto. I movimenti ambientalisti campani denunciano la disattenzione delle istituzioni, alimentata da collusioni tra malaffare e elementi delle amministrazioni sospettate o dimostrate in numerose inchieste della magistratura. In particolare è stata messa in evidenza l'incongruente numerosità degli spiegamenti di forze dell'ordine e di militari a difesa di infrastrutture di smaltimento invise ai cittadini, confrontata all'inesistenza dello Stato in territori lasciati al controllo dei clan camorristici come quelli tra Napoli e Caserta. Qui le Asl hanno denunciato una crescita di malattie tumorali e malformazioni congenite alla nascita, mentre numerosi studi, tra cui quello dell'Oms (2007), hanno evidenziato un'effettiva correlazione geografica tra smaltimento illecito di rifiuti speciali, presenza di discariche illegali e incidenza di malattie su alcuni territori, sia pur non potendo stabilire con precisione il livello di causa-effetto di questa correlazione. Su questo punto vi è stato un vivace dibattito scientifico, animato in particolare da studiosi di associazioni come quella dei Medici per l'ambiente – Isde Italia (International Society of Doctors for the Environment), che hanno evidenziato la necessità di agire secondo il principio di precauzione nell'incertezza delle conclusioni degli studi epidemiologici: se sono necessari molti anni e ricerche approfondite per stabilire quanto rilevante sia ad esempio il peso di una fonte di inquinamento piuttosto che di un'altra, vi è comunque la certezza della nocività delle pratiche di smaltimento illegale dei rifiuti, e questo basterebbe a condizionare le politiche del territorio. Leggendo gli studi governativi, invece, si ha l’impressione che essi vogliano minimizzare le eventuali relazioni di causa/effetto per non alimentare allarmismi nella popolazione e, in definitiva, per lasciare le cose come stanno. Intervenire seriamente contro il traffico di rifiuti tossici in ingresso in Campania e bonificare i territori devastati comporterebbe infatti un impegno politico di pianificazione del controllo e di gestione delle risorse naturali del territorio che probabilmente va al di là delle possibilità attuali di governo.


Si legge nelle conclusioni di uno studio del Commissariato all'emergenza rifiuti che


la cosiddetta “epidemia di malasalute da rifiuti”, quindi, non trova sostegno in questi dati: nessuno degli elementi descritti sostiene la formulazione di associazioni tra rifiuti e malattie. Certo, questo rapporto non fornisce risposta ai quesiti che riguardano le cause dei particolari problemi di salute delle Province di Napoli e Caserta. Tuttavia, la coerenza e la plausibilità delle informazioni coincidono con il consenso della letteratura internazionale, che nega un’associazione tra trattamento dei rifiuti solidi urbani e malattie. […] Cause note spiegano la maggior parte delle patologie osservate: l’eccesso di mortalità per malattie cardiovascolari collima con l’eccesso di fumatori, obesità, dieta scorretta e scarsa attività fisica; l’eccesso di mortalità per cancro al polmone corrisponde bene all’alta proporzione di fumatori; infine l’eccesso di cancro al fegato è legato all’endemia di epatiti croniche da virus B e C. […] C’è una forte plausibilità socioeconomica: le aree più affollate e socialmente deprivate presentano indici di cattiva salute più elevati delle altre. La deprivazione economica, culturale e sociale è ancora, in tutto il mondo, il primo determinante di cattiva salute» (Commissariato di Governo per l’Emergenza Rifiuti in Campania, 2008, pp. 123-124).


Si potrebbe obiettare ancora che «le giustificazioni addotte dagli organi di Governo appaiono troppo centrate sull'eliminazione della percezione del rischio, piuttosto che su quella del rischio stesso» (Maurano 2010, p. 313): in un clima di sospetto reciproco e di sfiducia nelle istituzioni, gli appelli ad evitare allarmismi provenienti dagli attori ritenuti colpevoli del disastro ambientale non hanno avuto molto effetto, se non probabilmente quello di alimentare la rassegnazione di alcuni cittadini e di esacerbare gli animi di altri che hanno proseguito a organizzare movimenti ambientalisti e approfondimenti di controinformazione sul tema.


2) L'incenerimento dei rifiuti è stato presentato come la soluzione rapida, tecnologica e sostenibile al problema di smaltire masse di rifiuti domestici che hanno messo a rischio l'igiene e il decoro delle città nei periodi di difficoltà di smaltimento e di conseguente accumulo di immondizie nelle strade. Ma, come ben evidenziato da Rabitti (2008), la soluzione a favore della costruzione degli inceneritori in Campania nasconde molto probabilmente forti interessi economici, che hanno limitato l'adozione di pratiche maggiormente sostenibili di recupero degli scarti, quali il riutilizzo e il riciclaggio, gerarchicamente preferite dalle normative europee a incenerimento e deposito in discarica.


Senza addentrarci nelle vicende giudiziarie che coinvolgono la Fibe-Impregilo e i Commissari governativi, ci concentreremo su un episodio di comunicazione ambientale che ha contribuito a sviluppare il dibattito tra studiosi e movimenti campani. Il 15 gennaio 2008, prima dell'ultimazione dell'inceneritore di Acerra e in periodo di crisi, la Facoltà di Ingegneria dell'Università Federico II di Napoli ha invitato il prof. Paul H. Brunner, chimico esperto di sistemi di smaltimento di rifiuti e di incenerimento, a tenere la relazione “La grande città e i suoi rifiuti”. Si tenga presente che vari studiosi delle facoltà tecniche campane sono stati coinvolti nella pianificazione del sistema di gestione dei rifiuti: l'invito a Brunner è parso subito come un modo per difendere la politica dei rifiuti dei Commissariati di Governo. Nella sua relazione, Brunner, dopo aver parlato della necessità di creare un sistema integrato per lo smaltimento dei rifiuti urbani, ha infatti decantato le doti dei moderni inceneritori, evidenziando come gli attuali impianti di termocombustione dei rifiuti, attraverso sistemi di filtraggio dei fumi più moderni, riescono ad abbattere buona parte delle sostanze inquinanti rispetto agli anni '60 e '70. Il suo elogio tecnologico dell'inceneritore di Vienna, posto al centro della città, non è piaciuta ai membri dei movimenti sociali e ambientali, che lo hanno incalzato con domande riguardanti i rischi residui di inquinamento e quelli legati al problematico impianto di Acerra in particolare.


Pur ammettendo di non conoscere bene la situazione campana e i mille problemi tecnici, giudiziari, politici legati all'impianto oggi attivo ad Acerra, Brunner ha comunque ammesso che in generale non è possibile eliminare tutti gli inquinanti. Senza addentrarci nel dibattito tecnico, è utile qui mettere in evidenza un passaggio del discorso del chimico di Vienna: egli infatti ha affermato che, dato l'aumento enorme del metabolismo sociale, bisogna trovare un rimedio all'aumento dei rifiuti domestici che protegga l'uomo, l'ambiente e le risorse naturali. Il rimedio sta per Brunner nelle tecnologie avanzate, inserite in un sistema integrato di smaltimento dei rifiuti6. Su questo punto in particolare si differenzia dalla visuale degli ambientalisti e anche della normativa europea sulla filiera dei materiali: Brunner ha affermato che se vogliamo il progresso, dobbiamo mettere sul piatto della bilancia costi e benefici, e scegliere tra un ambiente puro al 100% e i benefici quotidiani del progresso tecnologico. La scelta, nota Brunner, è implicita nelle preferenze dei consumatori, che desiderano sempre prodotti nuovi e tecnologie più avanzate.


Potremmo definire l'idea di Brunner come inserita nel pensiero dominante del predominio della tecnologia sulla democrazia: le scelte a monte sono date per scontate, non c'è nessun accenno al tema dei bisogni indotti e degli eccessi del consumismo, né a possibilità di cambiamenti delle abitudini di consumo, come invece accade già negli ultimi programmi ambientali dell'Unione Europea – sebbene solo a livello di dichiarazioni di principio: raramente tali dichiarazioni trovano applicazione, specialmente allorquando la crescita economica è considerata una priorità assoluta, come nell'attuale crisi economica.


Dunque per scienziati come Brunner il solo calcolo costi/benefici interno a una presunta razionalità delle scelte dei consumatori, giustifica soluzioni come l'incenerimento, che hanno costi elevati in termini economici (impiantistica e ricerca scientifica per limitare le emissioni in base alla legge7) e costi ambientali. Ma la termocombustione, consentendo di ridurre velocemente il volume degli scarti di un consumo sempre meno sensato, permette di far spazio ai nuovi rifiuti in arrivo e quindi di lasciar fluire il circolo della materia utile alla crescita economica: come sottolinea Bauman, infatti, per far spazio alle novità, la società dei consumatori8 deve necessariamente cercare sempre muovi spazi dove smaltire gli oggetti usurati o semplicemente rifiutati, in un processo di obsolescenza che diviene sempre più veloce e che è sospinto ad arte dalla pubblicità e dalla moda (Bauman, 2007; Codeluppi, 2003).


Brunner potrebbe essere collocato, seguendo lo schema di Shrader-Frechette, in uno dei tre gruppi che solitamente hanno preconcetti verso gli atteggiamenti di rifiuto del rischio: i portavoce dell'industria, gli analisti del rischio (spesso esperti pagati dall'industria stessa), o gli scienziati sociali sfavorevoli alla partecipazione (Shrader-Frechette, 1993, pp. 39 e segg.). Molte volte questi esperti, soprattutto se tecnici, sono ben inseriti nel processo di pianificazione dei sistemi industriali come quelli per lo smaltimento dei rifiuti: ed è difficile che esperti in termocombustione considerino sconveniente la termocombustione stessa.


La contrarietà alla partecipazione di Brunner potrebbe stare nell'assunzione di alcune ipotesi non scientificamente verificate: egli in questo caso assume come dato di fatto che la popolazione preferisca correre i rischi connessi all'incenerimento dei rifiuti, pur di poter godere dei vantaggi della tecnologia. Non esiste forse un sondaggio a livello nazionale sul gradimento delle pratiche di incenerimento, ma si può affermare che oggi, così come vi è una preferenza dei consumatori per prodotti sempre nuovi, vi è anche un movimento sempre più ampio di ribellione alla costruzione di nuovi inceneritori o all'espansione degli stessi. Esso deriva da vari fattori: da casi di cattiva gestione e conseguente aumento della percezione del rischio (si vedano i recenti casi di Acerra o di Colleferro); dalla riduzione degli spazi usati per smaltire le scorie, e quindi dalla necessità di pianificare nuovi impianti di smaltimento; dalla diffusione di informazioni sui rischi per la salute e soprattutto sulla possibilità di accesso a soluzioni alternative all'incenerimento più sostenibili per l'ambiente e anche più convenienti a livello economico e occupazionale. Naturalmente, per metterle in atto soluzioni più sostenibili, è necessaria una buona organizzazione istituzionale basata sulla leale collaborazione dei cittadini – fatto non impossibile, tanto che sta avvenendo anche in svariati comuni campani, non solo piccoli e poco urbanizzati (si pensi agli elevati tassi di raccolta differenziata di Portici e Salerno, o a quelli di alcuni quartieri di Napoli).


Concludendo, dunque, tecnici come il prof. Brunner negano una scelta democratica9 a monte di quella tecnologica, garantendo così lo status quo che favorisce gli interessi degli shareholders.


3) Anche il futuro della questione rifiuti campana si avvia su una strada poco democratica e partecipata. Il Piano rifiuti della Regione Campania che la nuova Giunta regionale sta elaborando10 non cambia di molto le possibilità della popolazione di partecipare alle scelte tecniche degli organi amministrativi: da un lato la Giunta ha adottato le stesse pratiche decisorie dei commissari governativi, prive di coinvolgimento della popolazione, dall'altro essa ha affidato il Piano al prof. Umberto Arena, ordinario di Ingegneria Impiantistica presso la Seconda Università di Napoli, ed esperto di sistemi di recupero energetico da rifiuti, già consulente dei commissari all'emergenza rifiuti: una scelta di un tecnico che ha già idee precostituite su come gestire la questione, su cui dunque riproporre quantomeno le critiche già fatte a Brunner nel punto precedente.


Il piano che in questi mesi la Regione sta inviando all'Unione Europea per ricevere i finanziamenti bloccati proprio in conseguenza dei mancati adempimenti nella gestione dei rifiuti, si mostra tutto sbilanciato sulla soluzione dell'incenerimento, in contrasto con la gerarchia europea delle soluzioni da preferire per il trattamento dei rifiuti e con la normativa italiana. Il piano prevederebbe il raggiungimento del 50% di raccolta differenziata, contro il 65% previsto dalla legge: in tal modo sarebbero ancora una volta favoriti i gruppi industriali che si occupano di costruzione e gestione degli inceneritori, la cui poca energia prodotta sarebbe ancora finanziata dai cittadini italiani come fonte rinnovabile. In tal modo si alimenta il sospetto per cui gli shareholder determinano la gestione del territorio al posto della politica – intesa come mediazione degli interessi e difesa dei diritti dei cittadini.


Casi come quelli descritti sono esempi di azioni tese a ridurre gli spazi di partecipazione dal basso, nell'applicazione del classico modello DAD (decisione verticistica, annuncio al pubblico, difesa delle obiezioni), usato spesso dai decisori forti all'interno dei conflitti ambientali (Faggi, Turco, 1999). Tale modello risulta essere controproducente, poiché genera territorialità non condivisa, sfiducia nelle istituzioni e inasprimento dei conflitti territoriali. Eppure negli anni del conflitto dei rifiuti i gruppi di cittadini campani coinvolti hanno sviluppato un'organizzazione complessa e hanno elaborato idee sempre più precise per una gestione dei rifiuti più sostenibile e partecipata, che avrebbero potuto essere parte della soluzione del problema, e non parte del problema11.




3. "Positivismo ingenuo" o interessi economici?


Nel contesto delineato le condizioni per una partecipazione costruttiva dei cittadini sono molto deboli. Il sospetto che nasce in tali circostanze è che i decisori politici e i tecnici coinvolti abbiano negato la partecipazione dal basso tenendo un comportamento oscillante tra il “positivismo ingenuo” e il favoritismo nei confronti di gruppi economici e di potere, al fine di alimentare la propria sopravvivenza nell'apparato politico-burocratico. Con “positivismo ingenuo” Shrader-Frechette intende un atteggiamento estremo di difesa delle posizioni tradizionali della scienza, di coloro che «danno per scontato che esista e sia applicabile un unico criterio di valutazione o un unico paradigma di razionalità» (Poli, 1993, p. 14), considerato scientifico ma che solitamente coincide con quello economico. I commissari di governo e le istituzioni regionali in Campania hanno considerato razionale affidarsi alle soluzioni tecnologiche proposte dall'industria di smaltimento dei rifiuti, riconoscendo in essa l'unica fonte di certezza scientifica. Come mostra il caso della gara d'appalto vinta dalla FIBE e atta a sviluppare un sistema integrato di smaltimento dei rifiuti, questa fiducia è stata mal riposta per due principali ordini di motivi: primo, perché la razionalità scientifica dell'impresa ha portato ad adottare un sistema integrato teoricamente funzionante12, ma di certo non avanzato in quanto a criteri di sostenibilità ambientale13; secondo, perché questo sistema non ha funzionato secondo le promesse: sospettano in molti (magistratura, esperti, tecnici) che è stato sistematicamente sabotato14, generando grandi svantaggi per i cittadini e vantaggi esclusivamente per coloro che, a vario titolo, erano coinvolti nel sistema di gestione: i gruppi camorristici che hanno sempre tratto beneficio nelle situazioni in cui sfruttare i fondi supplementari elargiti in emergenza, e quindi con controlli più blandi; i gruppi industriali coinvolti che hanno ottenuto profitti senza fornire il servizio prestabilito; i clienti e i fornitori del servizio illegale di smaltimento dei rifiuti tossici, che hanno tratto enormi vantaggi dal caos e dall'assenza di controlli; finanche i lavoratori assunti da un sistema clientelare, che hanno ottenuto solo le briciole da questo grande affare, e che in cambio hanno però alimentato il consenso politico ai gruppi di potere che hanno gestito il caos.


Gli stessi commissari governativi succedutisi in Campania dal 1994 e i loro staff tecnici si trovano oggi a fronteggiare accuse della magistratura e denunce della Corte dei Conti che avanzano il sospetto di enormi malversazioni economiche e operazioni deleterie per l'ambiente locale: soluzioni raffazzonate alla crisi che permettevano però la sopravvivenza di queste strutture delegate a gestire un'emergenza divenuta gestione ordinaria.


Insomma, in Campania il positivismo ingenuo e gli interessi economici illegali hanno creato una miscela esplosiva. Per un verso infatti, il positivismo e la fiducia nel progresso, nella sfera economica e politica delle società occidentali, hanno generato politiche tese non tanto a revisionare il proprio approccio di sfruttamento delle risorse naturali, ma soltanto a limitarne le emissioni nell'ambiente: la priorità del pensiero dominante è sempre stata quella di non fermare la crescita economica, con l'idea che il progresso tecnologico stesso avrebbe trovato la soluzione alle esternalità negative. Per altro verso, poi, quando l'approccio business as usual si mescola allo sfruttamento dell'ambiente per fini illegali, gli effetti negativi della crescita non saranno limitati ma vengono amplificati, con tanto di giustificazione delle istituzioni stesse: pur di salvare l'approccio economico, in realtà come la Campania sono state giustificate dal regime di emergenza le peggiori violazioni alla normativa ambientale, negando inoltre la partecipazione dei cittadini alle decisioni fondamentali per il territorio15.


A tal proposito i comitati campani affermano con convinzione che la crisi dei rifiuti non è una questione tecnica, ma è totalmente politica (parlano di “crisi democratica”), ed è “creata ad arte” per continuare a parassitare sui fondi pubblici senza considerare i diritti dei cittadini. Se i sospetti dei movimenti ambientalisti sono veri, i fautori della crisi hanno trovato nelle giustificazioni positiviste un'arma fenomenale per mettere a tacere le istanze partecipative dei cittadini in movimento.




4. Post normal science, partecipazione civica: alcune risposte ai rischi ambientali imposti


Oggi il dibattito su come l'attore pubblico debba fronteggiare le situazioni di incertezza si orienta alla ricerca di dispositivi che rendano possibile il dialogo tra esperti e profani, riconosciuto che questi ultimi sono portatori di istanze e modi di conoscenza legittimi (Centemeri, 2006, pp. 85-86). L'esperienza degli abitanti dovrebbe avere un peso nelle decisioni che li riguardano, specie quando si presentano due condizioni che oggi coinvolgono sempre più le comunità locali e i decisori politici:


  1. incertezza scientifica sulle soluzioni da adottare: gli ecosistemi sono una “macchina non banale” (Vallega, 1994), di cui non si possono prevedere completamente le reazioni a determinate azioni che ne modifichino l'equilibrio. Il positivismo si è rivelato non completamente efficace nella gestione degli ecosistemi, ma anche nel controllo dei sistemi tecnologici, la cui complessità è tale da non eliminare mai del tutto né i rischi di incidente, né le esternalità negative non previste, che si presentano spesso a causa dell'azione sinergica di differenti impatti ambientali su un dato territorio;


  1. alte poste in gioco e interessi economici contrastanti (Funtowicz e Ravetz, 2003) che impediscono una valutazione del rischio ambientale condivisa e che tendono, quando il potere economico riesce ad avere la meglio sui diritti (diritti umani, diritto alla salute, ad un ambiente sano ecc.), a distribuire i rischi ambientali sempre sui gruppi più deboli.


Proprio i due autori succitati avevano denunciato i fallimenti dei metodi della scienza “normale”, basata sulla specializzazione delle conoscenze e sul riduzionismo. Pertanto hanno elaborato una nuova proposta epistemologica, quella della scienza “post-normale”: esperti e comunità locali devono collaborare a formare la conoscenza per giungere a decisioni condivise. Le comunità di profani, infatti, vanno considerate come depositarie di un'esperienza del territorio che la scienza “normale” non può possedere, e che va valorizzata per evitare i fallimenti dovuti ai difetti che una visuale unica non può eliminare.


La complessità del problema campano e i forti interessi in gioco avrebbero richiesto dunque un significativo confronto con gli abitanti, mentre, come sottolineano D'Alisa et al. (2010), il processo decisionale adottato dal governo, attraverso deroghe alla legislazione ambientale e con l'inasprimento delle misure repressive contro i manifestanti, ha teso a semplificare una crisi complessa e a nascondere le visuali alternative dei movimenti dal basso.


Agli esperti legati al potere politico ed economico è stato concesso il monopolio della valutazione del rischio e della definizione delle politiche per il territorio, (Armiero, D'Alisa 2011), ma è solo guardando alla crisi campana attraverso gli occhi degli attivisti (Armiero, 2008) che ne emergono i risvolti politici, e in particolare emerge come il conflitto campano rientri a pieno titolo nei conflitti per la giustizia ambientale16 (Armiero, D'Alisa 2011; Maurano 2010, pp. 285 e segg.): i rischi ambientali non sono equamente distribuiti, c'è un forte legame tra lotte per l'ambiente e lotte per la salute, vi è una domanda di giustizia che travalica il principio di compensazione e l'obiettivo finale non è tanto quello di contrastare alcune scelte istituzionali, ma è l'autodeterminazione delle comunità nelle scelte che riguardano il proprio territorio (Armiero 2011).


Da più parti si reputa utile che nei conflitti ambientali siano utilizzati metodi di coinvolgimento e/o di partecipazione della popolazione che precedano o accompagnino le opere o le politiche territoriali contestate, indicandoli come preferibili al già citato metodo DAD o alla politica del “non svegliare il can che dorme” (Faggi, Turco 1999). Studi sui metodi partecipativi ne hanno individuato potenzialità e limiti, pur preferendo comunque l'imperfetta democrazia che deriverebbe da un confronto e da una negoziazione ad azioni e politiche del territorio aprioristicamente non condivise.17 Anche perchè, spesso, è nell'interesse stesso dei promotori di un'opera pubblica di tentare la via della concertazione piuttosto che affrontare un impasse istituzionale e l'allungamento dei tempi decisionali.


Accordi internazionali come Agenda 21 ed europei come la Carta di Aalborg consigliano, o in certi casi (Convenzione di Åhrus - Accesso all'informazione, partecipazione dei cittadini e accesso alla giustizia in materia ambientale) forniscono le norme per una partecipazione informata dei cittadini coinvolti, ma nelle situazioni dove la contestazione è più dura è raro trovare aperture delle istituzioni verso le istanze che giungono dal basso.


Una ipotesi di ricerca sui metodi partecipativi probabilmente deve tener conto di questo aspetto: a quanto pare, i casi in cui il conflitto si fa aspro o insanabile non sono quelli in cui si discute sull'utilità di una singola opera pubblica, o delle garanzie e dell'entità delle compensazioni da garantire agli abitanti che ne subiranno gli effetti negativi, ma sono quelli in cui queste forme di contestazione si uniscono a più significative contestazioni sulle politiche territoriali (come ad esempio mostrano i movimenti italiani No TAV, No Ponte, No Dal Molin, quelli contrari alla privatizzazione dell'acqua e all'utilizzo dell'energia nucleare, e infine quelli per un piano alternativo dei rifiuti in Campania). In questi casi probabilmente non si può ricorrere a metodi partecipativi, poiché l'attore istituzionale non avrebbe interesse a sviluppare un processo decisionale condiviso; piuttosto potrà cercare il consenso di alcuni stakeholder attraverso compensazioni o altre forme di cooptazione.


Come giungere dunque a una soluzione? Quali conclusioni potremmo trarre?


Già Viale sottolineava come la gestione dei rifiuti, all'interno dei vari modelli di democrazia partecipativa (processi di coinvolgimento, consultazione dei cittadini e negoziazione) potrebbe diventare una sorta di laboratorio sperimentale non solo per un approccio a un uso più parsimonioso e razionale delle risorse della terra, ma anche per un nuovo approccio ai problemi della democrazia in un mondo dominato dalla globalizzazione dei processi economici e sociali (Viale, 1999, pp.114-116). Al contrario, laddove la partecipazione è negata al fine di imporre politiche che favoriscono determinati interessi, ai cittadini non resta che la strada della protesta: come asserisce ancora Viale, la crisi di rappresentatività politica ha dislocato la sovranità popolare dal diritto di voto al potere di veto (ivi, p.116): unica forma di azione percorribile da quelle popolazioni locali che ritengono calpestati i propri diritti.


Laddove gli interessi economici paiono rappresentare una forma di sopraffazione dei diritti dei cittadini, come nei lunghi anni del “regime di emergenza” che ha condizionato le politiche per l'ambiente in Campania, molte forme di protesta e varie proposte che provengono dal basso non dovrebbero essere considerate causa dell'impasse e parte del problema, ma potrebbero rappresentare al contrario una parte della soluzione del problema18. Insomma, il conflitto sociale e ambientale in questo caso può essere visto come una possibile soluzione ad un impasse delle istituzioni, che per anni non hanno saputo proporre né soluzioni di lungo termine, né politiche non discriminatorie e ambientalmente accettabili nella regione.19


Infine, potremmo definitivamente affermare che il nimby non è tanto una sindrome, ma può essere un'opportunità di apertura ad atteggiamenti cooperativi con altri “cortili” da difendere, quando ci sia una consapevolezza politica e un'idea di territorio democratico e sostenibile: in tali casi le lotte locali spesso costruiscono reti per la difesa di interessi comuni o anche, con un livello più alto di consapevolezza, per la promozione dei beni comuni, e si trasformano in lotte regionali, nazionali e globali, da nimby a niaby (not in anyone's backyard) fino a nope (not on planet Earth). La sindrome nimby, dunque, non è più quella che descrive ad esempio Bartolommei:


si è d'accordo che la costruzione di un inceneritore, o di una discarica di rifiuti industriali, è vantaggiosa per tutti, ma per il timore dei disagi e dei pericoli connessi si pretende che non sia costruita nel proprio territorio […] Si tende così a difendere il proprio territorio rovesciando su altri i costi del vantaggio comune. [Bartolommei, 2004 p.171]


Non si è più d'accordo, infatti, sull'utilità di alcune opere e soprattutto sull'idea di sviluppo che genera tali realizzazioni e tale sperequazione dei costi ambientali.


La difesa del proprio cortile diventa quindi l'ultima spiaggia, in situazioni estreme come quella campana, ma anche un primo passo per una nuova consapevolezza dei propri diritti e dei diritti di cittadinanza di tutti riguardanti i beni comuni, al di là di valutazioni esclusivamente economiche ed egoistiche.




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Sitografia (consultazione dei siti avvenuta tra gennaio-febbraio 2011)

Coordimanento Regionale Rifiuti, www.rifiuticampania.org

Rete Campana Salute e Ambiente www.rifiutizerocampania.org



N.B. Gran parte delle conoscenze sul conflitto ambientale campano è stata acquisita dalla partecipazione ad associazioni e movimenti di cittadini, iniziata nel 2006 come attivista e poi affiancata dalle attività di ricerca per un dottorato in Geografia dello sviluppo presso l'Università L'Orientale.





Inserito: 10 marzo 2011; revisione: 7 settembre 2011

Scienza e Democrazia/Science and Democracy

www.dmi.unipg.it/mamone/sci-dem




*Dottore di ricerca in Geografia dello Sviluppo, Dip. di Scienze Sociali, Università L'Orientale, Napoli.

1Sebbene una parte di rischi era provocata già allora dall'agire umano, come ad es. mostra il saggio di Bevilaqua quando tratta delle inondazioni e della malaria in Italia, problemi endemici ma provocati anche dal taglio dei boschi in montagna (Bevilacqua, 2010)

2Nell'analisi della società contemporanea si parla di una nuova divisione sociale che tende a sostituire quella classica di stampo marxista tra detentori dei mezzi di produzione e forza lavoro. Oggi, infatti, diviene man mano più rilevante il problema dell'equa distribuzione dei rischi, mutazione del classico problema dell'equa distribuzione delle risorse, nel processo di generale spoliticizzazione derivante dal primato della specializzazione tecnica. In tale quadro si distinguono dunque gli stakeholder, semplici portatori di interessi, dagli shareholder, quelli che in virtù del loro potere economico, riescono a imporre «decisioni rilevanti sulla composizione di un mondo comune, attraverso la creazione e la distribuzione di valore» (Ungaro 2004, p.61). I primi lottano per le poste in palio, e sono soggetti ai rischi imposti da decisioni prese dai secondi (si veda ancora Ungaro 2004, pp.60-65).

3Acronimo di “Not In My Backyard”, "non nel mio cortile", usato per indicare comportamenti egoistici - definiti appunto "sindrome nimby" - di rifiuto della localizzazione di opere o impianti nel proprio territorio che dovrebbero avere effetti vantaggiosi per tutti (almeno secondo il calcolo costi/benefici attuato dai decisori).

4Ci si riferisce alla norma CIP6 del Comitato Interministeriale Prezzi, ben conosciuta e citata più volte nei documenti degli attivisti campani. Tale finanziamento si ricava da una quota del 7% aggiunta alle bollette dell'energia elettrica e destinata appunto alle fonti rinnovabili di energia, cui furono equiparate quelle "assimilate".

5Si veda sull'argomento: Fava 2010; Caporale 2010.

6Il sistema integrato prevede l'uso di vari mezzi tecnici per gestire i rifiuti: dal riciclaggio all'incenerimento alla discarica: in base a un calcolo costi/beneici, solitamente economico, si decide in quale percentuale essi vanno utilizzati. Contro questo sistema, usato nella gran parte dei Paesi a economia avanzata, si sono schierate in parte le norme europee, che indicano una gerarchia delle soluzioni più sostenibili da rispettare (si veda Davies, 2008), e con forza una buona parte dei movimenti campani sui rifiuti, che reclamano soluzioni quali il "riciclo totale della materia" e la "combustione zero" (Co.Re.ri)

7Questo approccio, prima di essere criticato ampiamente alla fine del '900, ha generato metodologie di protezione dell'ambiente di mera riparazione o limitazione delle emissioni, dette dell'end of pipe, o del business-as-usual plus a treatment plan (Segre, Dansero, p. 97)

8Evoluzione della società dei produttori, votata al consumismo (Baumann, 2007).

9Che comprenda cioè un confronto tra parti coinvolte e informate, magari attraverso un processo partecipativo di scelta.

10Mi riferisco a quello della Giunta Caldoro dei primi mesi del 2011, periodo della prima stesura di questo articolo. Resta da verificare come procederà la Regione, soprattutto dopo che la nuova Giunta De Magistris del Comune di Napoli ha espresso pareri discordanti al piano regionale.

11Prendo in prestito quest'ultima definizione da Marco Armiero.

12Seppur con parecchie incongruenze tecniche sottolineate ad esempio da Rabitti (2008).

13Era sviluppato in base a un modello di smaltimento già adottato da altre regioni, basato sulla separazione in impianti atti a produrre combustibile da rifiuti (CDR) da usare negli impianti di incenerimento e FOS (frazione organica stabilizzata), teoricamente utilizzabile per ricomposizioni ambientali come terra di riempimento. Si scoprirà poi che il progetto di FIBE era incongruente e irrealizzabile: erano errati i calcoli sugli output degli impianti, e addirittura non erano previste discariche speciali per le ceneri dell'inceneritore (si veda ancora Rabitti per i dettagli tecnici).

14Anche l'ex assessore all'ambiente della Regione, Walter Ganapini, subentrato nell'ultima fase del governo Bassolino, in alcune interviste ha avanzato inquietanti sospetti sulla gestione dell'emergenza rifiuti, mettendo in rilievo come i fallimenti non sono stati causati da una carenza di impianti, ma dal loro inutilizzo dovuto a cattiva politica e interessi loschi (si veda l'intervista di Matteo Incerti realizzata nel 2008 e reperibile all'indirizzo web http://www.youtube.com/watch?v=syJzVR9uzzU). Le sue parole, in altri contesti, avrebbero probabilmente provocato "terremoti" politici e giudiziari, mentre in Campania sono passate quasi sottotraccia.

15Si potrebbe qui richiamare l'ipotesi secondo cui l'approccio positivista della crescita economica necessita di sacche di illegalità per continuare a funzionare: basti pensare ai diritti negati nelle aree del mondo economicamente più deboli. Non è questa la sede per una tale analisi, ma è interessante a tal proposito il dibattito internazionale su quanto questa disparità di diritti sia non tanto un'eccezione, quanto una parte integrante dei meccanismi di funzionamento dell'attuale sistema economico mondiale.

16«La giustizia ambientale definisce principalmente l'equa ripartizione dei costi ambientali della crescita economica tra gruppi sociali e/o tra aree geografiche». La definizione deriva dall'esperienza dell'Environmental Justice Movement, nato nei primi anni '80 negli Stati Uniti (Barca 2011).

17Si veda a tal proposito Bobbio, Zeppetella 1999.

18Cito ancora considerazioni di Marco Armiero e degli stessi comitati campani.

19Cito qui alcune considerazioni emerse nel Quarto dialogo del Settimo Simposio estivo di storia della conflittualità sociale Primavere rumorose. Le lotte per la giustizia ambientale nell'Italia contemporanea (Magione, Pg, 7-10 luglio 2011), dialogando in particolare con Stefania Barca, Marino Ruzzenenti e Marco Armiero.

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