Fabrizio Fabbri*

La ricerca partecipata come strumento di prevenzione dei conflitti sociali: il caso delle biotecnologie in agricoltura



Qual è il rapporto che scienza e scienziati devono intrattenere con la società nel suo complesso? A chi devono rispondere i tecnici delle varie materie? Solo ai loro pari nel processo di selezione delle pubblicazioni scientifiche o anche all’uomo della strada che è anche consumatore e ultimo fruitore degli avanzamenti scientifici e tecnologici?


Di questi temi si dibatte da tempo e con sempre maggiore insistenza dopo che, passato un periodo in cui i “tecnici” venivano percepiti come unici detentori di un sapere insindacabile, si iniziano a vedere i limiti del trasferimento dall’alto verso il basso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche.


I fattori che impongono un diverso atteggiamento verso la ricerca scientifica e le sue applicazioni pratiche sono molteplici.


Da una parte si registra un aumento della complessità degli ambiti entro cui si muove la ricerca che oggi tocca settori, come la genetica o le nanotecnologie, che, oltre a prospettare enormi potenzialità, si prestano a considerazioni di carattere etico e morale oltre che a quelle di natura squisitamente tecnica-scientifica.


Per contro, all’aumento della complessità degli argomenti si registra una sostanziale maggior capacità di comprensione se non dei dettagli quantomeno dei contorni generali del dibattito da parte dei non esperti. Ciò li pone in una condizione di maggior capacità e possibilità di porsi e porre dei quesiti di merito che non possono e non devono essere ignorati.


A tutto ciò si deve aggiungere l’elemento di sfiducia che si è progressivamente insinuato nella pubblica opinione come risultato della connivenza di parte del mondo scientifico con interessi di carattere commerciale a discapito di quelli generali della collettività.


Basti ad esempio pensare al ruolo che hanno giocato molti ricercatori e scienziati nel contribuire a nascondere gli effetti letali di prodotti quali il DDT, i PCB, l’esaclorobenzene o l’amianto, solo per grattare la superficie. Per lunghi decenni una lunga lista di ricercatori ha confutato l’esistenza di un legame di causa-effetto tra il fumo e l’insorgenza di tumori ed altre patologie salvo poi scoprire l’inganno di fronte alle testimonianze di chi sapeva ed aveva nascosto.


Questi casi, purtroppo non sporadici, hanno generato una progressiva riduzione della fiducia verso gli scienziati a cui non viene più riconosciuta un’onestà intellettuale “d’ufficio” come accadeva in passato e le loro posizioni vengono lette anche rispetto ai possibili interessi di parte a cui possono essere funzionali.


A determinare questo clima hanno certamente contribuito anche le autorità pubbliche che hanno fallito nel loro ruolo di sentinelle degli interessi pubblici. Anzi. Molto spesso sono state, e sono tuttora, proprio le autorità pubbliche a confezionare la copertura del mondo scientifico ed accademico allo scopo di ridurre l’opposizione della società civile.


Questo senso di sfiducia del pubblico nei riguardi delle autorità di controllo e degli esperti che ne sostengono i piani di sviluppo diventa particolarmente evidente nei casi in cui le attività hanno un evidente impatto territoriale.


La diffusione a livello globale delle opposizioni locali ha portato gli analisti ad ipotizzare l’esistenza di dinamiche inevitabili dovute ad un riflesso condizionato che è stato nominato “sindrome di NIMBY” (acronimo di Not In My Back Yard, ovvero non nel mio cortile).


Il concetto alla base del NIMBY è che l’opposizione sociale sia molto spesso motivata da interessi particolari, per l’appunto la salvaguardia del proprio cortile, cui si aggiunge la mancanza di conoscenze tecniche sufficienti ad avere una visione oggettiva dei problemi in gioco e soprattutto dei benefici sociali che si cerca di perseguire .


Le organizzazioni della società civile (OSC) hanno anche sviluppato campagne che partono da considerazioni più generiche che il semplice impatto territoriale. Basti pensare ad esempio all’opposizione all’uso di energia nucleare o quello di organismi transgenici (OGM) in campo agroalimentare.


In questi casi le azioni sono mosse da timori che si riferiscono a rischi misurati su una scala più ampia e trovano quindi il sostegno di un pubblico più vasto ed articolato.


Ovviamente a queste motivazioni di carattere generale si possono innescare considerazioni che hanno comunque un riscontro a livello locale. Chi abita nei pressi delle centrali nucleari, ad esempio, aggiunge alle argomentazioni generali motivi riconducibili all’impatto locale determinato dal rilascio di inquinanti radioattivi. Allo stesso modo gli agricoltori che confinano con aziende dove si coltivano OGM possono addurre i rischi di contaminazione dei propri raccolti agli argomenti di opposizione sulla tecnica del DNA ricombinante.


La volontà di intervenire in maniera più decisa per definire gli assetti territoriali da parte delle collettività è probabilmente all’origine dell’estensione dell’opposizione di una parte della società civile anche contro istallazioni per altri aspetti invocate e volute per far fronte a problemi di ordine superiore.


Come noto, una delle risposte più efficaci per affrontare il cambiamento climatico riguarda la sostituzione dei combustibili fossili con fonti energetiche rinnovabili tra cui il vento ed il sole. Nonostante l’esigenza di invertire l’andamento delle emissioni di gas climalteranti sia generalmente riconosciuta, oltre che obbligatoria per gli stati membri dell’UE, alcune associazioni stanno promuovendo azioni di opposizione locale alla realizzazione di parchi eolici, di istallazioni fotovoltaiche o di solare termico. rivendicando, ad esempio, la necessità di preservare il patrimonio paesaggistico.


Si può pertanto affermare non solo che il fenomeno, se non sindrome, del NIMBY esiste ma che si stia ulteriormente espandendo verso settori precedentemente indenni da opposizione.


Con l’espansione dell’uso dell’informatica e del web, inoltre, i comitati locali hanno dato vita a coordinamenti attraverso cui scambiano esperienze e conoscenze e promuovono iniziative congiunte finalizzate ad aumentare l’impatto mediatico e l’influenza politica potendo dimostrare la condivisione del problema al di là delle necessità territoriali.


Questa nuova organizzazione ha portato le stesse OSC a rinominare il fenomeno NIABY (Not in Anybody’s Back Yard), ovvero nel cortile di nessuno, ad indicare la determinazione dei movimenti a respingere l’ipotesi che a muovere le loro azioni siano meri interessi di campanile.


Lo sviluppo della rete, d’altro canto, offre la possibilità di accedere ad un’ampia gamma di informazioni tecnico scientifiche che consentono anche ai non esperti di acquisire informazioni di merito da contrapporre alle tesi delle controparti.


Questo processo si innesca, peraltro, sull’evoluzione normativa che ha progressivamente riconosciuto il diritto e la titolarità delle OSC di prendere parte attiva nella valutazione di progetti che abbiano un potenziale impatto ambientale e sociale.


La direttiva sulla valutazione di impatto ambientale, ad esempio, assoggetta il rilascio di permessi per la realizzazione di una serie di opere ingegneristiche ad una valutazione che deve essere messa a diposizione del pubblico per verifiche ed eventuali osservazioni.


In un altro ambito, quale quello del rilascio in ambiente di OGM, la direttiva (2001/18) prevede la possibilità che i singoli cittadini o le organizzazioni possano inviare i propri commenti sulle richieste di autorizzazione di nuovi eventi transgenici commentando le valutazioni scientifiche effettuate dagli organismi preposti quali l’Agenzia per la Sicurezza Alimentare (EFSA) di Parma.


Queste procedure di partecipazione mancano però dei processi di verifica di se e come le osservazioni che provengono dal mondo della società civile vengano prese in considerazione negli atti finali.


La mancanza di trasparenza ed accountability di queste forme di processo di consultazione fa sì che non possano funzionare appieno quali strumenti di prevenzione dei conflitti le cui dinamiche rimangono quindi inalterate.


Il processo di consultazione sugli OGM

Sul rilascio deliberato in ambiente di OGM l’Unione Europea si è dotata di strumenti normativi tra i più completi, e complessi, al mondo ed è innegabile che ciò sia in gran parte dovuto alla necessità di rispondere alla pubblica opinione che da sempre si è dimostrata restia a ricorrere a questi prodotti.


Nonostante ciò, però, si ha la sensazione che le istanze perorate dalla società civile o di parte del mondo scientifico ed accademico non siano debitamente tenute in conto.


Per valutare i risultati di tali attività, prendiamo ad esempio uno dei più recenti resoconti di attività di consultazione promosse dall’EFSA relativo alla valutazione scientifica sul potenziale allergologico di OGM in campo alimentare

(http://www.efsa.europa.eu/it/efsajournal/doc/1699.pdf).


Dall’esame dei risultati appare evidente la sussistenza di alcuni punti assai critici per ciò che riguarda il livello di partecipazione delle OSC.


Una prima criticità riguarda il fatto che i commenti devono inserirsi entro un percorso metodologico predeterminato e non consentono di intervenire a monte per indirizzarlo. Viene data per scontata, ad esempio, la necessità di una valutazione caso per caso fondata sulla base della solidità delle evidenze scientifiche. Questo approccio non è del tutto coerente con il principio precauzionale che pure entra nella base giuridica comunitaria e che prevede la possibilità di intervenire anche in assenza di una certezza definitiva del rischio ma quando sussista un ragionevole dubbio.


Un altro limite è rappresentato dalla difficoltà di sintetizzare interventi che vengono inviati indipendentemente gli uni dagli altri con linguaggi differenti e diversi livelli di approfondimento.


Un terzo limite riguarda il livello di specificità richiesto, elemento che aumenta la criticità del primo fattore. Nonostante infatti, il processo di consultazione si presenti come un esercizio democratico da cui non é escluso a priori alcun soggetto, di fatto hanno più possibilità di essere presi in considerazione i commenti che limano alcuni dettagli estremamente specifici. Ciò favorisce de facto gli specialisti e paradossalmente le stesse entità che hanno interessi particolari quali le industrie di settore o i gruppi che le rappresentano.


In ultimo, non si può ignorare il fatto che manchi un riferimento preciso a quali modifiche sia infine state adottate e sulla base di quali osservazioni, elemento che potrebbe essere dedotto solo da una rilettura del testo originale contestualmente a tutti i commenti ricevuti.


Un progetto europeo guidato dalla Fondazione Diritti Genetici avente come partner 4 istituzioni scientifiche e 4 organizzazioni non governative riguardante gli aspetti partecipativi nella ricerca scientifica nel settore agroalimentare (PSx2) ha messo in evidenza che limitare il ruolo delle OSC all’intervento a valle dei processi decisionali non favorisce il dialogo tra scienza e società.

Ha inoltre evidenziato che, nella maggior parte dei casi, le OSC non sono affatto pregiudizialmente contrarie alla scienza o all’avanzamento tecnologico ma piuttosto sono critiche rispetto alle modalità seguite.



Ciò che in sostanza si ritiene necessario è discutere con la società nelle sue espressioni più estese quale tipo di scienza si ritiene utile, quali applicazioni tecnologiche che ne possono derivare possono servire meglio a rispondere ai reali bisogni, quali investimenti è più opportuno prevedere per i fondi pubblici destinati alla ricerca e come viene ridistribuito il beneficio che da ciò può derivare.


L’evoluzione dello sviluppo e dell’immissione sul mercato degli OGM è avvenuta con una modalità diametralmente opposta a questo schema e poco importa se a guidare la ricerca siano stati investimenti privati. Al contrario. Questo aspetto rappresenta un’aggravante dal momento che né la comunità scientifica né tantomeno gli enti preposti al rilascio delle autorizzazioni sono intervenute su almeno due storture scientifiche e procedurali che hanno accompagnato l’avvio del processo.


La prima anomalia riguarda l’aver accettato l’ipotesi che l’aggiunta di uno o pochi geni esogeni attraverso la tecnica del DNA ricombinante non comportasse differenze significative tra il nuovo organismo e quello originario.


Ciò ha consentito agli OGM di poter godere di procedure semplificate di valutazione di impatto sanitario. Questa visione meccanicistica del genoma è del tutto priva di alcun fondamento scientifico ma, nonostante ciò, non ha causato la reazione del mondo accademico che l’ha accettata rinnegando in tal modo le cognizioni di fondo dell’intima interrelazione tra i geni e dei principi che sono alla base della genetica formale.


Tanto più sarebbe stato necessario l’intervento del mondo scientifico non schierato per evitare l’applicazione del principio di sostanziale equivalenza dal momento che il luogo di inserzione del transgene non è nemmeno prevedibile in anticipo ma si può solo identificare successivamente.


La seconda stortura che ha accompagnato l’avvento degli OGM riguarda la forzatura del concetto di invenzione umana per la concessione di brevetti industriali.


Se da una parte i controlli sugli effetti degli organismi transgenici sono stati per gran parte elusi dal concetto di sostanziale equivalenza, al contempo è stato chiesto ed ottenuto che gli OGM fossero trattati come invenzioni umane e come tali essere coperte da brevetti industriali. Con artifici dialettici, è stato dato il via alla corsa alla brevettazione di singoli geni di ogni specie vivente che si fossero isolati dal restante DNA e replicati al suo esterno.


Si è in sostanza consentito di privatizzare le informazioni del codice genetico degli organismi viventi incentivando quella che viene conosciuta come “pirateria genetica”, una pratica che porta all’accaparramento per scopi di lucro del prodotto della selezione genetica operata nel corso di milioni di anni dalla semplice pressione naturale.


Il combinato disposto di queste forzature concettuali, unitamente all’assordante silenzio, quando non vera e propria complicità, del mondo scientifico e all’appoggio quasi incondizionato delle istituzioni a livello internazionale, non potevano che provocare una reazione di timore e scetticismo da parte della pubblica opinione.


Uno scetticismo che non può che essere rafforzato dalle azioni di pressione politica che sono state messe in atto dalle aziende che operano nel business degli OGM e che hanno spesso portato al manifestarsi di imbarazzanti ed inaccettabili episodi di palese conflitto di interessi, come quelli che hanno interessato recentemente il Presidente ed alcuni membri del comitato scientifico dell’EFSA incaricato della valutazione degli OGM.


In queste condizioni diventa difficile poter rassicurare sull’assenza di rischi solo perché l’autorità di riferimento così sostiene soprattutto quando la sua opinione non coincide con quella di autorevoli istituti di ricerca.


Emblematico il recente della patata Amflora contenente i geni di resistenza a due antibiotici, la neomicina e la kanamicina. L’EFSA, in prima battuta, ha classificato i due prodotti come poco importanti per la profilassi umana ed animale e, coerentemente con la normativa, ha rilasciato il proprio parere favorevole all’immissione in commercio della patata transgenica. Successivamente sia l’OMS che l’Agenzia Europea del Farmaco hanno contraddetto l’EFSA classificando i due antibiotici come rilevanti per la medicina umana e veterinaria. Nonostante l’EFSA sia stata costretta a rivedere la sua classificazione non ha ritenuto necessario ritirare l’autorizzazione in ottemperanza della Direttiva 2001/18 che vieta, a partire dal 2004, la commercializzazione di OGM in grado di conferire resistenza ad antibiotici rilevanti per la profilassi umana e/o animale.


Di fronte a questo scenario é evidente che liquidare l’opposizione agli OGM in campo agroalimentare come semplice risultato di campagne di terrorismo psicologico appare quantomeno riduttivo.


Né si può ragionevolmente pensare che il problema sia risolvibile aumentando l’alfabetizzazione del pubblico sulla genetica anche perché si porrebbe il problema di quali informazioni far passare, dilemma complicato ulteriormente dall’influenza che molte delle multinazionali del settore hanno nel condizionare le finanze di importanti università e centri di ricerca.


Questo dato non è un semplice rischio ma una realtà per molti ricercatori che si sono visti decurtare fondi, hanno perso il posto di lavoro o si sono trovati al centro di furibonde campagne denigratorie solo per aver pubblicato dati non conformi alle aspettative di chi produce OGM.


Pensare che la semplice pubblicazione di ricerche assoggettate ad una valutazione tra pari su prestigiose riviste internazionali sia di per sé una garanzia di indipendenza o autorevolezza significherebbe volersi fermare ad una visione romantica del mondo della ricerca e della scienza che purtroppo non è compatibile con un mondo produttivista dove tutto, o la maggior parte, si regge su sponsor e pubblicità.


Considerando l’importanza della ricerca anche in campo agrobiotecnologico per far fronte alle sfide che la società nel suo complesso si appresta ad affrontare, è quindi auspicabile ricalibrare il rapporto con la società nel suo complesso.


Se, come sembra dai risultati, il processo di coinvolgimento delle OSC nei programmi di consultazione a valle su singoli aspetti specifici degli OGM non rappresenta un vero atto di democrazia, né è probabilmente utile visto l’elevato livello di specializzazione richiesto, un coinvolgimento nelle prime fasi di ideazione delle linee di ricerca potrebbe portare a risultati molto più soddisfacenti per tutti.


A titolo di esempio basti pensare ad una delle richieste storiche del movimento critico sull’uso di OGM in agricoltura che proponeva, in subordine ad un divieto europeo, di consentire ai singoli Stati Membri di vietare la coltivazione degli OGM autorizzati sulla base di considerazioni socio economiche (i.e. tipicità produttive, continuità territoriale, particolarità geografiche etc.) oltre che per dimostrati rischi ambientali e sanitari come prevede la normativa vigente.


Per oltre due decenni ciò è stato negato creando una situazione di stallo all’interno del Consiglio Europeo e lasciando alla sola Commissione l’onere di decidere autonomamente le autorizzazioni di nuovi eventi transgenici. Per sanare questa situazione ora è la stessa Commissione che vorrebbe includere i criteri socio-economici tra quelli che possono essere addotti dagli Stati membri per vietare la coltivazione di eventi transgenici.


Paradossalmente, se si fossero seguite le indicazioni delle organizzazioni contrarie all’uso degli OGM, le autorità europee avrebbero potuto autorizzare molti più eventi di quanto non sia accaduto come conseguenza della moratoria di fatto che si protrae dal 1998.


Ma andando ancora più a ritroso, dovremmo immaginare un pieno coinvolgimento delle OSC nell’individuazione delle linee di ricerca ed il loro coinvolgimento nell’interpretazione dei dati, condizioni minime per poter parlare di democratizzazione della ricerca.


In un recente dibattito pubblico che ha visto la Fondazione Diritti Genetici interloquire con diverse entità scientifiche e singoli ricercatori del settore, oltre che storici della scienza, è emerso chiaramente che, almeno in Italia, il pensiero dominante è che le OSC non possono partecipare a processi decisionali per carenza di un’adeguata conoscenza tecnica delle biotecnologie.


Inoltre, molti hanno obiettato l’assenza di partecipazione portando ad esempio programmi di ricerca quali Plants for a Future  e Food for Life, due piattaforme europee dove la partecipazione riguarda il lavoro congiunto di istituti di ricerca e industrie del settore agroalimentare, tra cui Nestlé, Pioneer Hi-Bred, Bayer, o di loro raggruppamenti di categoria come Federalimentari, Assalzoo o Assobiotec.


La lettura che ne consegue è che le istituzioni scientifiche maggiormente coinvolte nella ricerca agroalimentare giudicano inutile il coinvolgimento delle OSC mentre assegnano un valore centrale alla collaborazione con i soggetti commerciali.



Non sorprende quindi che l’impostazione della ricerca segua linee che favoriscono gli aspetti economici e commerciali delle produzioni agricole piuttosto che rispondere alle domande della società nel suo complesso.


Ciò non riguarda, evidentemente, solo la ricerca sulla transgenesi ma più in generale interessa le linee di ricerca e di produzione varietale anche attraverso metodi tradizionali.


Basti pensare ad esempio, alla selezione di pomodori che sono meno soggetti alla marcescenza e che quindi durano più a lungo sugli scaffali. È assai probabile che la selezione di questo aspetto sia alla base della perdita delle caratteristiche organolettiche.


I pomodori che si trovano sui banchi rispondono quindi meglio ad esigenze commerciali ma ignorano del tutto quelle dei consumatori che tornerebbero volentieri a consumare pomodori meno longevi ma più saporiti.


Il coinvolgimento delle associazioni dei consumatori potrebbe quindi favorire l’individuazione di quelle ricerche che portano alla produzione di beni più rispondenti alle loro esigenze e, di conseguenza, con maggiori potenzialità di mercato.


Consideriamo ora una delle sfide più importanti che sono all’orizzonte: l’adattamento ai cambiamenti climatici.


La partecipazione attiva dei rappresentanti delle associazioni di agricoltori può contribuire ad individuare le criticità da affrontare e la priorità di intervento rendendo più accettabili, e di conseguenza più remunerative, le soluzioni che ne scaturiscono.


Infine rimane da gestire la relazione delle nuove tecnologie nel più ampio contesto ambientale che prevede l’inclusione di variabili quali l’agrobiodiversità, la conservazione delle risorse, l’impatto sulla microfauna e la microflora del suolo.


L’inclusione delle associazioni ambientaliste può contribuire a guardare a questi aspetti con maggior attenzione anche individuando le tecnologie che presentano meno criticità.


È del tutto verosimile, quindi, pensare che se si fosse proceduto ad attuare un processo partecipativo nell’applicazione delle agrobiotecnologie che avesse realmente tenuto conto dell’input propositivo dei diversi soggetti portatori di interessi collettivi si sarebbe giunti a scegliere tecniche di selezione e/o prodotti finali del tutto diversi da quelli con sui ci si trova a confrontare oggi.


È altrettanto verosimile pensare che anche i benefici economici sarebbero stati ripartiti in maniera diversa e che non si sarebbe giunti alla privatizzazione del DNA con tutte le controversie che ne sono seguite, quali ad esempio il divieto di riutilizzo de=i parte del raccolto per la semina successiva.


È interessante notare come uno dei primi progetti di ricerca partecipata sugli OGM, se non il primo, appena avviato dall’Università di Parigi Sud e l’Associazione per i Diritti ed il Rispetto delle Generazioni Future con un finanziamento dell’amministrazione regionale dell’Ile-de-France nell’ambito del PICRI (Partenariats Istitutions-Citoyens pour la Recherche e l'Innovation) ha per tema la verifica dell’applicabilità del principio di sostanziale equivalenza.


Il progetto si prefigge quindi di rivalutare il “peccato originario” degli OGM, rimettendone in discussione la legittimità complessiva. In pratica si ribadisce la necessità di ricominciare da capo.


CONCLUSIONI

Qui di seguito vengono riproposte le raccomandazioni e le conclusioni scaturite dal progetto PSx2 sulla partecipazione pubblica nei progetti di ricerca sulle agro biotecnologie che rappresentano importanti spunti di riflessione:


La UE così come le istituzioni politiche e di ricerca dovrebbero offrire alle CSO opportunità e forum reali per esprimere le proprie opinioni e influenzare il processo in una discussione aperta.


Le opportunità di partecipazione dovrebbero esistere fin dall’inizio del processo, quando i progetti di ricerca vengono autorizzati o finanziati.


Il focus del dibattito andrebbe ampliato in modo da includere anche le implicazioni politiche e sociali, e non solo argomenti tecnici, economici e relativi alla sicurezza.


La trasparenza nella politica della scienza andrebbe promossa. Il pubblico dovrebbe essere informato in merito agli obiettivi ultimi della ricerca finanziata con fondi pubblici, agli interessi in gioco e ai rischi connessi.


Sarebbe necessario attuare un approccio precauzionale che tenga conto sia delle lacune di conoscenza che delle incertezze sugli effetti a lungo termine e che valuti attraverso meccanismi trasparenti e multidisciplinari.


Sarebbe necessario garantire il dibattito pubblico e che le relative conclusioni siano prese in considerazione.


Andrebbe favorito il processo di innovazione per garantire che tutti, e in particolare significativi stakeholders come gli agricoltori (che lavorano a tempo pieno nelle proprie aziende), abbiano abbastanza tempo e possibilità di esaminare le implicazioni di nuovi prodotti ed esprimere le proprie opinioni su questioni importanti.


La contro-perizia dovrebbe essere considerata il modo migliore per svelare se esperti nominati dal governo possono essere orientati verso gli interessi dell’industria. Tuttavia non vi può essere attività di contro-perizia senza finanziamenti. Il finanziamento delle attività di contro-perizia è considerato come un modo per acquisire una migliore oggettività sui problemi connessi a obiettivi di ricerca e applicazioni tecniche.


Le questioni generali, come l’adozione di tecnologie molto innovative, dovrebbero essere sottoposte a pratiche di democrazia diretta, come un referendum.

Inoltre, in generale, sarebbe necessario.


Promuovere la ricerca più adatta alle esigenze degli agricoltori locali, come l’agricoltura biologica intesa come forma di sviluppo agricolo alternativa, sostenibile ed economicamente fattibile.


Promuovere la cooperazione tra le OSC e le istituzioni scientifiche nei progetti di ricerca, come ad esempio PICRI (Partenariat Institutions Citoyens pour la Recherche et l’Innovation).


Diffondere informazioni e migliorare l’istruzione scientifica a tutti i livelli, organizzando conferenze e creando spazi adeguati per il dialogo con la società civile.


La partecipazione alle fasi di regolamentazione della scienza e del processo di innovazione può avvenire solo se la società civile è stata coinvolta fin dalla fase di apertura e d’impostazione dell’agenda.


Non è legittimamente possibile aspettarsi che le CSO e la società più in generale partecipino alla fase di regolamentazione se non sono state consultate o coinvolte nelle fasi iniziali, semplicemente perché i prodotti del processo di innovazione che devono essere regolamentati vengono percepiti come totalmente estranei e pericolosi.


Al contrario, se questi prodotti derivano da uno sforzo congiunto e da un percorso condiviso,tutti gli attori coinvolti saranno ‘responsabili’ dei risultati che possono legittimamente percepire come ‘appartenenti’ a sé stessi.


Inoltre, anche se questo coinvolgimento più ampio rallenterebbe inevitabilmente il processo di innovazione, può far emergere problemi prima che enormi investimenti siano realizzati e portar anche ad una innovazione più creativa grazie alla più vasta gamma di esperienze utilizzata.


Una più forte condivisione degli obiettivi della scienza e dell’innovazione faciliterebbe l’assunzione delle responsabilità e aiuterebbe a costruire la fiducia reciproca tra coloro che si troverebbero a collaborare per realizzare e usare i prodotti innovativi in modo più sostenibile.


Nonostante queste considerazioni riguardino un esercizio relativo agli OGM, è assai probabile che gli stessi principi possano riproporsi in maniera analoga alle nanotecnologie, un settore interessato da un impulso ed una crescita anche maggiori delle agro biotecnologie vista anche la consistente maggiore ampiezza dei possibili campi applicativi.




Inserito: 11 aprile 2011

Scienza e Democrazia/Science and Democracy

www.dmi.unipg.it/mamone/sci-dem



* Direttore Scientifico Fondazione Diritti Genetici.