Marino Ruzzenenti
“Crisi
ecologica” e “crisi sociale”: due facce della stessa
medaglia*
La “crisi ecologica” sta assumendo sempre più il carattere di una
definitiva resa dei conti della civiltà “termoindustriale”,
un brevissimo ma portentoso “grande esperimento” che l’umanità ha condotto negli ultimi
due secoli. Brevissimo, anche se, commisurato all’esistenza individuale,
apparentemente lungo: in realtà un “attimo” se pensiamo alla storia
della presenza umana sul Pianeta, o alla pur poca durata dell’insediamento
dell’attuale homo sapiens sapiens (40.000
anni): pari dunque a una minima frazione, solo uno 0,5%.
In questo “attimo” l’umanità ha saputo approfittare di un’enorme, ma non
infinita, quantità di energia che il Pianeta aveva
accumulato in milioni di anni, i combustibili fossili. Ciò le ha permesso di
impiantare apparati industriali il cui funzionamento richiede energia in grande quantità, a flusso costante e concentrata. Con questi
apparati ha cambiato il volto del Pianeta, ha costruito una tecnosfera
che si è sovrapposta alla biosfera. La realtà artificiale così prodotta ha reso
la vita umana straordinariamente più comoda, mentre l’impiego di parte
dell’energia fossile per la produzione di concimi chimici ha forzato la naturale
produttività della terra permettendo di sfamare sempre più persone. Da tempo
sappiamo che tutto questo ha avuto e sta avendo un costo: le emissioni
tossiche, gli scarti e i rifiuti hanno devastato estese aree del Pianeta, in
certi casi hanno rotto equilibri delicati come la temperatura media globale e gli andamenti climatici o come il pauroso
impoverimento e semplificazione
degli ecosistemi, (l’ultimo caso, l’ecocidio delle api), con effetti autolesionistici per l’uomo sempre più evidenti. Tuttavia i potenti e
interessati artefici del “grande esperimento” ci hanno spiegato che questi
costi vanno accettati, come uno scotto necessario da pagare al progresso delle
condizioni di vita e allo sviluppo della nostra civiltà.
Ma questo è solo un corno del problema: l’altro è rappresentato dal rapido
esaurirsi di risorse non rinnovabili impiegate per quel “grande esperimento”.
Se da una parte accumuliamo sul Pianeta scarti tossici spesso non
biodegradabili (gli scienziati li chiamano xenobiotici,
estranei alla vita, dunque non riassorbibili nei cicli biologici), dall’altra il buco
delle risorse fossili dissennatamente prelevate sta diventando una voragine in
cui rischia di precipitare fragorosamente tutto l’apparato termoindustriale
creato negli ultimi due secoli. E se poniamo attenzione
ai segnali che ci provengono da diverse parti del mondo è questo il corno del
problema che più ci deve preoccupare. In questo caso non si tratta di soppesare
semplicemente vantaggi e svantaggi del “progresso” e dello “sviluppo”, ma di
considerare la possibile fine dello sviluppo e della civiltà attuale, e con essa di gran parte dell’umanità se non di tutta l’umanità
(non necessariamente della vita: la biosfera può tranquillamente continuare il
suo percorso nonostante l’estinzione della razza umana, come lo ha fatto con
l’estinzione di migliaia di specie).
* * *
Dunque dovremmo rapidamente cambiare rotta, costruire una nuova civiltà che
sappia reggersi senza i combustibili fossili. Un cambiamento radicale che fa tremare le vene e i polsi. Del
resto, proseguire sulla vecchia strada, quella termoindustriale,
sappiamo dove ci porterebbe, prima o poi: nel baratro.
Avremo la saggezza sufficiente per costruire in tempo il necessario nuovo
futuro?
La storia dell’homo sapiens sapiens
non è sempre rassicurante, a questo proposito. Anzi.
Gli archeologi ci raccontano come grandi civiltà in passato si siano
tagliate l’erba sotto i piedi, abbiano consapevolmente e irrimediabilmente
eroso le condizioni materiali, naturali ed ecologiche per la loro sopravvivenza
e continuità, in certi casi fino alla completa autoestinzione:
l’isola di Pasqua è l’esempio più clamoroso, ma anche la civiltà sumerica, che ci ha regalato tra l’altro la prima lingua
scritta da cui tutti abbiamo imparato, e ancora i Maya, fino al caso più eclatante
dell’Impero romano.
E, attenzione, non si trattava di uomini meno
intelligenti e meno consapevoli di noi, tutt’altro. Le loro creazioni
culturali e le loro invenzioni tecniche ancora oggi ci stupiscono.
E se qualcuno, oggi, fosse tentato da una qualche supponenza, basti
considerare nel breve periodo che cosa è stato capace di compiere il
civilissimo uomo europeo nella prima metà del secolo scorso: di fronte alla
crisi sociale, politica e culturale di inizi
Novecento ha scatenato un immane conflitto autodistruttivo
(prima e seconda guerra mondiale) che ha travolto e messo ai margini la stessa
Europa (12 milioni di morti nel primo round e 50 milioni nel secondo, fino agli
orrori indicibili della Shoah e di Hiroshima).
* * *
Che il “grande esperimento” abbia gli anni
(decenni?) contati ce lo segnalano in molti. Gli scienziati autori del Living Planet Report
2006 hanno evidenziato l’impatto dei consumi umani sull’ambiente,
attraverso l’indicatore dell’impronta ecologica. Ebbene nel 2003
l’impronta ecologica, cioè lo spazio necessario per
soddisfare i nostri consumi e per ricevere i nostri rifiuti, era di 2,2 ettari
a persona (mediamente, perché nel Nord
sviluppato sono oltre 5 gli ettari), mentre la biocapacità,
cioè l’offerta del Pianeta in termine di risorse rinnovabili e di degradazione
degli scarti, era di 1,8 ettari a persona. Stiamo quindi intaccando il
capitale, destinato, con gli attuali ritmi, ad esaurirsi nel 2050.
Ma segnali sempre più eloquenti ed allarmanti ci
provengono dall’andamento del prezzo del greggio, che, al di là di
congiunturali alti e bassi, segue ormai un inarrestabile trend al rialzo, come
nel caso di molte materie prime, compresi alcuni prodotti alimentari di base.
D’altro canto, dopo mezzo secolo di guerra fredda all’insegna dello scontro
ideologico est-ovest, le relazioni internazionali sono sempre più segnate dai
conflitti per il controllo delle risorse e dell’energia: la mappa delle “guerre
calde”, dal Medio Oriente al Caucaso, in particolare, è
sovrapponibile a quella dei giacimenti fossili e delle grandi vie di trasporto
verso l’Occidente.
Insomma, mettere la testa sotto la sabbia non sembra la migliore opzione, perché comunque non possiamo ignorare che prima o
poi i nodi verranno al pettine.
* * *
A questo punto, se la ragionevolezza e la saggezza guidassero l’agire dell’umanità dovremmo tutti insieme mettere mano a quella grande
svolta culturale, scientifica, tecnologica e di stili di vita che ci permetta
una fuoriuscita dolce e non traumatica dalla trappola del “grande esperimento”
e dalla dipendenza dai combustibili fossili.
Tuttavia non sembra che sia così. O almeno, non a
sufficienza. Come mai?
* * *
Può tornarci utile l’archeologia che ha studiato le “scatole nere” delle
civiltà antiche in apparenza “inspiegabilmente” collassate. Dalla loro lettura
ha individuato tre aspetti del collasso, spesso compresenti: il “Treno
incontrollato”; il “Dinosauro”, il Castello di Carte”.
Che il “grande esperimento” attualmente in corso
possa apparire un “Treno incontrollato” è l’evidenza a dircelo: c’è qualche
importante decisore al mondo che mostra di occuparsi di dove sta andando il
Pianeta e se vi saranno ancora condizioni di vita accettabili per le future
generazioni?
Il “Castello di carte”, che significa sostanziale fragilità del sistema, lo
ritroviamo nel fatto incontestabile che tutto il meccanismo dell’attuale
civiltà poggia sulla disponibilità illimitata [!] dei combustibili fossili:
basti immaginare quale scenario, stante le attuali condizioni, si presenterebbe
nel day after l’ultimo barile di petrolio.
Il “Dinosauro”, cioè la lentezza dei cambiamenti
necessari dettata dall’ostilità a rinunciare agli interessi acquisiti e
dall’illusione di preservare posizioni privilegiate, è il fattore forse più
problematico.
Su questo, quindi, vale la pena di soffermarsi, anche perché caratterizza
in particolare la nostra epoca, quella del terzo millennio, e, purtroppo,
condiziona negativamente gli altri due fattori del possibile collasso.
Quelle società
antiche, l’Impero romano in primis, “improvvisamente” collassate erano caratterizzate
da una struttura sociale gerarchica a piramide: chi stava al vertice esercitava
il potere e godeva della possibilità di drenare a proprio vantaggio tutte le
risorse e le ricchezze. Cosicché, fino all’ultimo, le classi
privilegiate si sono illuse di mantenere il proprio status spremendo i
territori e le popolazioni sottomesse, in particolare la produzione agricola,
fino all’esaurimento. La crisi, iniziata già nel terzo secolo d. C.,
invece di essere fronteggiata è stata così semplicemente procrastinata,
aggravandola, fino all’inevitabile crollo finale.
* * *
Qualcosa di molto simile sembra stia accadendo anche oggi. Le macerie del “sistema sovietico”, insieme a una struttura politica autoritaria e ottusa, hanno sotterrato gran parte degli ideali di giustizia sociale, di uguaglianza e di solidarietà che hanno alimentato la migliore umanità nel secolo scorso. Oggi l’Occidente capitalistico si presenta al mondo senza più alcuna promessa di sviluppo per tutti e di lotta alla fame. Sembra davvero di un’altra epoca il famoso discorso del presidente Truman “sullo stato dell’Unione” del 1949: “…la famiglia umana potrà realizzare la vita decente e soddisfacente alla quale ciascuno ha diritto…[attraverso] un’azione che permetterà [ai popoli del mondo] di trionfare sui loro nemici di sempre: la fame, la miseria e la disperazione… noi speriamo di contribuire a creare le condizioni che in definitiva porteranno tutta l’umanità alla libertà e alla felicità personali”.
Oggi, neppure si finge di perseguire quegli obiettivi, anzi. Nelle relazioni internazionali e nei rapporti sociali all’interno delle nazioni si ostenta senza pudore l’arroganza del potere e della ricchezza: “Guai ai poveri!”, sembra il motto del tempo attuale. Invece della guerra alla fame globale e all’emarginazione sociale e alla povertà, le risorse vengono impiegate nella “guerra al terrorismo”, in realtà a popolazioni spesso disperate e inermi che hanno il torto di vivere in territori geostrategici; oppure, all’interno delle società opulente, nella “guerra alla microcriminalità” cioè alle reali o presunte insidie al proprio status che provengono dalla pressione dei migranti e dei marginali. E sembra venir meno ogni freno all’aumento parossistico delle disuguaglianze.
In questo contesto di “crisi sociale globale”,
cioè di società a volte formalmente democratiche, ma in realtà a struttura
piramidale, la “crisi ecologica”, intesa come incalzante penuria di risorse e
di energia, rischia di agire come fattore di ulteriore aggravamento. Sia della “crisi sociale” che della stessa “crisi ecologica”,
attraverso il citato fattore “Dinosauro”, per l’appunto.
Le nazioni e le classi dominanti, quelle che detengono gran parte della
ricchezza del Pianeta, possono essere tentate dall’idea di spremere a proprio
esclusivo vantaggio le poche risorse rimaste, nell’illusione di poter mantenere
gli attuali privilegi e di rinviare la “resa dei conti” con i limiti naturali.
I “nuovi conflitti” per il petrolio, l’ipotesi di estendere le produzioni
agricole per i biocarburanti in un mondo in cui la
fame è ben lontana dall’essere debellata, sembrano muoversi in questa
direzione.
Ciò significherebbe non solo acutizzare drammaticamente la crisi sociale,
ma anche rinviare la soluzione dei nodi della “crisi ecologica”, aggravandola
ulteriormente.
È noto che i tre personaggi più ricchi del Nord America possiedono
ricchezze superiori a quelle dei 48 paesi più poveri. Se attendessimo
che la “crisi ecologica” possa incidere concretamente anche sulle condizioni
materiali di vita di costoro, quasi certamente saremmo fuori tempo massimo per
fronteggiarla. Il problema è che sono costoro ed i loro accoliti ad
avere in mano le sorti del Pianeta!
Insomma, sembra evidente che l’attuale “crisi ecologica” sia profondamente intrecciata alla
“crisi sociale”, e che si alimentino reciprocamente, per cui non sarà
possibile una soluzione ecologica socialmente ingiusta e una soluzione sociale
ecologicamente distruttiva.
Riproporre, oggi, la “questione sociale” potrebbe sembrare di primo acchito un
anacronismo, un ritorno all’indietro di due secoli. Acquista invece un valore
attuale straordinario se, di fronte alla “crisi ecologica”, vogliamo
sbarazzarci del fattore ”Dinosauro” e creare le condizioni perché l’umanità
tutta, con un eccezionale sforzo solidale, si metta al lavoro per costruire quella auspicabile fuoriuscita dolce dal “grande
esperimento”. Un mondo più giusto, in cui tutti condividano almeno un po’ le
stesse difficoltà dettate dai limiti delle risorse naturali, è la condizione
perché l’attuale “crisi ecologica” venga affrontata
con la necessaria urgenza e determinazione. In passato si diceva che senza
giustizia non vi può essere pace tra gli uomini. E con la Natura, aggiungiamo noi.
2 settembre 2008
Inserito: 4 settembre 2008
Scienza e Democrazia/Science and Democracy
* Riflessioni a margine della lettura di Ronald Wright, Breve storia del progresso, Mondadori, Milano 2006.