Sulla questione del boicottaggio accademico
Il caso di Israele
Si raccolgono qui una serie di contributi apparsi nelle
ultime settimane, e a cui il sistema dei media, quasi
interamente schierato a favore dell’aggressione militare di Israele ai
palestinesi della Striscia di Gaza, ha
dato pochissima circolazione.
Per informazioni essenziali sulla politica israeliana si
rinvia alla sintesi dello storico Norman Finkelstein, qui riprodotta in Appendice, e per un quadro
più generale ai contributi di Paolo Barnard in http://www.paolobarnard.info/palestina.php.
La situazione di Gaza tre anni fa fu descritta e paragonata
(in peggio) all’apartheid del
Sudafrica dall'ispettore ONU per i diritti umani nei Territori
palestinesi, il sudafricano John Dugard
in un rapporto. La traduzione
di un articolo di Dugard del
2006 è riprodotta in Appendice.
Da un punto di vista etico-politico,
una prima questione riguarda il ruolo del boicottaggio economico e delle
sanzioni nei riguardi di un paese che sta sistematicamente operando gravissime
violazioni dei diritti umani (dalla discriminazione razziale alla guerra di aggressione).
Questa questione ha una risposta evidente: il boicottaggio economico
è uno strumento di protesta legittimo ed efficace, il
che si è potuto constatare in diverse circostanze. Il caso più celebre riguarda
il Sudafrica. Il giudizio storico attuale sul boicottaggio economico contro
questo paese (che si espresse anche nella forma di non
acquisto da parte dei consumatori di beni provenienti da lì) è che esso fu un
fattore decisivo nella transizione di quel paese da un regime di
discriminazione e separazione razziale (apartheid) a una democrazia interetnica.
Una seconda questione, che a molti sembra dissimile dalla
prima, è se la comunità accademica e in particolare quella scientifica di un
paese abbiano il dovere di interrompere i rapporti di
collaborazione con le istituzioni accademiche di un paese che viola
sistematicamente i diritti umani.
Chi propende per una risposta negativa
si fonda di solito, dichiaratamente o no, su un’idea di ricerca scientifica o
di attività culturali che le vuole estranee alla politica, e in definitiva
anche all’etica. Non si capisce in che modo questo credo, che altro non è se
non una varietà di fanatismo religioso, possa avere
ospitalità in un dibattito pubblico condotto all’interno di una società
secolarizzata.
Sotto il profilo etico, le due forme di boicottaggio hanno
giustificazioni analoghe. Inutile dire che il boicottaggio accademico non ha un
effetto altrettanto dirompente di quello economico, ma è il principale
strumento in mano al mondo universitario per esprimere la propria protesta in
una forma che vada oltre la firma di una petizione. Ed
è ragionevole aspettarsi che possa avere un’influenza significativa
sulle decisioni politiche.
Non si cessa di essere cittadini
nel momento in cui si fa ricerca scientifica o attività culturale. Quando poi
la ricerca in questione ha possibili ricadute militari, continuare la
collaborazione con un paese come l’Israele attuale (ma
non solo!) è indifendibile, e squalifica chi lo fa.
Marco Mamone
Capria
TESTI
Naomi
Klein: Una nuova apartheid
(10.I.2009)
La posizione del movimento studentesco a Roma e la risposta dei
professori di fisica (16-19.I.2009)
Angelo Baracca: Scienza
e guerra, non c'è neutralità (22.I.2009)
John
Dugard: Palestina: pace, non apartheid (1.XII.2006)
Norman Finkelstein: La
verità su Hamas e sulla guerra contro Gaza (8.I.2009)
John Pilger: Il silenzio
mendace di quelli che sanno (8.I.2009)
È ora. Un momento che giunge dopo tanto tempo. La strategia
migliore per porre fine alla sanguinosa occupazione è quella di far diventare
Israele il bersaglio del tipo di movimento globale che
pose fine all'apartheid in Sud Africa.
Nel luglio
2005 una grande
coalizione di gruppi palestinesi delineò un piano proprio per far
ciò. Si appellarono alla «gente di coscienza in tutto il mondo per imporre ampi
boicottaggi e attuare iniziative di pressioni economiche contro Israele simili
a quelle applicate al Sudafrica all'epoca dell'apartheid». Nasce così la
campagna “Boicottaggio, ritiro degli investimenti e sanzioni” (Boycott, Divestment and Sanctions),
BDS per brevità.
Ogni giorno che Israele martella Gaza spinge più persone a convertirsi alla
causa BDS, e il discorso del cessate il fuoco non ce
la fa a rallentarne lo slancio. Il sostegno sta emergendo persino tra gli ebrei
israeliani. Proprio mentre è in corso l'assalto, circa 500
israeliani, decine dei quali artisti e studiosi rinomati, hanno inviato una lettera agli
ambasciatori stranieri di stanza in Israele. La lettera chiede
«l'adozione immediata di misure restrittive e sanzioni» e richiama un chiaro
parallelismo con la lotta antiapartheid. «Il boicottaggio del Sud Africa fu
efficace, Israele invece viene trattato con guanti di
velluto.... Questo sostegno internazionale deve cessare.»
Tuttavia, molti ancora non ci riescono. Le ragioni sono complesse, emotive e
comprensibili. E semplicemente non sono abbastanza
buone. Le sanzioni economiche sono gli strumenti più efficaci dell'arsenale
nonviolento. Arrendersi rasenta la complicità attiva. Qui di seguito le
maggiori quattro obiezioni alla strategia BDS, seguita da
contro-argomentazioni.
1. Le misure punitive alieneranno anziché convincere gli israeliani.
Il mondo ha sperimentato quello che si chiamava “impegno costruttivo”. Ebbene, ha fallito in pieno. Dal 2006 Israele accresce
costantemente la propria criminalità: l'espansione degli insediamenti,
l'avvio di una scandalosa guerra contro il Libano e l'imposizione di punizioni
collettive su Gaza attraverso un blocco brutale. Nonostante questa escalation, Israele non ha dovuto far fronte a misure
punitive, ma anzi, al contrario: armi e 3 miliardi di dollari annui in aiuti
che gli Stati Uniti inviano a Israele, tanto per cominciare. Durante questo
periodo chiave, Israele ha goduto di un notevole
miglioramento nelle sue relazioni diplomatiche, culturali e commerciali con moteplici altri alleati. Ad esempio, nel 2007, Israele è
diventato il primo paese non latino-americano a firmare un accordo di libero
scambio con il Mercosur. Nei primi nove mesi del
2008, le esportazioni israeliane verso il Canada sono aumentate del 45%. Un
nuovo accordo di scambi commerciali con l'Unione europea è destinato a
raddoppiare le esportazioni di Israele di preparati
alimentari. E l'8 dicembre i ministri europei hanno “rafforzato” l'Accordo di Associazione UE-Israele,
una ricompensa a lungo cercata da Gerusalemme.
È in questo contesto che i leader israeliani hanno iniziato la loro
ultima guerra: fiduciosi di non dover affrontare costi significativi. È da rimarcare il fatto che in sette giorni di commercio durante
la guerra, l'indice della Borsa di Tel Aviv è salito effettivamente del 10,7
per cento. Quando le carote non funzionano, i bastoni
sono necessari.
2. Israele non è il Sud Africa.
Naturalmente non lo è. La rilevanza del modello sudafricano è che dimostra che
tattiche BDS possono essere efficaci quando le misure
più deboli (le proteste, le petizioni, pressioni di corridoio) hanno fallito. E di fatto ci sono echi dell'apartheid
profondamente desolanti: documenti di identità con codici colorati e permessi
di viaggio, case rase al suolo dai bulldozer e sfollamenti forzati, strade per
soli coloni. Ronnie Kasrils,
eminente uomo politico sudafricano, ha detto che l'architettura della
segregazione da lui vista in Cisgiordania e a Gaza
nel 2007 è “infinitamente peggiore
dell'apartheid”.
3. Perché mettere all'indice solo Israele, quando
Stati Uniti, Gran Bretagna e altri paesi occidentali fanno le stesse cose in
Iraq e in Afghanistan? Il boicottaggio non è un
dogma, è una tattica. La ragione per cui la strategia BDS dovrebbe
essere tentata contro Israele è pratica: in un paese
così piccolo e così dipendente dal commercio potrebbe effettivamente
funzionare.
4. Il boicottaggio allontana
la comunicazione, c'è bisogno di più dialogo, non di meno. A questa obiezione
risponderò con una mia storia personale. Per otto anni i miei libri sono stati
pubblicati in Israele da una casa editrice commerciale chiamata Babel. Ma quando ho pubblicato “Shock
Economy” ho voluto rispettare il boicottaggio. Su
consiglio degli attivisti BDS, ho contattato un piccolo editore chiamato Andalus. Andalus è una casa editrice attivista, profondamente
coinvolta nel movimento anti-occupazione ed è l'unico editore israeliano
dedicato esclusivamente alla traduzione in ebraico di testi scritti in arabo.
Abbiamo redatto un contratto che garantisce che tutti i proventi vadano al
lavoro di Andalus, e nessuno
per me. In altre parole, io sto boicottando l'economia di Israele, ma non gli
israeliani.
Mettere in piedi questo programma ha comportato decine di telefonate, e-mail e
messaggi istantanei, da Tel Aviv a Ramallah, a
Parigi, a Toronto, a Gaza City. A mio avviso non appena si dà vita ad una
strategia di boicottaggio il dialogo aumenta
tremendamente. D'altronde, perché non dovrebbe? Costruire un movimento richiede infinite comunicazioni, come molti nella lotta
antiapartheid ricordano bene. L'argomento secondo il quale sostenendo i
boicottaggi ci taglieremo fuori l'un l'altro è
particolarmente specioso data la gamma di tecnologie a basso costo alla portata
delle nostre dita. Siamo sommersi dalla gamma di modi di comunicare l'uno
con l'altro oltre i confini nazionali. Nessun boicottaggio ci può fermare.
Proprio riguardo ad ora, parecchi orgogliosi sionisti si stanno preparando per un punto a loro favore: forse io non so che parecchi di quei giocattoli molto high-tech provengono da parchi di ricerca israeliani, leader mondiali nell'Infotech? Abbastanza vero, ma mica tutti. Alcuni giorni dopo l'assalto di Israele a Gaza, Richard Ramsey, direttore di una società britannica di telecomunicazioni, ha inviato una e-mail alla ditta israeliana di tecnologia MobileMax. «A causa dell'azione del governo israeliano degli ultimi giorni non saremo più in grado di prendere in considerazione fare affari con voi né con qualsiasi altra società israeliana.»
Quando è stato interpellato da The Nation, Ramsey ha affermato che la sua decisione non è stata politica. «Non possiamo permetterci di perdere neppure uno dei nostri clienti: è stata pura logica difensiva commerciale.»
È stato questo
tipo di freddo calcolo che ha portato molte aziende a tirarsi fuori dal Sud Africa due decenni fa. Ed è proprio questo
tipo di calcolo la nostra più realistica speranza di
portare giustizia, così a lungo negata, alla Palestina.
[Alla traduzione di Megachip
http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=8517
è stata apportata una piccola correzione
redazionale.
Articolo orginale: http://www.thenation.com/doc/20090126/klein?rel=hp_currently
]
Una
strategia della società civile contro l'apartheid e la guerra
Mentre Israele prosegue i suoi bombardamenti contro la popolazione
palestinese e i paramilitari del generale Mohamed Dahlan aspettano alla
frontiera egiziana l'ordine di entrare a Gaza per massacrare le famiglie di Hamas, l'opinione pubblica europea si sente impotente ad
agire. Malgrado la loro grandezza, le manifestazioni
si susseguono senza effetti sui responsabili politici.
Il professor Jean Bricmont
propone una strategia semplice per cambiare i rapporti di forza in Europa e, in
conclusione, per mettere fine al sostegno di cui dispone il regime di apartheid israeliano.
Siamo senz'altro milioni ad assistere, pieni di rabbia
e impotenti, alla distruzione di Gaza, sommersi dal discorso mediatico sulla "risposta al terrorismo" e il
"diritto di Israele a difendersi". Ma, come fa notare Robert Fisk, le persone che
lanciano razzi al Sud di Israele spesso non sono che i
discendenti degli abitanti di quella regione da dove sono stati cacciati nel
1948 [1]. Fintanto che questa realtà fondamentale non sarà
stata riconosciuta e questa ingiustizia riparata, non sarà stato detto o fatto
nulla di serio in favore della pace.
Ma che fare? Organizzare ancora nuovi dialoghi tra
ebrei progressisti e musulmani moderati? Aspettare una nuova iniziativa di
pace? Oppure nuove dichiarazioni di Ministri
dell'Unione Europea?
Tutte queste commedie non sono durate abbastanza? Coloro che vogliono fare
qualcosa si attaccano troppo spesso ad esigenze poco realistiche: invocare la
creazione di un tribunale internazionale per giudicare i criminali di guerra
israeliani o chiedere un efficace intervento dell'ONU o dell'Unione Europea.
Tutti sanno bene che nulla di ciò verrà fatto perché i
tribunali internazionali, per fare un esempio, non fanno che riflettere i
rapporti di forza nel mondo che sono al momento a favore di Israele. Sono
questi rapporti di forza che devono cambiare e ciò non può avvenire che a poco
a poco. E' vero che c'è una "urgenza" a Gaza, ma è anche vero che
nulla può essere fatto adesso proprio perché il paziente lavoro
che avrebbe dovuto essere stato fatto in passato non è stato svolto.
Delle considerazioni fatte qui sopra, due si pongono sul piano ideologico e una
sul piano pratico.
1. Disfarsi dell'illusione secondo la quale Israele
è "utile"
Molte persone, soprattutto a sinistra, continuano a pensare che Israele sia solo una pedina nella strategia statunitense, capitalista o imperialista, per il controllo del Medio Oriente. Nulla di più falso. Israele non serve praticamente a nessuno, salvo ai propri fantasmi di potere. Non c'è petrolio in Israele o in Libano. Le cosiddette guerre per il petrolio, del 1991 e del 2003, sono state fatte dagli Stati Uniti senza alcun aiuto israeliano e, nel 1991, con l'esplicita richiesta degli Stati Uniti di non intervento israeliano, che avrebbe fatto crollare la loro coalizione araba. Come "alleato strategico" si può trovare di meglio. Non c'è alcun dubbio che le petro-monarchie filo-occidentali e i regimi arabi "moderati" sono disperati nel vedere Israele occupare senza sosta le terre palestinesi e radicalizzare così buona parte delle loro popolazioni. E' Israele che, grazie alle sue politiche assurde, ha provocato nel contempo la nascita di Hezbollah e di Hamas e che è indirettamente responsabile di gran parte della crescita dell'"islamismo radicale".
Bisogna anche capire che i capitalisti, presi nel loro insieme (non ci sono
solo i mercanti di armi ...), guadagnano molto di più
in pace che in guerra: basta vedere le fortune realizzate dai capitalisti
occidentali in Cina e in Vietnam da quando vi è pace con questi paesi, in
confronto all'epoca di Mao e della guerra del
Vietnam. Ai capitalisti importa ben poco sapere di quale "popolo"
Gerusalemme sia la "capitale eterna" e, se
vi fosse la pace, si precipiterebbero in Cisgiordania
e a Gaza per sfruttare una mano d'opera qualificata e senza altri mezzi di
sostentamento.
In definitiva, qualunque statunitense preoccupato
dell'influenza del proprio paese nel mondo vede bene che alienarsi un miliardo
di musulmani per soddisfare i capricci d'Israele non è propriamente un
investimento razionale per il futuro [2].
Spesso sono coloro che si considerano marxisti a non voler vedere nel sostegno
ad Israele niente altro che una semplice emanazione di
fenomeni più generali come il capitalismo o l'imperialismo (Marx stesso era
molto più sfumato riguardo la questione del riduzionismo economico). Ma non è
rendere un buon servizio al popolo palestinese mantenere tali posizioni – in
effetti, il sistema capitalistico, che ci piaccia o
no, è un sistema troppo robusto per dipendere in maniera significativa
dall'occupazione della Cisgiordania; d'altronde
questo sistema sta d'incanto in Sudafrica dopo lo smantellamento
dell'apartheid.
2. Liberare la parola non-ebrea sulla Palestina
Se il sostegno a Israele non si manifesta principalmente attraverso interessi economici o strategici, perché questo silenzio e questa complicità? Si potrebbe provare indifferenza nei riguardi di quello che avviene "lontano da casa nostra". Ciò potrebbe essere vero per la maggior parte della popolazione, ma non per l'ambiente intellettuale dominante che straripa di critiche verso il Venezuela, Cuba, il Sudan, l'Iran, Hezbollah, Hamas, la Siria, l'Islam, la Serbia, la Russia o la Cina. E in tutti questi campi anche le più rozze esagerazioni sono correnti e accettate.
Un'altra spiegazione della docilità verso Israele è il "senso di
colpa" occidentale nei confronti delle persecuzioni antisemite del
passato, in particolare verso gli orrori della Seconda Guerra mondiale. Al
riguardo, viene talvolta fatto notare che i
Palestinesi non sono per nulla colpevoli di questi orrori e che non devono
pagare per i crimini altrui. E' vero, ma quello che non viene quasi mai detto e
che è però evidente, è che la grande maggioranza dei
Francesi, dei Tedeschi o dei preti cattolici di oggi sono anch'essi innocenti
quanto i Palestinesi di quello che è accaduto durante la guerra, per il
semplice motivo di essere nati dopo la guerra o di averla vissuta ancora
bambini. Il concetto di colpa collettiva era già molto discutibile nel 1945, ma
l'idea di trasmettere questa colpa ai discendenti è
un'idea quasi religiosa.
Ciò che è curioso, d'altra parte, è che al momento in cui la Chiesa cattolica
ha abbandonato l'idea del popolo deicida, cominci ad imporsi quella di una
responsabilità quasi universale di fronte al giudeicidio.
Ma questa "colpa" giustifica un'enorme
ipocrisia. Si ritiene che ci si senta tutti colpevoli dei crimini del passato,
verso i quali, per definizione, non potevamo fare nulla, ma quasi per niente
colpevoli dei crimini dei nostri alleati statunitensi e israeliani che si compiono
al giorno d'oggi, davanti ai nostri occhi, e dai quali
come minimo ci si potrebbe dissociare con chiarezza. E, anche se viene affermato senza sosta che il ricordo dell'olocausto
non giustifica la politica israeliana, è evidente che è tra le popolazioni
maggiormente colpevolizzate da tale ricordo (i Tedeschi, i Francesi e i
cattolici) che tale silenzio è più forte (contrariamente a neri, arabi e
Britannici).
Quanto detto è una banalità, ma una banalità che non è facile a dirsi, perciò
bisogna ripeterla fino a quando non sia riconosciuta
come tale se si vuole che i non-ebrei possano esprimersi liberamente sulla
Palestina. Forse il migliore slogan da innalzare nelle manifestazioni sulla
Palestina non è "Siamo tutti Palestinesi" – slogan bene intenzionato
ma che non riflette affatto le realtà della nostra situazione e della loro – ma
piuttosto: "Non siamo colpevoli per l'olocausto". In questo,
condividiamo effettivamente qualcosa con i Palestinesi.
Ma la principale ragione del silenzio non può essere unicamente
il senso di colpa, che è artificiale, ma la paura. Paura
della maldicenza, della diffamazione, o di processi in cui l'unico capo
d'imputazione è sempre lo stesso, l'antisemitismo. Se non siete
convinti, prendiamo un giornalista, un uomo politico o un editore, chiudiamoci
con lui in una stanza dove possa verificare che non ci
sono telecamere nascoste né microfoni, e domandiamogli se dice pubblicamente
tutto quello che pensa veramente d'Israele e, se non lo dice (a mio avviso, la
risposta più probabile), perché tace? Perché ha paura
di nuocere agli interessi dei capitalisti in Cisgiordania?
Di indebolire l'imperialismo statunitense? O, ancora,
di danneggiare le quotazioni o il flusso del petrolio? Oppure,
al contrario, ha paura delle organizzazioni sioniste, delle loro persecuzioni e
delle loro calunnie?
Mi sembra evidente, dopo dozzine di discussioni con persone d'origine
non-ebrea, che la risposta giusta è l'ultima. Si tace quello che si pensa dello
Stato che si definisce "Stato ebraico" per
paura di essere trattati da antisemiti. Questo sentimento è ancora rafforzato
dal fatto che la maggioranza delle persone scioccate dalla politica israeliana provano realmente orrore per quello che è successo durante
la Seconda Guerra mondiale e sono davvero ostili all'antisemitismo. A causa di
tutto ciò, quasi tutti hanno interiorizzato l'idea che il discorso su Israele
e, ancor di più, sulle organizzazioni sioniste, costituisce un tabù da non
infrangere, ed è questo che mantiene un clima di paura generalizzato. Si può
d'altronde notare che in generale sono quelli che in privato danno
"consigli d'amico" (stai attento, nessuna mescolanza, non esagerare,
islamismo ..., estrema destra ... Dieudonné
*, ecc.) ad essere i primi a dichiarare pubblicamente che non hanno paura di
niente e che le pressioni non esistono. Evidentemente, perché
riconoscere la paura sarebbe il mezzo migliore per cominciare a liberarsene.
Di conseguenza, la prima cosa da fare è combattere questa paura. Questo non è
sempre capito dai militanti della causa palestinese perché, con la loro stessa
azione, dimostrano che loro non hanno paura. Spesso si tratta di persone fedeli
e che non brigano per posizioni di potere nella società. Tuttavia, essi
dovrebbero immaginarsi al posto di coloro che occupano
o aspirano ad occupare tali posizioni (e che, di conseguenza, sono in grado di
influenzare le posizioni politiche) e che sono, proprio a causa delle loro
ambizioni, vulnerabili all'intimidazione. Il solo modo di procedere è creare un
clima di "disintimidazione", sostenendo
ogni uomo politico, ogni giornalista, ogni scrittore
che osa scrivere una frase, una parola, una virgola, di critica ad Israele.
Bisogna farlo a 360°, senza limitarsi a sostenere le persone che hanno una
posizione "corretta" su altre questioni (secondo l'asse
destra-sinistra), o che hanno posizioni "perfette" sul conflitto.
In conclusione, piuttosto che parlare di "sostegno" alla causa
palestinese come fanno molte organizzazioni, sostegno che non otterrà mai, per quanto ciò sia deplorevole, l'adesione
della maggioranza della popolazione dei nostri paesi, si dovrebbe presentare la
questione palestinese dal punto di vista degli interessi ben compresi della
Francia e dell'Europa. In effetti, non abbiamo alcuna ragione di alienarci il
mondo arabo-musulmano o di vedere aumentare l'odio verso l'Occidente, ed è per
noi catastrofico creare un conflitto di più con quella parte della popolazione
"proveniente dall'immigrazione" che spesso simpatizza con i
Palestinesi. Al riguardo, notiamo che non è stato predicando un indefettibile
sostegno a Israele che i sionisti hanno avuto
successo, ma piuttosto con un lento lavoro di identificazione tra la difesa
dell'Occidente (in materia di approvvigionamento petrolifero o di lotta contro
l'islamismo) e quella d'Israele (si può d'altronde rammaricarsi che molti
discorsi di sinistra sull'utilità di Israele per il controllo del petrolio,
così come i discorsi laici sull'Islam, rinforzano questa identificazione).
3. Riguardo alle iniziative pratiche, si riassumono in tre lettere: BDS
(Boicottaggio, Disinvestimenti, Sanzioni)
L'esigenza di sanzioni è rilanciata dalla maggior parte delle organizzazioni pro-palestinesi [3], ma essendo questo tipo di misure una prerogativa degli Stati, tutti sanno che ciò non si farà a breve termine. Le misure di disinvestimento sono prese sia dalle organizzazioni che hanno denaro da investire (associazioni sindacali, chiese) ed è quindi una decisione che spetta ai loro membri, sia da imprese che collaborano strettamente con Israele e che non cambieranno la loro politica se non in seguito ad azioni di boicottaggio, il che ci porta alla discussione di questa forma di azione, che è rivolta non solo ai prodotti israeliani ma anche alle istituzioni culturali e accademiche di questo Stato [4].
Notiamo che questa tattica è stata utilizzata contro il Sudafrica e che le due
situazioni sono molto simili: il regime dell'apartheid e Israele sono (o erano) dei pilastri del colonialismo europeo che
accettano a malincuore (contrariamente alla maggior parte delle nostre opinioni
pubbliche) il fatto che questa forma di dominazione sia superata. Le ideologie
razziste sottostanti ai due progetti li rendono insopportabili alla maggioranza
dell'umanità e creano odi e conflitti senza fine. Si potrebbe anche dire che
Israele non è altro che il Sudafrica più la strumentalizzazione
dell'olocausto.
Nel caso del boicottaggio culturale e accademico, viene
talvolta obiettato che ci sarebbero vittime innocenti, bene intenzionate, che
desiderano la pace, ecc. argomento d'altronde già utilizzato all'epoca
dell'Africa del Sud (e lo stesso argomento potrebbe essere sollevato a
proposito dei lavoratori delle imprese vittime del boicottaggio economico). Ma Israele stesso riconosce che ci sono vittime innocenti a
Gaza, il che non gli impedisce affatto di ucciderle. Quanto a noi, non
proponiamo di uccidere nessuno. L'azione di boicottaggio è perfettamente civile
e non violenta; tuttavia, anche una tale azione può provocare danni
collaterali, gli artisti e gli scienziati bene intenzionati che sarebbero
vittime del boicottaggio.
Questo tipo di azione è paragonabile all'obiezione di
coscienza all'epoca della leva obbligatoria o ad una azione di disobbedienza
civile – Israele non rispetta alcuna risoluzione dell'ONU che lo riguardi, e i
nostri governi, lungi dal prendere delle misure per farle applicare, non fanno
altro che rinforzare i loro legami con Israele; abbiamo il diritto in quanto
cittadini (la cui opinione, anche non udibile, è probabilmente maggioritaria e
lo sarebbe senz'altro se potesse avere luogo un dibattito aperto) di dire NO.
La cosa importante nelle sanzioni, particolarmente a livello
culturale, è precisamente il loro aspetto simbolico (e non
esclusivamente economico). Ai nostri governi va detto: non accettiamo la vostra
politica di collaborazione, e ad Israele che ha scelto di essere uno Stato al
di fuori della legge internazionale.
Un argomento frequente contro il boicottaggio è che esso è respinto da
Israeliani progressisti e da un certo numero di Palestinesi
"moderati" (anche se è sostenuto dalla maggioranza della società
civile palestinese). Ma, principalmente, la questione
non è di sapere cosa vogliono loro, ma quale politica estera vogliamo noi per i
nostri paesi. Il conflitto arabo-israeliano supera di molto l'ambito locale e
acquista un senso mondiale: di più, coinvolge il problema fondamentale del
rispetto del diritto internazionale. Noi, Occidentali, possiamo perfettamente
volere unirci al resto del mondo che rifiuta la barbarie israeliana e già questa
è una ragione sufficiente per incoraggiare il boicottaggio.
(Jean Bricmont, figura
di spicco del movimento anti-imperialista, Jean Bricmont è professore di
fisica teorica all'Università di Lovanio (Belgio). Ha
pubblicato Imperialisme humanitaire.
Droits de l'homme, droit d'ingérence, droit du plus fort?
(Editions Aden, 2005).)
NOTE
[1] « Remettre dans son contexte le
tir de représailles sur Najd
(Sderot) », di Um Khalil, The International Solidarity Movement, 15
novembre 2006.
[2] Per una discussione più dettagliata delle vere
ragioni dell'aiuto statunitense a Israele, si veda John
J. Mearsheimer, Stephen M. Walt, La lobby israeliana e la politica estera degli USA, Asterios, 2007.
[3] « Cessons de tergiverser: il faut boycotter Israël, tout de suite!
», di Virginia Tilley ; «Aucun
État n’a le droit d’exister comme État raciste»,
intervista a Omar Barghouti di Silvia Cattori, Réseau
Voltaire, 6 settembre 2006, 6 dicembre 2007. ["Nessuno
Stato ha il diritto di esistere come Stato razzista", Comedonchisciotte.org,
22 gennaio 2008]
[4] Per una buona risposta alle principali obiezioni
sollevate a proposito di questa tattica, si veda Naomi
Klein, « Israel: Boycott, Divestment, Sanction », The Nation, 26 gennaio 2009.
* Nome d'arte di Dieudonné M'bala M'bala, attore e umorista
francese. Le sue prese di posizione politiche e le sue affermazioni sugli ebrei
e la Shoah hanno provocato numerose reazioni,
procedimenti giudiziari e condanne per antisemitismo (Wikipedia.)
Titolo originale: “Trois idées simples pour mettre fin au soutien
politique aux crimes israéliens ”
Fonte: www.voltairenet.org
Link: http://www.voltairenet.org/article158980.html
Scelto e
tradotto per Comedonchisciotte.org da MATTEO BOVIS
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5482
L'Onda
«Non collaborare con atenei israeliani» (16.I.2009)
Un appello ai ricercatori italiani affinché interrompano le
collaborazioni con le istituzioni di ricerca pubbliche e private israeliane e
in generale con quelle legate all'industria bellica. A farlo è
l'assemblea degli studenti dell'Onda del Dipartimento di fisica della Sapienza
di Roma, al fine di «sostenere la pressione sociale internazionale, che chiede
la fine degli attacchi di Israele ai territori
palestinesi». Il documento, elaborato dopo giorni di discussione degli studenti
sui fatti di Gaza, chiede inoltre «alla comunità
scientifica e alle istituzioni di ricerca israeliane di pronunciarsi contro le
operazioni belliche in corso e le politiche di guerra del governo israeliano».
L'appello sostiene che «l'attuale situazione del conflitto è
solo il tragico compimento di anni di politiche di isolamento della
società palestinese» e che «l'attacco totale alla vita del popolo palestinese
passa anche dalla chiusura di diverse università palestinesi e dall'impedimento
pratico allo svolgersi di una normale vita accademica senza che nessuna
istituzione accademica israeliana si sia mai pronunciata a riguardo».
Per aderire: smilitarizziamolaricerca@gmail.com
L'Onda
per il «boicottaggio accademico di Israele», ma i
docenti dicono no (19.I.2009)
(Stefano Milani)
UNIVERSITÀ Uniti contro la venuta del papa
alla Sapienza ora studenti e professori si dividono su come reagire alle bombe
su Gaza
ROMA
«Boicottaggio delle università israeliane». La parola d'ordine riecheggia da
giorni tra i corridoi e nelle aule del dipartimento di Fisica della Sapienza di Roma. Cuore pulsante
dell'Onda studentesca e da dove, nel gennaio dello scorso anno, partì quella
famosa lettera, firmata da 67 tra docenti e scienziati, all'indirizzo di papa Ratzinger ospite sgradito all'inaugurazione dell'anno
accademico. Allora tutti erano d'accordo, docenti
e studenti. Adesso le divergenze si fanno sentire. Niente questioni
di laicità stavolta, in ballo c'è la posizione da tenere sui fatti di
Gaza. Anzi, come rispondere a quei fatti. «Smilitarizziamo la ricerca, stop al
massacro a Gaza». Con questo striscione un gruppo di studenti ha fatto ieri
irruzione all'interno del dipartimento di Fisica dell'università
La Sapienza di Roma, per chiedere di «interrompere ogni collaborazione con
tutte le istituzioni di ricerca israeliane», in particolare «quelle legate
all'industria bellica» e «per sostenere la pressione sociale che chiede la fine
degli attacchi in Palestina».
E così, al grido di «Noi la guerra non la facciamo»,
gli studenti hanno interrotto una lezione tenuta dal direttore del dipartimento
di Fisica, Giancarlo Ruocco, per chiedere una
posizione ufficiale sul «massacro in atto in Palestina». I ragazzi chiedono
«l'immediata interruzione delle collaborazioni con le istituzioni di ricerca
israeliane» e nello stesso tempo chiedono «alla stessa comunità scientifica di Israele di pronunciarsi contro le operazioni belliche in
corso». Ma il docente, che è responsabile dal 2005 di un
progetto sulla fotonica in collaborazione con tre
atenei israeliani tra cui quello di Tel Aviv, di boicottaggio non vuole sentir parlare.
«Condanno la guerra ma non fermeremo la collaborazione
che abbiamo con alcune università israeliane». Il motivo? «Non possiamo sapere
quale futuro possano avere queste applicazioni, se
andranno in una direzione positiva o verso comportamenti disdicevoli come
quelli bellici», ma «tutti i prodotti della nostra ricerca saranno sempre
pubblici e non coperti dal segreto del risultato».
Il massimo che Ruocco è riuscito a promettere ai suoi
studenti è che mercoledì prossimo, durante il
consiglio di dipartimento, verrà votato un documento di condanna contro le
bombe su Gaza. Promessa che però non soddisfa del tutto i ragazzi dell'Onda che
continueranno la loro battaglia a partire dalla
manifestazione di oggi. «L'attacco totale alla vita del popolo palestinese - si
legge nel loro appello - passa anche dalla chiusura di diverse università
palestinesi e dall'impedimento pratico allo svolgersi di una normale vita
accademica. Tutto questo è accaduto senza che nessuna istituzione
accademica israeliana si sia mai pronunciata a riguardo. Per questo chiediamo
ai ricercatori israeliani non solo di prendere parola, ma di mettere in pratica
azioni dirette che inceppino il meccanismo bellico».
Boicottare le università di Israele?
La
questione posta dagli studenti dell'Università La Sapienza di Roma del
boicottaggio accademico di Israele, e in generale
della ricerca militare, investe più di una questione, che vorrei affrontare nel
portare il mio sostegno alla proposta.
Una prima questione riguarda gli aspetti politici contingenti, su cui pesa il
giudizio su Israele e il conflitto israelo-palestinese:
se in 42 anni la potenza incomparabilmente più forte della regione non ha
trovato il modo di risolvere il problema del popolo e dello stato palestinesi,
porta senza dubbio la responsabilità preponderante.
Ai colleghi che rifiutano di interrompere le
collaborazioni scientifiche con Israele vorrei chiedere se darebbero la stessa
risposta si trattasse di collaborazioni, poniamo, con l'Iran: e lo dico non per
reiterare accuse a Tehran, per la cui leadership non
ho nessuna simpatia, ma che fino a oggi non è incolpabile di palesi infrazioni
internazionali. Israele è in palese e grave violazione del diritto internazionale,
almeno perché non dichiara il proprio potenziale nucleare e non ammette
verifiche dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica.
Si può rispondere che questo non ha a che fare direttamente con le
collaborazioni scientifiche di base. Vorrei ricordare allora che nel 1939 vari
scienziati proposero di non pubblicare i risultati
delle ricerche sull'uranio: questo fu accettato solo più tardi, ma nessuno
scienziato avrebbe mantenuto collaborazioni con la Germania nazista. Sia
chiaro, non sto in alcun modo paragonando Israele alla
Germania nazista, mi riferisco solo a violazioni del diritto
internazionale e a rischi di escalation militari, su cui le persone ragionevoli
non dovrebbero avere dubbi.
Qualche anno fa l'Unione europea varò forti sanzioni verso Cuba, rea di avere
fucilato o imprigionato cittadini che espatriavano clandestinamente: quei
provvedimenti compromisero la collaborazione scientifica e didattica che io, e
altri, intrattenevamo con Cuba: qualcuno dei colleghi
oggi in gioco con Israele alzò la voce?
Israele è uno Stato «ebraico», in cui la minoranza non ebraica
ha uno status sociale diverso. I colleghi che collaborano con università e
centri di ricerca israeliani si sono mai preoccupati
di chiedere ai colleghi quale sia la percentuale di arabi nel corpo accademico
e di ricerca? E se quegli istituti hanno
collaborazioni con centri militari?
Il direttore del Dipartimento di Fisica di Roma avrebbe risposto agli studenti
(cito dal manifesto) di non sapere quale futuro possano avere queste applicazioni,
se in direzione positiva o a fini bellici. In questi
giorni (come già nel 2006) circolano con insistenza accuse a
Israele sull'uso o sperimentazione di armi nuove e atroci. Lo scrittore
israeliano Shamuel Amir
denunciava domenica il carattere «coloniale della guerra portata avanti dal
sionismo», con la superiorità schiacciante dei suoi armamenti. Di fronte a
questi rischi gli scienziati non possono mettersi l'anima in pace: provino
almeno a prendere posizione contro le armi usate da Israele, e vedere se le
loro collaborazioni proseguiranno!
Ma
non ce l'ho in particolare con il Direttore del
Dipartimento, perché dietro la sua risposta sta una questione generale:
l'ideologia secondo la quale la scienza è un valore universale al di sopra
delle questioni sociali e non è responsabile delle applicazioni - buone o
cattive - dei risultati. Non entro nel merito. Mi risuona l'esclamazione di Enrico Fermi: «Lasciatemi in pace con i vostri scrupoli,
è una fisica così bella!».
La scienza è un prodotto dell'attività degli uomini, partecipa e risente delle
loro finalità, ed essi non possono lavarsi le mani del suo uso. Non si ricorda
mai che una fetta notevole della comunità scientifica lavora in centri di
ricerca militare, che hanno tutte le diramazioni possibili, e forse
impensabili. Condivido le riserve a collaborare con
l'università di California, che collabora con il laboratorio Livermore dove si progettano le armi nucleari. Oggi, di
fronte alle sfide che l'umanità deve affrontare (e la prima è forse il rischio
di un olocausto nucleare), gli scienziati devono
assumersi maggiori responsabilità nei confronti del loro lavoro e delle loro
scelte.
*docente di fisica Univ.
Firenze
http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090122/pagina/05/pezzo/240131/
[Ispettore speciale ONU per i diritti umani nei Territori palestinesi
occupati. Intervento successivo alla stesura del suo Rapporto alle Nazioni
Unite:
http://www.miftah.org/Doc/Reports/2005/G0511608.pdf
]
Da subito, l’occupazione militare discussa nell’ultimo
libro dell’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy
Carter, Palestine: Peace Not Apartheid,
ha scatenato enormi reazioni per l’accusa, ivi contenuta, che Israele pratica
una forma di apartheid nei confronti dei palestinesi.
In quanto cittadino del Sudafrica che in passato ha svolto attività legale
anti-apartheid, e che regolarmente visita i territori palestinesi col compito
di valutare la situazione del rispetto dei diritti
umani per l’ONU, il paragone con l’apartheid in Sudafrica è di particolare
interesse per me.
In apparenza, si tratta di due regimi altamente
diversi tra loro. L’apartheid era un sistema di discriminazione razziale
istituzionalizzata, che la minoranza bianca in Sudafrica impegnava al fine di
mantenere il potere sulla maggioranza di colore. Tale sistema era
caratterizzato dall’interdizione dei diritti politici alle persone di colore, dalla
frammentazione del Paese in aree a popolazione bianca e aree
a popolazione di colore (dette zone-Bantù) e
dall’imposizione alle persone di colore di misure restrittive atte a realizzare
la superiorità dei bianchi, l’assoluta divisione razziale e la sicurezza della
popolazione non di colore.
Il cosiddetto “Pass System”, elaborato per prevenire la libertà di movimento
dei neri e per porre restrizioni al loro ingresso nelle città, veniva rigorosamente potenziato. La popolazione di colore veniva “ricollocata” a forza, e veniva impedito l’accesso a
gran parte dei pubblici servizi e a molteplici forme di lavoro. Il sistema era
rafforzato da un brutale apparato di sicurezza, in cui la tortura giocava un
ruolo assai significativo.
I Territori palestinesi – e cioè Gerusalemme Est, la
West Bank e Gaza – sono sotto occupazione militare
israeliana dal 1967. Sebbene l’occupazione militare sia tollerata e regolata sulla base di leggi internazionali, è comunque considerata
un regime indesiderabile che dovrebbe terminare il più presto possibile. L’ONU
ha condannato per circa 40 anni l’occupazione da parte di Israele,
nello stesso arco di tempo in cui venivano condannati colonialismo e apartheid,
in quanto contraria all’ordine pubblico internazionale.
Viene risposto che l’occupazione isaeliana
è diversa dall’apartheid. Non è elaborata come un regime oppressivo a lungo
termine, bensì come una misura ad interim che garantisce la legge e
l’ordine in un territorio, esito di un conflitto armato e con un accordo di
pace che stenta a venire sottoscritto.
Tuttavia non è tale la natura dell’occupazione della Palestina da parte di Israele. Dal 1967 Israele ha imposto il proprio controllo
sui Territori con tutte le modalità proprie di una potenza coloniale, sotto
l’apparenza di un’occupazione. Ha permanentemente confiscato le più ambìte aree
dei territori stessi – i siti sacri a Gerusalemme Est, Hebron
e Betlemme, le fasce più fertili e a uso agricolo
lungo il confine occidentale e nella valle del Giordano – trasferendovi
stabilmente i propri “coloni” ebrei.
L’occupazione dei Territori palestinesi da parte di Israele mostra molteplici caratteristiche del processo di
colonizzazione. Ma allo stesso tempo possiede molte
delle peggiori caratteristiche dell’apartheid. La West
Bank è stata frazionata in tre aree – nord (Jenin e Nablus), centro (Ramallah) e sud (Hebron) – che
sembrano sempre più ricalcare il modello delle zone-Bantù
in Sudafrica.
Le restrizioni alla libertà di movimento imposte da un rigido sistema di
permessi, rafforzato da qualcosa come 520 checkpoint
e blocchi stradali, ricordano (ma superano per
severità) il “Pass System” dell’apartheid. Il sistema di sicurezza è assai
simile a quello della stessa apartheid, con un numero
superiore a 10.000 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e con denunce
di tortura e trattamenti cruenti.
Molti aspetti dell’occupazione israeliana surclassano quelli del regime
sudafricano dell’apartheid. La distruzione su larga scala, da parte di Israele, delle abitazioni palestinesi, l’opera di
spianamento dei terreni agricoli, le incursioni militari e gli omicidi mirati
di palestinesi superano di gran lunga qualunque pratica consimile avvenuta
sotto l’apartheid in Sudafrica. Nessun muro fu fisicamente eretto per separare
i neri e i bianchi.
Sulle tracce del movimento internazionale contro l’apartheid,
ci sarebbe da attendersi uno sforzo internazionale unitario equivalente, che si
opponga all’abominevole trattamento a cui Israele sottopone i palestinesi.
Invece ci si trova davanti a una comunità
internazionale divisa – da una parte l’Occidente e dall’altra il resto del
pianeta. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non può dare disposizioni di intervento a causa del veto degli Stati Uniti e
dell’astensione dell’Unione Europea. E gli USA, insieme all’UE, agendo di
concerto con l’ONU e la Federazione Russa, hanno di fatto imposto sanzioni nei
confronti della popolazione palestinese per il fatto di avere eletto, secondo standard democratici, un governo che Israele e
l’Occidente ritengono inaccettabile. E’ caduto nel dimenticatoio l’impegno
ufficiale a porre fine all’occupazione, al colonialismo e all’apartheid.
In tali circostanze, gli Stati Uniti non dovrebbero sorprendersi se il resto
del mondo perde la fiducia nell’impegno promesso per la lotta a favore dei
diritti umani. Alcuni americani – giustamente – lamentano il
fatto che altre nazioni sembrano non occuparsi del precipitare delle
violenze in Sudan, nella zona del Darfur. Ma finché gli USA continueranno a mantenere un atteggiamento
doppio rispetto alla questione palestinese, non ci si potrà attendere
cooperazione da altri Paesi nella lotta per i diritti umani.
[tarduzione di http://www.carmillaonline.com/archives/2009/01/002893.html
testo originale in http://www.countercurrents.org/pa-dugard011206.htm]
Rebelion.org-DemocracyNow.org
I fatti sono abbastanza chiari. Possiamo trovarli in una pagina web israeliana,
quella del Ministero degli Affari Esteri d'Israele. (…)
Israele ruppe la tregua con la sua incursione a Gaza il 4 novembre, nella quale
ammazzò sei o sette militanti palestinesi. Arrivati a quel punto (ed ora cito
la pagina web ufficiale israeliana), Hamas rispose
all'attacco israeliano e lanciò di conseguenza i suoi missili.
In quanto al perché, gli avvenimenti sono abbastanza chiari. Secondo il
giornale Ha'aretz,
il ministro della difesa israeliano Ehud Barak incominciò a programmare l'invasione ancor prima che iniziasse la tregua. Di fatto, secondo Ha'aretz
[9.1.2009] i piani dell'invasione ebbero inizio a marzo. E
secondo la mia opinione, le ragioni principali dell'invasione sono due. Primo: aumentare quello che l'Israele chiama la sua capacità di
dissuasione – ossia questo significa semplicemente aumentare la capacità
d'Israele di terrorizzare la regione fino alla sottomissione. A seguito
della sua sconfitta in Libano nel luglio 2006, Israele considerava importante
trasmettere il messaggio che ancora è una forza
militare, capace a terrorizzare chi osi sfidare i suoi ordini.
La seconda ragione principale dell'attacco è che Hamas stava facendo sapere che desiderava giungere ad un accordo diplomatico del conflitto basandosi sui confini esistenti nel 1967. Cioè, Hamas stava facendo sapere che era d’accordo col consenso internazionale, che era in accordo con la maggioranza della comunità internazionale, in cerca di una soluzione diplomatica. Così Israele avrebbe dovuto affrontare quella che gli israeliani chiamano “l’offensiva di pace palestinese”. E per sconfiggere l’offensiva di pace, cercò di smantellare Hamas.
(…) Come documentò lo scrittore David Rose nel numero di aprile del 2008 sulla rivista Vanity Fair, basandosi su documenti interni statunitensi, furono gli Stati Uniti, confabulando con l'Autorità Palestinese, che cercarono di fare un colpo di Stato contro Hamas, e questa li anticipò. Però di questo già non se ne parla e questa informazione non viene neanche smentita.
(…) La questione è se (Hamas) possa governare a Gaza finché Israele mantiene il blocco e impedisce ai palestinesi qualsiasi attività economica. Vero è che il blocco si fece più duro ancor prima che Hamas arrivasse al potere. È che il blocco non ha niente a che vedere con Hamas. Ci furono statunitensi che furono lì, per esempio James Wolfensohn, per tentare di rompere il blocco dopo che Israele ebbe spiegato di nuovo le sue truppe a Gaza.
Il problema è stato sempre lo stesso, Israele non vuole che Gaza si sviluppi, e tantomeno vuole risolvere diplomaticamente il conflitto. (…) tanto i dirigenti di Hamas che stanno a Damasco come quelli che stanno a Gaza hanno fatto ripetute dichiarazioni che sono disposti a giungere ad una soluzione del conflitto se vengono rispettati i confini che la Palestina aveva nel 1967. I fatti sono abbastanza chiari. Di fatto sono palesi.
Ogni anno, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite vota una risoluzione intitolata "Sistemazione pacifica della questione Palestinese", ed ogni anno il risultato della votazione è sempre lo stesso: il mondo intero da un lato e dall’altro Israele, Stati Uniti, alcune isole del Pacifico Meridionale ed Australia. L’anno scorso la votazione fu di 164 voti a favore della risoluzione e 7 contro. Ogni anno dal 1989 (nel 1989, il risultato della votazione fu di 150 a 3) da un lato c’è il mondo intero e dall’altro gli Stati Uniti, Israele e lo Stato-isola della Dominica.
I 22 stati membri della Lega Araba, sono tutti a favore di un accordo fra i due Stati secondo i confini esistenti nel giugno 1967; l'Autorità Palestinese è favorevole ad un accordo dei due Stati secondo i confini esistenti nel giugno 1967; ora anche Hamas è favorevole all’accordo dei due Stati secondo i confini esistenti nel giugno1967. L'unico ostacolo è Israele, appoggiata dagli Stati Uniti. Questo è il problema.
I dati a disposizione dimostrano che Hamas desiderava continuare con la tregua, però solo a condizione che Israele allentasse il blocco. Molto prima che Hamas incominciasse i suoi attacchi con missili contro Israele in rappresaglia per gli attacchi di quest’ultima ai palestinesi, a Gaza si era già in una crisi umanitaria dovuto al blocco. La ex Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Mary Robinson, descrisse che quello che stava succedendo in Gaza era la distruzione di una civiltà. Questo succedeva durante il periodo di tregua.
Che dimostrano questi fatti? Che da più di vent’anni, tutta la comunità internazionale ha provato a trovare un accordo al conflitto secondo i confini esistenti nel giugno 1967 con una soluzione giusta per la questione dei rifugiati. Sono negazionisti tutti questi 164 paesi delle Nazioni Unite? Gli unici a favore della pace sono gli Stati Uniti, Israele, la repubblica di Nauru, la repubblica di Palau, gli Stati Federati di Micronesia, le Isole Marshall e l’Australia? Chi sono i negazionisti? Chi è che si oppone alla pace?
I fatti dimostrano che in ognuno dei temi cruciali che sorsero [nelle negoziazioni] a Camp David, più tardi secondo i parametri stabiliti da Clinton, e poi a Taba, in tutti ed ognuno di quei punti tutte le concessioni vennero dal lato palestinese. Israele non fece nessuna concessione. Tutte ed ognuna delle concessioni vennero dei palestinesi. Questi hanno espressamente ripetuto il loro desiderio di risolvere il conflitto in accordo col Diritto Internazionale.
Il Diritto Internazionale è molto chiaro. Nel luglio di 2004 la più alta istanza giuridica mondiale, la Corte Internazionale di Giustizia, disse che Israele non aveva alcun diritto sui territori di Cisgiordania e Gaza, nè tantomeno su Gerusalemme. Secondo la più alta istanza giuridica mondiale, Gerusalemme Est è territorio palestinese occupato. Secondo la Corte Internazionale di Giustizia tutte gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono illegali in base al Diritto Internazionale.
In relazione
con tutto questo il punto importante ora è che i palestinesi erano disposti a
fare concessioni. Fecero tutte le concessioni. Israele non ne fece nessuna.
Credo sia abbastanza chiaro quello che deve succedere. In primo luogo, Stati Uniti ed Israele devono unirsi al resto della Comunità Internazionale, devono rispettare il Diritto Internazionale. Non credo si debba sottovalutare quest’ultimo punto, è una questione molto importante. Se Israele non rispetta il Diritto Internazionale, la si deve rendere responsabile delle sue azioni, esattamente come qualsiasi altro stato del mondo.
Obama deve essere sincero con il popolo americano. Deve essere onesto in relazione a qual è il principale ostacolo per risolvere il conflitto. Non è il negazionismo; è l’attitudine di Israele, spalleggiata dal governo degli Stati Uniti, a non rispettare il Diritto Internazionale, a non rispettare l'opinione della comunità internazionale.
E la principale sfida per tutti noi, statunitensi, è
vedere attraverso le bugie.
Questo articolo è composto da frammenti
dell'intervento di Norman Finkelstein
nel dibattito celebrato l’8 gennaio scorso in diretta durante il programma di Amy Goodman “Democracy
now”, nel quale partecipò anche l'ex ambasciatore
statunitense di Israele, Martín Indyk.
Norman Finkelstein
è figlio di sopravissuti dell'Olocausto ed autore di
opere come “Immagine e realtà del conflitto palestinese” (Akal2003), e
“L'industria dell'olocausto: riflessioni sullo sfruttamento della sofferenza
ebraica “(Secolo XXI della Spagna 2002.) La sua pagina web è www.NormanFinkelstein.com.
Titolo originale: "Los hechos acerca de Hamas y la guerra contra Gaza"
Fonte: http://www.rebelion.org Link
13.01.2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di LILIANA BENASSI
Il silenzio
mendace di quelli che sanno
"Quando la verità è sostituita dal silenzio”
disse il dissidente sovietico Yevgeny Yevtushenko, "il silenzio è una bugia”. Potrebbe
sembrare che il silenzio sia caduto su Gaza. Gli
involucri dei bambini assassinati, avvolti di verde, insieme alle casse
contenenti i loro genitori fatti a pezzi e le grida di dolore e rabbia di tutti
coloro [rinchiusi] in quel campo di sterminio vicino al mare, possono essere
visti su al-Jazeera e YouTube,
persino intravisti sulla BBC. Ma l’incorreggibile poeta russo non si riferiva a
quelle cose effimere che chiamiamo notizie; si
chiedeva perché coloro che sanno il perché non parlano mai e perciò lo negano.
Questo è particolarmente impressionante all’interno dell’intellighenzia
anglo-americana. Sono i suoi componenti a detenere le
chiavi delle miniere del sapere: le storiografie e gli archivi che ci conducono
al perché.
Essi sanno che l’orrore che regna su Gaza ha poco a che fare con Hamas o, assurdamente, col “diritto di Israele
ad esistere”. Sanno che è vero il contrario: che il diritto della Palestina ad
esistere è stato cancellato 61 anni fa, e che l’espulsione e, se necessaria,
l’estinzione della popolazione indigena era stata pianificata ed eseguita dai
fondatori di Israele.
Sanno, ad esempio, che lo scellerato “Piano D” si è concretizzato nello
spopolamento criminale di 369 città e paesi palestinesi da parte dell’Haganah (l’esercito ebraico) e che l’ingente massacro di
civili palestinesi in luoghi come Deir Yassin, al-Dawayima, Eilaboun, Jish, Ramle e Lydda è presentato dalle
fonti ufficiali come “pulizia etnica”. Quando giunse in uno dei luoghi di
questo massacro, a David Ben-Gurion, il primo
ministro israeliano, fu chiesto da un generale, Yigal
Allon, “Cosa dobbiamo fare
con gli arabi?”. Ben-Gurion, raccontò lo storico
israeliano Benny Morris,
“fece un gesto energico e trasudante indifferenza con la propria mano e disse: ‘Espelleteli’". L’ordine di espellere l’intera
popolazione “senza tenere conto dell’età” fu firmato da Yitzhak
Rabin, futuro primo ministro presentato come
pacificatore dalla più efficiente propaganda mondiale.
La terribile ironia di questo fatto fu affrontata solo en passant, come quando uno dei leader del Partito Mapan, Meir Ya'ari,
notò "come facilmente" i leader israeliani parlassero
di come fosse “possibile e ammissibile prendere donne, bambini e anziani e
riempirne le strade perché questo è l’imperativo della strategia… chi si
ricorda di chi utilizzò questi mezzi contro il nostro popolo durante la
[Seconda] guerra [mondiale]… siamo inorriditi”.
Ogni “guerra” successiva sostenuta da Israele ha avuto lo stesso obiettivo:
l’espulsione della popolazione nativa e il furto di una porzione sempre più
ampia di territorio. La bugia di Davide e Golia, delle vittime perenni, raggiunse il proprio apogeo nel 1967, quando la propaganda
divenne una furia indignata che sosteneva che gli Stati arabi avevano attaccatto per primi. Sin da allora, alcuni rivelatori di
verità per lo più ebrei come Avi Schlaim,
Noam Chomsky, la defunta Tanya Reinhardt, Neve Gordon, Tom Segev,
Uri Avnery, Ilan Pappe e Norman Finkelstein hanno smentito
questo e altri miti e hanno portato a conoscenza di uno stato privato delle
tradizioni umanitarie del Giudaismo, il cui ostinato militarismo è l’essenza di
un’ideologia espansionista, senza legge e razzista chiamata sionismo.
"Sembra", ha scritto lo storico israeliano Ilan
Pappe il 2 gennaio, "che persino i crimini più orrendi come il genocidio
di Gaza, siano trattati come eventi estremi, sconnessi da qualsiasi cosa
avvenuta nel passato e non legati ad alcuna ideologia
o sistema… Come l’ideologia dell’apartheid spiegò notevolmente le politiche
oppressive del governo sudafricano, questa ideologia – nella sua versione più
semplicistica ed in grado di riscuotere consenso – ha permesso a tutti i
governi israeliani nel passato e nel presente di rendere disumana la vita dei
palestinesi, ovunque essi siano e di cercare di distruggerli. I mezzi sono
cambiati da periodo a periodo, da luogo a luogo, così come il modo in cui sono state raccontate queste atrocità. Ma
è evidente un progetto di genocidio”.
A Gaza, la fame obbligata e la negazione degli aiuti umanitari, il contrabbando
di risorse vitali come la benzina e l’acqua, il diniego di medicine e cure, la
sistematica distruzione delle infrastrutture e l’uccisione e la mutilazione
della popolazione civile, il 50 per cento della quale sono bambini, hanno
raggiunto lo standard internazionale della Convenzione sul genocidio. “È
un’affermazione esagerata e irresponsabile” ha chiesto Richard
Falk, il relatore speciale delle Nazioni Unite per i
diritti umani nei Territori Occupati palestinesi ed esperto di diritto
internazionale all’Università di Princeton, “associare il trattamento dei
palestinesi con questo primato nazista criminalizzato di atrocità
collettiva? Penso di no”.
Descrivendo un "olocausto in corso” Falk
alludeva all’istituzione da parte dei nazisti dei ghetti ebraici in Polonia.
Per un mese nel 1943, gli ebrei polacchi prigionieri guidati da Mordechaj Anielewiz respinsero
l’esercito tedesco e le SS, ma la loro resistenza fu infine stroncata e i
nazisti inflissero la loro vendetta finale. Anche Falk è ebreo. L’odierno olocausto in corso, che iniziò con
il Piano D di Ben-Gurion, è entrato nelle sue fasi
finali. La differenza è che oggi si tratta di un progetto congiunto israelo-statunitense. I cacciabombardieri F-16, le bombe
“intelligenti” da 250 libbre GBU-39 acquisiti alla vigilia dell’attacco contro
Gaza, essendo stati approvati da un Congresso dominato dal Partito Democratico,
oltre ai 2.4 miliardi di dollari l’anno di “aiuti” per le attività belliche,
danno a Washington il controllo di fatto. Appare improbabile che il Presidente
eletto Obama non fosse
informato. Esplicito sulla guerra della Russia in Georgia e sul terrorismo a Mumbai, il silenzio di Obama sulla Palestina evidenzia la sua approvazione, che è
ovvia, dati il suo servilismo nei confronti del regime di Tel Aviv e dei suoi lobbisti durante la campagna presidenziale e la nomina di
sionisti come segretario di Stato, capo di gabinetto e principali consiglieri
sul Medio Oriente. Quando Aretha Franklin canterà
"Think”, il suo splendido inno alla libertà
scritto negli anni ’60, in occasione dell’insediamento di Obama il 21 gennaio, sono sicuro che qualcuno con il cuore
impavido di Muntadar al-Zaidi,
il lanciatore di scarpe, griderà: "Gaza!".
L’asimmetria sotto il profilo della conquista e del terrore è chiara. Il Piano
D è oggi l’"Operazione Piombo Fuso”, che è l’incompiuta “Operazione
Vendetta Giustificata”. Quest’ultima fu lanciata dal
Primo Ministro Ariel Sharon nel 2001
quando, con l’approvazione di Bush, utilizzò
degli F-16 contro città e villaggi palestinesi per la prima volta. Lo stesso
anno l’autorevole Jane's Foreign Report rivelò che il
governo Blair aveva riferito il proprio “via libera”
ad Israele ad attaccare la West Bank
dopo che gli erano stati mostrati i piani segreti di Israele [che prevedevano]
un bagno di sangue. È stata tipica del Nuovo Partito Laburista una complicità
duratura e servile nei confronti dell’agonia della Palestina. Tuttavia, il
piano israeliano del 2001, rivelava Jane’s,
aveva bisogno di un attentato suicida come “casus belli” che sarebbe
stato la causa di “numerosi morti e feriti [poiché] la vendetta è un
fattore cruciale”. Questo “spingerebbe i soldati israeliani a distruggere i
palestinesi”. Quello che allarmò Sharon
e l’autore del piano, il generale Shaul Mofaz, il capo di stato maggiore israeliano, fu un accordo
segreto tra Yasser Arafat
ed Hamas per fermare gli attacchi suicidi. Il 23
novembre 2001, gli agenti israeliani assassinarono il leader di Hamas, Mahmud Abu
Hunud, e riuscirono ad ottenere il loro "casus
belli"; gli attacchi suicidi ripresero in
risposta a questa uccisione.
Qualcosa di straordinariamente simile accadde lo scorso 5 novembre, quando le
forze speciali israeliane attaccarono Gaza, uccidendo sei persone. Ancora una
volta ottennero il “casus belli” per la loro propaganda. Un cessate
il fuoco avviato e portato avanti dal governo di Hamas
– che aveva imprigionato coloro che lo avevano violato – fu interrotto
dall’attacco israeliano e razzi di produzione artigianale furono lanciati in
quella che era solita essere la Palestina prima che gli occupanti arabi fossero
“spazzati via”. Il 23 dicembre Hamas propose di
rinnovare il cessate fuoco, ma la farsa israeliana fu tale
che il suo attacco a oltranza contro Gaza era stato, secondo il
quotidiano israeliano Ha'aretz, pianificato
sei mesi prima.
Dietro questo squallido gioco si trova il "Piano Dagan", il cui nome deriva dal generale Meir Dagan, che prestò servizio
con Sharon durante la sua sanguinosa invasione del
Libano nel 1982. Attualmente al vertice del Mossad, l’organizzazione di intelligence israeliana, Dagan è l’autore di una “soluzione” che ha visto la
reclusione dei palestinesi in un ghetto delimitato da un muro che corre nella
West Bank e a Gaza, un campo di concentramento a
tutti gli effetti. L’istituzione di un governo fantoccio a Ramallah
guidato da Mohammed Abbas è
il risultato raggiunto da Dagan, insieme ad una campagna di hasbara
(propaganda) diffusa attraverso i media occidentali in maggioranza servili, se
intimiditi, in particolar modo in America, secondo la quale Hamas
è un’organizzazione terroristica dedita alla distruzione di Israele e da
“condannare” per i massacri e l’assedio del proprio popolo per due generazioni,
parecchio tempo prima della sua creazione. "Le cose non sono mai andate
meglio”, ha affermato il portavoce del Ministro degli Esteri israeliano Gideon Meir nel 2006. "Il
risultato dell’hasbara è una macchina ben
oliata". In realtà, la vera minaccia rappresentata da Hamas
è il suo essere da esempio come unico governo democraticamente eletto nel mondo
arabo, ricavando la propria popolarità dalla resistenza nei confronti
dell’oppressore e tormentatore dei palestinesi. Questo è stato dimostrato quando Hamas sventò un
colpo di stato della CIA nel 2007, un avvenimento che i media occidentali
decretarono come “la conquista del potere da parte di Hamas”.
Similmente, Hamas non è mai descritto come un
governo, tanto meno democratico. Né lo è la sua proposta di una tregua
decennale come riconoscimento storico della “realtà” di Israele
e il sostegno ad una soluzione a due Stati ad una sola condizione: che gli
israeliani obbediscano al diritto internazionale e pongano fine alla loro
occupazione illegale al di là dei confini fissati nel 1967. Come dimostra la votazione annuale presso l’Assemblea Generale dell’ONU,
il 99 per cento dell’umanità condivide questa soluzione. Il 4 gennaio,
il presidente dell’Assemblea Generale, Miguel d'Escoto, ha descritto l’attacco di Israele
contro Gaza come una “mostruosità”.
Quando la mostruosità sarà stata portata a termine e
la gente di Gaza sarà ancor più straziata, il Piano Dagan
prevede quella che Sharon chiamò una “soluzione sul
genere del 1948” – la distruzione di ogni leadership ed autorità palestinese
seguita da espulsioni di massa in “acquartieramenti” sempre più piccoli e forse
infine in Giordania. Questa distruzione della vita istituzionale ed educativa a Gaza è progettata per produrre, ha scritto
Karma Nabulsi, un palestinese esiliato in Gran
Bretagna, “una visione hobbesiana di una società
anarchica: mutilata, violenta, priva di un’autorità, distrutta, spaventata…
Guardate all’Iraq di oggi: è quello che [Sharon] ha
pensato per noi, ed è quasi riuscito a renderlo realtà”.
La dottoressa Dahlia Wasfi
è una scrittrice americana che si occupa della Palestina. Ha una madre ebrea ed
un padre iracheno di religione musulmana: “La negazione dell’Olocausto è
antisemita” ha scritto il 31 dicembre. “Ma non mi
riferisco alla Seconda Guerra Mondiale, a Mahmoud Ahmedinijad (il presidente dell’Iran) o agli ebrei Ashkenaziti. Quello a cui mi sto
riferendo è l’olocausto di cui tutti noi siamo testimoni e responsabili che si
sta compiendo oggi a Gaza e negli ultimi 60 anni in Palestina… Dal momento che
gli arabi sono semiti, la politica israelo-statunitense
non può essere più antisemita di questa". Ha citato Rachel Corrie, la giovane americana che è andata in Palestina a
difendere i palestinesi ed è stata schiacciata da un bulldozer israeliano.
“Sono nel mezzo di un genocidio”, scrisse Corrie,
“che anch’io sto indirettamente appoggiando e del quale il mio governo è
ampiamente responsabile”.
Leggendo le parole di entrambe, sono colpito dall’uso della parola
“responsabilità”. Rompere la bugia del silenzio non è un’astrazione complessa ma una responsabilità impellente che ricade su
coloro che godono del privilegio di una tribuna. Con la BBC intimidita, per
quel che resta del giornalismo, consentendo solamente accesi dibattiti
all’interno di irremovibili confini invisibili, sempre
con la paura della calunnia di antisemitismo. La notizia non raccontata, nel
frattempo, è che le perdite di Gaza equivalgono [in percentuale] a 18000 morti
in Gran Bretagna. Provate ad immaginare, se potete.
Poi ci sono gli accademici, i rettori, i professori e i ricercatori. Perché tacciono mentre vedono un’università venire bombardata e
sentono l’Associazione dei Professori Universitari di Gaza chiedere aiuto? Le
università brittanniche sono, come ritiene Terry Eagleton, nient’altro che
dei “supermercati intellettuali, che sfornano merci note come laureati anziché
frutta e verdura”[1]?
Poi ci sono gli scrittori. In quell’oscuro anno che
fu il 1939, si tenne alla Carnegie Hall di New York
il terzo congresso degli scrittori e quelli come Thomas
Mann ed Albert Einstein inviarono messaggi ed intervennero per assicurarsi
che la bugia del silenzio avesse fine. Secondo una testimonianza, in 3500
riempirono l’auditorium ed un centinaio di persone fu mandato via. Oggi, questa
potente voce carica di realismo e moralità è considerata obsoleta; le pagine
delle riviste letterarie ostentano un’altezzosità ironica di mancanza di attualità; il falso simbolismo è tutto. Per quanto
riguarda i lettori, la loro immaginazione politica e morale deve
essere sedata, non accesa. L’anti-musulmano Martin Amis espresse bene questo in Visiting
Mrs. Nabokov: "Il dominio del sé non è un
difetto, è una caratteristica dell’evoluzione; è come stanno le cose”.
Se questo è lo stato in cui sono le cose, siamo
regrediti come società civilizzata. Perché quello che succede a Gaza è il
momento determinante della nostra epoca, che o concede
all’impunità dei criminali di guerra l’immunità del nostro silenzio, mentre
travisiamo il nostro intelletto e la nostra moralità, o ci dà il potere di
alzare la voce. Per il momento preferisco il mio ricordo di Gaza: del coraggio
e della resistenza delle persone e della loro “umanità luminosa”, come la
definì Karma Nabulsi. Durante il mio ultimo viaggio
da quelle parti, sono stato ricompensato con uno spettacolo di bandiere
palestinesi che sventolavano in luoghi improbabili. Era il crepuscolo e lo
avevano fatto i bambini. Nessuno aveva chiesto loro di farlo. Avevano
realizzato delle aste per le bandiere legando dei bastoni tra
di loro, e un numero ridotto di quei bambini salì su un muro e ressero
la bandiera tra loro, alcuni in silenzio, altri gridando. Fanno questa cosa
ogni giorno quando sanno che gli stranieri se ne
stanno andando, convinti che il mondo non si dimenticherà di loro.
NOTA DEL TRADUTTORE
[1] Nella versione originale le università vengono
paragonate alla nota catena di supermercati inglese Tesco.
John Pilger
è nato e cresciuto a Sydney, Australia e vive attualmente
a Londra. E' stato corrispondente di guerra, regista e commediografo. Ha
scritto da molti paesi e ha vinto due volte il titolo di "Giornalista
dell'Anno", il maggior premio giornalistico britannico, per i suoi lavori
in Vietnam e Cambogia.
Titolo originale: "Holocaust Denied"
Fonte: http://www.antiwar.com/pilger/?articleid=14015
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ANDREA
B.
Inserito: 26 gennaio 2009; ampliato:
16 febbraio 2009
Scienza e Democrazia/Science and Democracy