ANGELO BARACCA
Riprendere il problema del nucleare – nella sua interezza e nella complessità dei suoi intrecci, intrinseci ed esterni – appare oggi particolarmente importante. Da un lato perché la minaccia di un olocausto nucleare, a 61 anni da Hiroshima, si fa purtroppo più allarmante che mai, poiché la potenza imperiale non trova ormai nessun limite nella disperata ricerca di una supremazia militare che possa risultare illusoriamente decisiva per sopperire alla decadente supremazia economica (per non parlare dell’autorità morale!). D’altro lato, per le spinte sempre più insistenti per un rilancio dei programmi di nucleare “civile” per la produzione di energia elettrica. Ma è più che mai necessario riprendere il problema nella sua interezza, superando qualsiasi separazione assolutamente fittizia tra gli aspetti militari e quelli “civili”: sempre di guerra si tratta! Il dual-use (militare/civile) è una caratteristica intrinseca e ineliminabile della tecnologia nucleare1.
La guerra infatti è un fenomeno molto complesso. Non è chiaro se e come si radichi nella natura umana o nelle forme di società. Non vi è dubbio che la logica del profitto del capitalismo e lo spirito di esasperata rapina del neoliberismo, associato alla crescente scarsità delle risorse, hanno scatenato nuove forme di barbarie, che contraddicono drammaticamente la retorica del progresso e il mito progressivo della scienza e della tecnica. La guerra, più che una prosecuzione della politica con altri mezzi, appare sempre più come l’estrema manifestazione della violenza che regola in modo crescente i rapporti sociali ed economici: la “democrazia” si sta trasformando (nel migliore dei casi) in un regime dirigistico, nel quale le scelte sono formalmente dei cittadini, ma nella sostanza imposte da amministratori e politici (o rese incontrollabili dall’ubriacatura delle privatizzazioni), per fini che sfuggono totalmente ai non addetti ai lavori (o ai non compartecipi degli interessi in gioco). Così vengono imposti (con la complicità della cortina fumogena della disinformazione) la TAV, gli inceneritori, altre grandi opere, anche contro mobilitazioni popolari imponenti, accusate tout court di essere “contro il progresso”, o “l’interesse generale”. La criminalizzazione del dissenso e la violenza permeano la società: per una manifestazione contro un inceneritore bastano i vigili urbani, in Val di Susa interviene massicciamente la polizia, quando sono in gioco oleodotti e campi petroliferi divengono necessari gli eserciti e, contro la giusta resistenza di interi popoli, le armi più sofisticate (e non è un caso che le vittime siano sempre più civili inermi!).
È opportuno premettere qualche considerazione sulla natura del rischio nucleare. Se si fa un macabro conteggio delle vittime dei diversi tipi di armamenti, quelli nucleari non sembrano i più letali. Le vere armi di distruzione di massa sono le armi leggere: sono stati compiuti genocidi con il machete! Le vittime dirette delle armi nucleari sono state solo quelle di Hiroshima e Nagasaki. Ritengo opportuno però aggiungere qualche considerazione ulteriore.
Bisogna denunciare uno dei più gravi crimini (di guerra e di pace) contro l’umanità, sul quale l’opinione pubblica è stata tenuta completamente all’oscuro. La tecnologia nucleare, in tutte le sue forme, ha provocato un drammatico inquinamento radioattivo dell’atmosfera terrestre, con conseguenze gravissime sulla salute e sull’ambiente. Fino al 1963 furono eseguiti ben 530 test nucleari nell’atmosfera2, molti nel deserto del Nevada; Francia e Cina li hanno proseguiti ben oltre (193 test a Moruroa e Fangataufa dal 1966 al 1974, con gli ultimi nel 1996), con drammatiche conseguenze sulla salute delle popolazioni locali, fino all’Australia e alla Nuova Zelanda, e dei veterani francesi e britannici. I disastri ad impianti e centri nucleari in Unione Sovietica sono stati apocalittici, e non completamente documentati.
Nel 2002 il Governo USA ha ammesso che tutti i residenti fino al 1963 sono stati esposti al fallout radioattivo di questi test. È documentata la concentrazione dello Stronzio-90 radioattivo nei denti e nelle ossa dei bambini3: dopo il 1963 i livelli di Stronzio-90 diminuirono, ma non scomparvero, per i rilasci dei test cinesi e francesi in atmosfera, dei test sotterranei statunitensi e sovietici, nonché del numero crescente di reattori nucleari attivi4. Gli effetti ritardati appaiono oggi, la popolazione statunitense soffre di un’epidemia di malattie legate alle radiazioni5: mortalità infantile, sottopeso alla nascita, cancri, leucemie, disturbi cardiaci, autismo, diabete, Parkinson, asma, sindrome da affaticamento cronico, ipotiroidismo in neonati, obesità, danni al sistema immunitario; un bambino su 12 negli Stati Uniti è considerato disabile6.
Le autorità sono sempre state consapevoli degli effetti della radioattività sulla popolazione, ma li hanno taciuti e coperti7 con il pretesto della “sicurezza nazionale”: in molti paesi questi effetti sono stati sperimentati su “cavie umane” ignare8. Ma la verità ufficiale – avallata dalla “autorità”, tutt’altro che neutrale, della comunità scientifica − fa acqua da tutte le parti! Sternglass valuta che negli USA l’esposizione alle radiazioni ionizzanti abbia causato tra il 1945 e il 1996 un milione di decessi infantili9. Rosalie Bertell, con una critica dei criteri ufficiali dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) e della Commissione Internazionale sulla Radioprotezione (ICRP), conclude che: “Fino ad 1 miliardo e 300 milioni di persone sono state uccise, mutilate o ammalate dall’energia nucleare dalla sua nascita”10. Se questo apparisse eccessivo, la Commissione del Parlamento Europeo sul Rischio Radiologico nel 2003 ha contestato gli studi condotti dal Governo USA sulle conseguenze delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, denunciando manipolazioni dei dati e sottostime fino ad un fattore mille, e conclude che “l’attuale epidemia di cancro è una conseguenza dell’esposizione al fall-out atmosferico globale dei test del periodo 1959-1963”, predicendo “61.600.000 decessi di cancro, 1.600.000 morti infantili e 1.900.000 morti fetali, [oltre a] una perdita del 10 % della qualità della vita integrata su tutte le malattie e le condizioni di coloro che furono esposti nel periodo alla ricaduta dei test”11. E l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) calcola che tale epidemia globale di cancro potrebbe aumentare del 50% di qui al 202012.
Il cover-up della natura e delle conseguenze dei maggiori incidenti nucleari è stato vergognoso. Secondo la versione “ufficiale” l’incidente di Three Mile Island del 1979 non ha avuto conseguenze sulla salute della popolazione. Ma le ricerche sulle conseguenze dell’incidente sono state poche, discontinue, e limitate all’area più prossima alla centrale, per cui non è possibile dire se l’incidente abbia o non abbia causato vittime. Le conclusioni sono controverse, ma gli aumenti dei numeri di morti infantili, tumori ed altre malattie sembrano inequivocabili13.
Ancora più vergognoso il ventennale dell’incidente di Chernobyl: analisi di autorevoli agenzie14 cercano di accreditare una verità difficilmente credibile, secondo cui l’incidente più grave dell’era nucleare “il reattore bruciò per 10 giorni, liberando 400 volte la radioattività rilasciata dalla bomba di Hiroshima”15 dopo avere contaminato quasi tutta l’Europa, provocherà poche migliaia di tumori, difficilmente distinguibili dagli effetti del fondo naturale di radioattività! Molto più prudenti e critiche sono state autorevoli riviste scientifiche16. Il picco per certi tumori può verificarsi 20 anni, o anche 40 anni dopo; ma denunciano aumenti “di tutti i tipi di malattie” (tra cui anche disturbi psicologici e mentali). Risultano cruciali le controverse valutazioni degli effetti delle piccole dosi: un rapporto commissionato dai Verdi al Parlamento Europeo valuta che la radiazione da Chernobyl potrebbe causare tra 30.000 e 60.000 decessi17. Più radicale il rapporto di Greenpeace18: “nelle sole Bielorussia, Russia ed Ucraina si stima che l’incidente abbia provocato 200.000 morti addizionali tra il 1990 e il 2004. […] Le lacune sostanziali nei dati disponibili, combinate con profondi disaccordi tra le stime sull’incidenza e l’eccesso di certi tumori ed altre malattie, impediscono di trarre qualsiasi valutazione unica, solida e verificabile delle conseguenze sanitarie umane complessive, lasciando questioni fondamentali senza risposta.”
A tutto ciò si aggiungono le conseguenze dell’uso largamente pretestuoso e abnorme dei proiettili ad uranio depleto (DU), che costituisce da un lato lo smaltimento della “coda” del ciclo del combustibile nucleare, ma dall’altro un ballon d’essai per saggiare le reazioni internazionali all’introduzione di nuovi scenari di guerra nucleare (oggi si direbbe “a bassa intensità”) o radiologica, e all’uso di armi nucleari di tipo nuovo che cancellino la fondamentale distinzione tra guerra nucleare e “convenzionale” (altro termine orribile, riferito a strumenti di morte)19. Quello che anche i critici del DU non dicono è che, prima del DU dei proiettili, che quando esplodono rilasciano microparticelle radioattive, l’uranio contenuto nelle bombe, che esplodono a temperature di milioni di gradi, ha rilasciato per mezzo secolo nanoparticelle ancora più persistenti in tutta l’atmosfera, ed inalabili o ingeribili: nelle testate più perfezionate la percentuale di uranio che fissione non arriva al 40 %. L’inquinamento del DU e le sue conseguenze per tutta l’umanità sono molto più gravi di quanto si sia mai pensato.
L’inquinamento radioattivo dell’atmosfera terrestre ha raggiunto livelli insostenibili e provocherà ulteriori conseguenze drammatiche: tutti i programmi nucleari, militari e “civili”, devono venire arrestati: ed anche così dovremo gestire per millenni problemi insolubili di scorie radioattive!
Sorge allora naturale una domanda. Come si spiega questa drammatica, quanto sottovalutata, situazione se il programma di sviluppo del nucleare “civile” è sostanzialmente fallito? Si pensi infatti che in questi 60 anni sono stati realizzati nel mondo circa 500 reattori, a fronte di 130.000 bombe! Ma bisogna aggiungere che il costo dei programmi militari è in realtà enormemente più grande, poiché le bombe necessitano di un sistema integrato di enorme complessità, altissima tecnologia, e che necessita di continui aggiornamenti: lanciatori, sommergibili nucleari, sistemi satellitari e terrestri di allarme precoce, sistemi di allerta e di controllo e comando, addestramento del personale, ecc.
Dietro i progetti e le spinte per il rilancio del nucleare “civile” vi sono evidentemente enormi interessi economici: ma i puri conti economici non tornano. La risposta di fondo è che i programmi nucleari “civili” crescono all’ombra di programmi militari – quelli ufficiali, e più o meno segreti o reconditi – i quali ne costituiscono il supporto e la motivazione reali. Tutti i calcoli economici che vengono presentati sul costo del programmi nucleari “civili” non hanno nessun senso: o meglio, possono al più essere validi per le situazioni specifiche a cui si riferiscono, ma non sono direttamente trasferibili ad altre situazioni (eppure testimoniano sempre di un costo complessivo dei reattori nucleari superiore a quello di centrali elettriche convenzionali20). Ad esempio, i filo-nucleari si riferiscono spesso al basso costo dell’energia elettrica che la Francia produce per via nucleare, ma dimenticano che lo Stato francese gestisce contemporaneamente il sistema delle centrali nucleari ed uno degli arsenali militari più moderni del mondo: vi sono economie complessive, scarico di costi, e sfiderei chiunque a suddividere i costi, dello Stato, tra civile e militare; senza contare che il basso costo dell’energia prodotta dalla Francia è dovuto anche ad una super-produzione. La situazione negli USA, ad esempio, è opposta: il programma militare è dello Stato, mentre l’energia elettrica è prodotta da imprese private, le quali sanno bene che il nucleare non è conveniente, tant’è vero che da un quarto di secolo non ordinano nuove centrali. In Italia il problema sarebbe ancora diverso, poiché dopo il referendum del 1987 sono state smantellate gran parte delle strutture e delle competenze accumulate, e sfiderei chiunque a calcolare il costo per ricostituirle, al di là del costo specifico delle centrali nucleari.
Può risultare utile riassumere schematicamente le principali critiche al nucleare “civile”. Credo che la principale debba essere che con essi, in vista della fine dell’era del petrolio, si continui ad alimentare l’illusione e l’inganno che possiamo comunque continuare a produrre e consumare energia senza limiti (che il pianeta comunque non potrà sopportare all’infinito); del resto, vi sono profondi legami tra gli interessi e i programmi nucleari e petroliferi.
Un altro punto essenziale è che con il nucleare si produce solo energia elettrica, che costituisce una frazione (meno del 20 % in Italia, meno del 17 % nel mondo) dei consumi energetici: ma è anche quella che si presta ai maggiori sprechi, la cui eliminazione, con il risparmio, costituirebbe la risorsa energetica più importante, insieme alle fonti rinnovabili.
La riduzione delle emissioni di CO2 è ampiamente discutibile (varie fasi del ciclo di estrazione, costruzione, smantellamento producono CO2): anche
un obiettivo modesto – evitare con il nucleare un piccolo aumento (0,2o C) del riscaldamento globale per la fine del secolo – richiederebbe di elevare il numero di reattori nel mondo dagli attuali 441 ad almeno 700 per la metà del secolo, e mantenerne stabile il numero per 50 anni. Per coprire la chiusura degli impianti obsoleti, questo richiederebbe la costruzione di 1.200 nuove centrali, ad un ritmo di 17 all’anno. Le necessità di supporto sarebbero impressionanti: una decina di nuovi impianti di arricchimento per il riprocessamento, lo stesso numero di depositi di scorie delle dimensioni di Yucca Mountain se non si facesse il riprocessamento, o centinaia di migliaia di tonnellate di materiale da custodire durante il riprocessamento. […] una rinascita nucleare non vale il rischio21.
(Gli Usa hanno accantonato il riprocessamento del combustibile a favore del “monoutilizzo”: d’altra parte nessun altro paese ha ancora fatto la scelta, e tanto meno avviato la realizzazione di un deposito per le scorie).
L’energia elettronucleare arriverebbe comunque troppo tardi per tamponare la crisi del petrolio. I reattori di nuova generazione, a sicurezza intrinseca, non saranno utilizzabili prima di 20-30 anni! Intanto i rischi sono tutt’altro che finiti: nel 2002 in un reattore dell’Ohio si è sfiorato il disastro (e si accumulano gli incidenti negli impianti giapponesi: quello nell’impianto di riprocessamento di Tokai-Mura fu di una gravità senza precedenti).
Si noti poi la contraddizione tra la strumentalizzazione del pericolo di attentati terroristici e la progettata proliferazione di centrali nucleari: sembra evidente la perfetta sintonia con il processo di militarizzazione della società civile e di svuotamento dei principi demodratici.
Non si pensi però che, per questi motivi, l’industria non si stia organizzando per cogliere l’occasione di fare lauti guadagni: per quanto i programmi nucleari risultino irrazionali ed antieconomici, la privatizzazione del mercato dell’energia attuata in tutto il mondo rende molto probabile la ripresa dei programmi nucleari, sotto la spinta di politiche di incentivi statali, che scaricheranno sulla collettività i costi a lungo termine. In questo quadro le industrie si stanno attrezzando per commercializzare i reattori avanzati di III generazione22, derivati dalle precedenti filiere o più o meno innovativi: negli USA la Westinghouse e la General Electric stanno rinnovando e ampliando i propri impianti per commercializzare rispettivamente i nuovi PWR e BWR; l’europea Areva il reattore EPR (Evolutionary Power Reactor: il primo dovrebbe entrare in funzione in Finlandia nel 2010) e la giapponese Mitsubishi l’APWR (Advanced Pressurized Water reactor). Anche l’industria russa si sta attivamente preparando.
Venendo ora alle armi nucleari, la loro assoluta peculiarità sta nel fatto che una guerra nucleare metterebbe a repentaglio la stessa sopravvivenza dell’umanità! A fronte di questo pericolo vi è un secondo aspetto incredibile: mentre per dichiarare qualsiasi guerra è necessaria una decisione del Parlamento, per scatenare… la fine del mondo basta che il Presidente (di Stati Uniti, o Russia) schiacci il bottone della famosa “valigetta”. Pur se ciò richiede una serie di controlli, ma in una manciata di minuti, molte volte si è arrivati ad “un pelo” dallo scatenare il finimondo per errore23.
Sugli armamenti nucleari, bisogna in primo luogo sfatare un altro luogo comune. Il crollo del blocco sovietico aveva indotto la speranza che gli armamenti nucleari non costituissero più una minaccia e sarebbero presto stati eliminati. Questa tendenza sembrò confermata dai trattati internazionali degli anni novanta: soprattutto la riduzione degli arsenali strategici (Strategic Arms Reduction Treaty, START) e il bando totale dei test nucleari (CTBT). Ma l’illusione durò poco e si manifestò una netta inversione di tendenza (alcuni esempi: nel 1999 il Congresso USA bocciò la ratifica del CTBT, per cui oggi siamo in regime di pura “moratoria” dei test; nel 1998 si verificarono i test nucleari dell’India e del Pakistan; nel 2002 decadde anche lo START-II, che prevedeva le riduzioni più forti delle testate − 3.500 per parte nel 2007 − e soprattutto la distruzione di quelle ritirate).
Nell’opinione pubblica è però stata lasciata ad arte la convinzione che le armi nucleari non sono più un pericolo, se non fosse per quelle “teste calde” degli iraniani e dei coreani. Nulla di più falso! È anzi vero il contrario, e questo è lo scopo principale di questa relazione: il rischio di una guerra nucleare non è mai stato così concreto come oggi!
In primo luogo, si deve ammettere che l’intero regime di non proliferazione costruito negli ultimi 35 anni è praticamente fallito, ed è comunque assolutamente inadeguato. Il TNP stabiliva infatti un regime transitorio, per impedire la diffusione delle armi nucleari, ma il suo cardine era l’Art. VI, che imponeva trattative in buona fede per arrivare al disarmo nucleare totale24: non sarebbe neppure concepibile protrarre all’infinito una situazione così squilibrata, in cui vi è chi ha le armi nucleari, e le usa come minaccia, mentre chi non le ha non può dotarsene, e deve sottostare a severi controlli, dai quali sono invece esenti gli Stati nucleari. Gli impegni di disarmo rimangono assolutamente disattesi; gli Stati nucleari hanno programmi ufficiali di ammodernamento delle testate e di testate nuove almeno fino al 2040! Senza contare quelli che non si conoscono.
È sempre più evidente che i militari e i Governi hanno deciso di non rinunciare mai alle armi nucleari, per le loro caratteristiche uniche, e si apprestano anzi a renderle effettivamente utilizzabili: la guerra nucleare sta diventando una prospettiva concreta.
Le questioni si possono così riassumere:
i militari e gli Stati hanno deciso che non rinunceranno mai alle armi nucleari e si attrezzano per renderle utilizzabili;
gli USA in primo luogo stanno compiendo uno sforzo eccezionale per sviluppare armi nucleari di tipo nuovo25;
l’obiettivo più pericoloso è di cancellare la soglia fondamentale tra armi convenzionali e nucleari;
queste tendenze aprono nuove frontiere alla proliferazione, che trascinano anche gli altri paesi su questa china;
i trattati internazionali sono del tutto inefficaci, o di fatto inoperanti o decaduti.
Nuove dottrine per l’uso delle armi nucleari: un nuovo concetto di deterrenza
Le dottrine relative alle armi nucleari hanno subito infatti un’evoluzione allarmante, a partire dalla Nuclear Posture Review 26 (Npr) del dicembre 2001, un documento molto complesso e forse non completamente inteso: il cardine consiste nel superare l’eccezionalità delle armi nucleari, integrandole nell’intero complesso militare, reso più flessibile rispetto alla rigidità della Guerra Fredda, e rendendone effettivamente possibile l’uso in un contesto più ampio di situazioni di conflitto, in risposta alle minacce nuove che si profilano.
La Npr preludeva allo sviluppo di una dottrina specifica per l’uso delle armi nucleari. La Doctrine for Joint Nuclear Operations27 (Djno) del 2005 prevede l’uso delle armi nucleari anche in azioni militari regionali e di teatro, ed anche a scopo preventivo, contro la minaccia “del potenziale uso avversario di armi di distruzione di massa (Wmd) e per dissuadere potenziali avversari dallo sviluppo di una minaccia convenzionale soverchiante” (questo viola il TNP, che implica l’assicurazione degli stati aderenti a non venire attaccati in nessun caso con armi nucleari). L’idea portante è che una forza militare eccedente rafforza la deterrenza: “Per mantenere l’effetto di deterrenza le forze nucleari degli USA devono mantenere un forte e visibile stato di prontezza [readiness] […] consentendo una risposta immediata a qualsiasi imprevisto attacco contro gli Stati Uniti, le sue forze o alleati”. La soglia per l’uso preventivo delle armi nucleari viene notevolmente abbassata, in circostanze molto generiche ed unilaterali: un avversario “che intende [!] usare” Wmd; un “attacco imminente [!]” con Wmd; installazioni “necessarie all’avversario” per un attacco con Wmd; un attacco soverchiante con armi convenzionali; o addirittura per “dimostrare” la volontà o la capacità degli USA di usare le armi nucleari. Non sfuggiranno le implicazioni destabilizzanti di questo cambiamento di dottrina e di strategia.
Un punto molto rilevante in questo senso è dove il documento considera che “la deterrenza […] è particolarmente difficile contro attori non-statali che usino o cerchino di dorarsi di Wmd. Qui la deterrenza può essere diretta a Stati che sostengono i loro sforzi, così come alle stesse organizzazioni terroristiche”. Vi è però una “probabilità” crescente di un uso deliberato di Wmd da parte di uno “state/nonstate actor nation/terrorist”: “in questi casi la deterrenza, anche basata sulla minaccia di distruzione massiccia, può fallire e gli USA devono essere preparati ad usare le armi nucleari se necessario”. L’ambiguità della dottrina viene rivendicata per mantenere la minaccia: “il mantenimento di un’ambiguità degli USA su quando userebbero le armi nucleari aiuta a creare dubbi nelle menti di potenziali avversari, scoraggiandoli dall’intraprendere azioni ostili. Questa ambiguità calcolata aiuta a rafforzare la deterrenza”.
È importante sottolineare che la possibilità di un fallimento della deterrenza introduce un nuovo tipo di deterrenza28, molto più pericolosa di quella dei tempi della Guerra Fredda. Vi è in questa posizione una contraddizione intrinseca, poiché le maniacali (quanto unilaterali) denunce dei rischi di proliferazione e delle armi di distruzione di massa, la conseguente insistenza sul mantenimento, sulla minaccia e sul possibile uso delle armi nucleari, aggravata dalla strategia della guerra preventiva, producono conseguenze opposte, innescando effetti destabilizzanti ed aumentando anziché diminuire le ambizioni di altri Stati di sviluppare, o di perfezionare, gli armamenti nucleari (così come le aumenta ulteriormente anche il progetto del cosiddetto “scudo spaziale”).
A 61 anni da Hiroshima, il rischio dell’olocausto nucleare è più concreto e grave che mai!
In questo contesto risulta chiaro che l’Iran non è che il pretesto (come ieri lo furono le armi di distruzione di massa dell’Iraq) per tenere sotto tiro una regione strategica, e maschera il tentativo sempre più chiaro di Washington di mettere in soffitta l’intero regime di non proliferazione, di avviare una nuova fase della proliferazione nucleare, e di “sdoganare” finalmente le armi nucleari (possibilmente di nuova concezione), che sono rimaste ad arrugginire troppo a lungo negli arsenali, mentre per i militari risultano così comode e risolutive.
Il fulcro della questione è che l’Iran e la regione in cui si colloca giocano un ruolo geostrategico fondamentale per tutto l’Occidente. L’Europa ha perduto il ruolo centrale svolto nei decenni passati, come territorio sul quale si esercitava la contrapposizione diretta tra i due blocchi della Guerra Fredda, e che sarebbe stato il teatro di un eventuale confronto nucleare. Si sta delineando una nuova polarizzazione mondiale, che non ha al centro una contrapposizione ideologica, ma un problema molto più materiale, la lotta senza quartiere per le risorse del pianeta, energetiche e non. In questo confronto il ruolo centrale sarà giocato dalla regione mediorientale, che si estende dal Mediterraneo all’Afghanistan e al Caucaso.
Ad oriente si assiste alla crescita vertiginosa, al protagonismo crescente, alla voracità di risorse della Cina, ma pure dell’India, che raccolgono circa un terzo della popolazione mondiale. Pechino sta proiettando la propria sete, difficilmente sostenibile, di petrolio in tutte le aree del mondo, ed in particolare verso le repubbliche ex-sovietiche dell’Asia e verso l’Iran: basti pensare al nuovo oleodotto inaugurato il 15 dicembre 2005 tra il Kazakistan e la Cina, al quale dovrà collegarsene in futuro un altro che partirà dall’Iran. La Russia sta attuando un avvicinamento alla Cina, con cui ha costituito la Shanghai Cooperation Organization (Sco) - con Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan (paesi ricchi di depositi di petrolio e di gas) - che nell’ottobre 2005 ha chiesto agli USA di lasciare al più presto le proprie basi militari in Asia centrale.
Si registrano anche i primi segnali della concreta convergenza di interessi tra la Cina e l’India (che ha anch’essa grossi interessi legati al gas naturale iraniano29). Permangono molti fattori di incertezza e di contrasto, ma “le prospettive di cooperazione Sino-Indiana attraverso l’intera catena del petrolio potrebbe aprire la strada per la creazione di un mercato ed un’architettura energetiche Asiatiche - un asse Asiatico del petrolio - con enormi conseguenze per gli Stati Uniti”30, sulle orme della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, soprattutto se questi paesi decidessero di adottare per questo mercato l’Euro (si ricordi che i paesi asiatici nel loro complesso possiedono riserve per duemila miliardi di dollari!). In questo gioco rispunta un ruolo molto importante del nucleare, che Washington cerca di giocare in funzione anti-cinese (v. India, Pakistan, Giappone, nel seguito).
Potrebbe rientrare nel gioco anche l’Afghanistan, che l’intervento militare non ha affatto pacificato, e sembra sul punto di esplodere nuovamente:
Se l’Afghanistan riuscisse ad entrare a pieno titolo nella Sco - e ipotizzandone un rafforzamento anche con la formazione di un’alleanza militare, magari a geometra variabile - si creerebbe un polo panasiatico di notevoli dimensioni economiche31.
Va ricordato inoltre che non di solo petrolio si tratta, ma anche dei colossali interessi legati al traffico della droga32. D’altronde quei Taleban che dovevano essere stati sconfitti stanno assumendo di nuovo un protagonismo travolgente.
La minaccia orientale induce gli Stati Uniti ad intervenire nella regione con l’intento di piegarla ai propri interessi: o, qualora non riesca a controllarla (come sta avvenendo appunto in Afghanistan e in Iraq), per renderla comunque ingovernabile. Il ruolo di Israele risulta cruciale: a conferma del fatto che la costituzione di questo Stato venne imposta all’inizio della fase storica della decolonizzazione, con lo scopo preciso di creare un caposaldo degli interessi imperialisti nella regione (per questo si volle che si dotasse subito di un arsenale nucleare, che rimane la maggiore ipoteca e il vero fattore destabilizzante nella regione). L’intervento di Washington in Medio Oriente, d’altronde, ricalca il modello israeliano, e vi si appoggia direttamente: nei metodi adottati (forse il Mossad gioca nelle vicende irachene un ruolo più importante e diretto della Cia), come nell’obiettivo di divisione dell’Iraq e nei progetti di intervento in Iran. Del resto, la radicalizzazione della situazione irachena sembra andare di pari passo con quella della situazione palestinese. L’attacco forsennato di Israele al Libano si configura militarmente anche come un attacco sul fronte sud-occidentale, essendo gli USA impantanati su quello nord-orientale, e si inquadra nella logica della guerra globale dei neocon e di Bush33.
I paesi europei, a parte divergenze di facciata, sono rimasti subalterni alla politica statunitense, divisi tra loro, incapaci di concepire ed attuare un linea diversa, soprattutto nell’area strategica mediorientale: lo si vede chiaramente per l’Afghanistan, l’Iran, la Palestina, il Libano e la Siria. È evidente la “trappola” costituita dalla missione Unifil in Libano, per cercare di coinvolgere più direttamente l’Europa nel conflitto globale nell’area: anche se, coniugato con le aperture negoziali di Teheran, questo intervento potrebbe fornire delle chances decisive ad un’Europa che si decidesse finalmente a giocare un ruolo autonomo, disinnescando la “mina” mediorientale ed imponendo anche ad Israele una soluzione del problema palestinese.
Questo blocco USA/Israele/Europa/Giappone è infatti percorso da contraddizioni tutt’altro che trascurabili, che potrebbero acuirsi notevolmente quando la “coperta” delle risorse incomincerà a risultare veramente piccola. L’intenzione manifestata da Teheran di aprire una borsa del petrolio in Euro costituisce poi un forte motivo di allarme per Washington34: il conflitto tra le aree del Dollaro e dell’Euro sembra d’altra parte destinato ad esplodere prima o poi.
L’intera partita è completamente aperta, per la presenza di tanti interessi contrastanti e spesso incompatibili, come il gioco delle componenti sciita e sannita in Iraq; l’appoggio ai curdi iracheni, tradizionalmente osteggiati dalla Turchia; l’emergere di “un nuovo filone islamista-resistenziale, assai diverso sia dalla tradizione pietista e in alcuni casi filo-Usa della vecchia Fratellanza musulmana, sia da quella Jihadista alla al Qaida”35 (filone rafforzato anche dalla vittoria elettorale di Hamas in Palestina). Paesi tradizionalmente alleati di Washington, come la Turchia e l’Arabia Saudita, cominciano a sentirsi schiacciati in questa partita e cercano di smarcarsi, giocando un sia pur timido ruolo indipendente. Mentre l’Iran rafforza la sua influenza diretta in Iraq attraverso la componente sciita, e su tutta la regione per lo stallo statunitense e israeliano36.
Gli Usa si trovano di fronte a scelte cruciali e a tentazioni pericolosissime. Il pressing su Teheran ricorda il copione già visto per l’Iraq, ma riflette un grave imbarazzo. Washington - dopo l’uragano Katrina, di fronte alle crescenti difficoltà economiche, nonché di reclutamento delle proprie truppe - non può permettersi un attacco di terra, che porterebbe a conseguenze ben più gravi dell’impantanamento in Iraq: d’altra parte, non può permettersi di stare a guardare a lungo, brandendo solo minacce, che hanno l’effetto di compattare il fronte interno. Per questo ha fatto, insieme ad Israele, i preparativi per un attacco nucleare37, con l’illusione di danneggiare profondamente gli impianti di ricerca nucleare e di ritardare di almeno 5 anni i programmi iraniani. Ma l’Iran non è l’Iraq, il paese si prepara ad una ritorsione, le sue truppe potrebbero oltrepassare il confine iracheno ed attaccare le truppe della coalizione, l’estensione del conflitto sarebbe incontrollabile, potrebbe mietere migliaia di vittime e sfociare in un olocausto nucleare38.
È opportuna una valutazione dettagliata del programma nucleare iraniano.
L’Iran aderisce al TNP, che venne concepito proprio con lo scopo asimmetrico di promuovere la commercializzazione dell’energia nucleare per usi civili, impedendo però la proliferazione delle armi nucleari: obiettivo intrinsecamente contraddittorio dato l’ineliminabile carattere dual-use della tecnologia nucleare39. Così il TNP sancisce per tutti i paesi il diritto di sviluppare programmi nucleari civili, sotto il controllo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), e per gli Stati nucleari il dovere di cooperare al loro sviluppo. Altri paesi lo hanno fatto senza che vi siano state rimostranze: il Brasile (che ha sviluppato fino agli anni ’80 programmi nucleari militari! E li ha arrestati proprio alla soglia della realizzazione materiale della bomba, ma possiede tutto il know how) ha realizzato il processo di arricchimento dell'uranio, e ha in programma addirittura di commercializzarlo. La vicenda iraniana ricorda quella dell'Iraq anche per il fatto che fu Washington negli anni ’60 ad offrire allo Scià un faraonico programma di centrali nucleari, con la prospettiva di realizzare anche la bomba40. Anche l'Europa ha uno scheletro nell'armadio, l'associazione dell'Iran al 10% nel consorzio europeo Eurodif di arricchimento dell'uranio: oggi congelata41, ma che potrebbe forse spiegare le goffe mosse attuali della UE e la sua subalternità agli USA. In ogni caso, è sconcio che a trattare con l'Iran per la UE siano Gran Bretagna e Francia, che sono in stato di clamorosa violazione del TNP non avendo ottemperato all'obbligo di disarmo nucleare, e la Germania, che può realizzare la bomba in tempi brevissimi.
Teheran in effetti ha compiuto qualche infrazione, nascondendo alle ispezioni della IAEA alcuni impianti nucleari (ma chi si è scandalizzato quando si apprese che anche la Corea del Sud aveva eseguito esperimenti segreti di arricchimento, violando il TNP?). Poi li ha aperti alle ispezioni, e fino ad oggi la IAEA afferma di non avere trovato indizi di attività militari, anche se non è ancora in grado di escluderle (ammesso che questo sia mai possibile, se è vero che tanti paesi, aderenti al TNP, hanno avuto nel passato programmi nucleari militari segreti: addirittura la Svizzera e la Svezia, ma anche l'Italia stando alle memorie di Lelio Lagorio42).
Quali sono realmente gli scopi e lo stato del programma nucleare iraniano?43 La notizia data in modo clamoroso dalla dirigenza iraniana ad aprile 2006 dell’ottenimento dell’arricchimento è stata un coup de théâtre. Ammesso che sia vero, con 164 centrifughe potrebbe avere ottenuto l’arricchimento di qualche grammo di uranio al 3%: ma la strada è in salita, occorrerà molto tempo per arricchirne grosse quantità, anche a questo arricchimento, insufficiente per usi militari. E comunque il passaggio ad un arricchimento superiore al 90% non appare così immediato come si tende a far pensare; e può essere difficile da realizzare in assoluto segreto, per l'entità delle operazioni, delle centrifughe (3.000 – 5.000) e degli impianti necessari.
Non si può escludere ovviamente che l’Iran abbia programmi nucleari segreti, ben nascosti e protetti in gallerie sotterranee: se tali programmi esistessero, dovrebbero senza dubbio venire arrestati e smantellati. Ma nulla può giustificare un attacco militare all’Iran, tantomeno con armi nucleari!44 Esso risulterebbe comunque in larga misura inefficace per neutralizzare eventuali programmi di questo tipo e distruggere impianti sotterranei, mentre mieterebbe sicuramente migliaia di vittime45, poiché il proposito è semmai di ritardare di alcuni anni il programma decimando i tecnici nucleari iraniani. In ogni caso, il “pericolo” denunciato da Washington è assolutamente fantasioso: l’Iran non avrebbe mai la possibilità di raggiungere il territorio americano, e se anche avesse realizzato missili capaci di colpire Israele, un eventuale attacco sarebbe assolutamente suicida (Israele ha munito di missili nucleari ben cinque sommergibili forniti dalla Germania, che sarebbero capaci di una ritorsione devastante).
È probabile che l’accanimento della dirigenza iraniana sul programma nucleare abbia più un ruolo di politica interna. Teheran nutre anche ambizioni di giocare un ruolo di potenza regionale: esse sono state sistematicamente frustrate dall’Occidente, ma lo scacco subito dall’attacco di Israele in libano le hanno di fatto rafforzate46. L’Iran potrebbe comunque ambire realmente a produrre energia elettronucleare: la sua ricchezza di petrolio e gas può non essere un’obiezione valida47, dati l’approssimarsi del picco di estrazione48 e la necessità per il paese di mantenere le sue riserve per il commercio esterno (tra l’altro, l’Iran ha capacità di raffinazione molto limitate).
D’altra parte, le traversie dei negoziati con l’Iran dimostrano la pretestuosità del caso49. Nel maggio del 2003 – secondo Flynt Leverett, allora alto funzionario del Consiglio di sicurezza nazionale dell'amministrazione Bush – il governo riformista di Mohammad Khatami propose un'agenda per un processo diplomatico volto a risolvere tutte le divergenze bilaterali tra gli USA e l'Iran: queste divergenze, ha scritto il Financial Times, comprendevano temi come "le armi di distruzione di massa, una soluzione a due stati per il conflitto israelo-palestinese, il futuro dell'organizzazione libanese Hezbollah e la collaborazione con l’ONU in materia nucleare". L'amministrazione Bush non solo rifiutò, ma impartì anche una solenne lavata di capo al diplomatico svizzero che si era fatto mediatore dell'offerta. Un anno dopo l'UE e l'Iran raggiunsero un accordo: Teheran avrebbe sospeso temporaneamente l'arricchimento dell'uranio, e in cambio l'Europa avrebbe fornito assicurazioni che USA e Israele non avrebbero attaccato il paese. Ma davanti alle pressioni statunitensi l'UE ha fatto marcia indietro e l'Iran ha ripreso i programmi di arricchimento.
Nel 2003 Mohamed El Baradei, capo dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica, ha avanzato una proposta ragionevole per eliminare le ambiguità dell'arricchimento dell'uranio: sottoporre a controlli internazionali tutta la produzione e la lavorazione di materiale utilizzabile per armamenti nucleari. Questo, secondo El Baradei, avrebbe dovuto essere il primo passo verso la piena attuazione della risoluzione ONU del 1993 per un Trattato per la proibizione dei materiali fissili (Fissban, nella sigla inglese). Ma fino ad oggi l’Iran è stato l’unico Stato ad accettare la proposta di El Baradei, in un'intervista a febbraio 2006 al capo dei negoziatori iraniani sul nucleare, Ali Lariani (ritorneremo sulla questione del Fissban).
Se dunque l’Iran è concretamente un pretesto (il vero arsenale che destabilizza il Medio Oriente è quello di Israele, che da 40 anni è il “segreto di Pulcinella”), ben altri segnali dimostrano la volontà di Washington di distruggere il regime di non proliferazione.
In questa direzione va inequivocabilmente la “partnership nucleare” lanciata spudoratamente e con grande scalpore mediatico dal Presidente Bush con l’India (ma non con il Pakistan, essendo il suo regime meno affidabile): a parte la sua evidente funzione anti-cinese, essa costituisce soprattutto un ulteriore strappo al TNP di gravità senza precedenti, con il riconoscimento dello status nucleare di un paese al di fuori del trattato, stipulando addirittura un accordo di fornitura di tecnologia nucleare: tecnologia “civile”, of course, se non fosse che proprio sulla base di questa l’India ha realizzato la bomba! Questo equivale a fare apertamente del TNP carta straccia. È il caso di ricordare che le testate realizzate dall’India e dal Pakistan si contano ormai a decine, sono di tipi piuttosto sofisticati, e il loro sviluppo è avvenuto con profonde complicità internazionali.
La ciliegina sulla torta, o l’impudica foglia di fico, su questo mostro giuridico (e logico) è costituita dal fatto che l’India accetterebbe i controlli della IAEA nei suoi 14 reattori “civili”: mentre nei restanti 8 reattori - militari! - potrà fare tutto quello che le pare! Si sa che i dirigenti indiani hanno in programma la fabbricazione di centinaia di testate. Sia chiaro, la IAEA venne creata nel 1957, in connessione con il lancio dell’energia nucleare con l’Atomo per la Pace. Con il TNP, la IAEA ispeziona gli impianti dei paesi non nucleari aderenti al trattato, ma non ha obblighi di controlli agli impianti civili dei paesi nucleari aderenti: ma la ratio di questa limitazione stava originariamente nel fatto che gli impianti militari esistevano solo nei paesi nucleari aderenti al trattato, ed obbligati quindi a smantellare i propri arsenali, e di conseguenza, si suppone, anche detti impianti. Tutto il TNP è scandalosamente asimmetrico e ingiusto, una volta caduta, o disattesa, la clausola decisiva dell’obbligo del disarmo. La IAEA non ha mai messo piede negli impianti nucleari di Israele; né della Francia e della Cina, che aderirono solo nel 1992 quando già erano stati nucleari (cosa già peregrina, imponendo appunto il trattato il disarmo).
L’intento di Washington di mettere in soffitta il TNP è evidente.
La proliferazione latente: Giappone (Germania… e altri)
Ma il pericolo più concreto è costituito oggi dal Giappone50. Pochi sanno, o ricordano, che, quando si trattò di aderire al TNP, vi fu un dibattito negli ambienti governativi tanto in Germania quanto in Giappone per assicurarsi che l’adesione non avrebbe sbarrato in modo definitivo la strada a dotarsi di armi nucleari: vennero formulate riserve (ovviamente segrete) che costituiscono uno dei punti deboli più critici del trattato51. I due paesi sono tra quelli che hanno accumulato i più ingenti quantitativi di plutonio dal riprocessamento del combustibile esaurito dei loro reattori nucleari (rispettivamente 24 e 40-45 tonnellate: per fare una bomba ne occorrono pochi chili, a seconda della sofisticazione): va ricordato che il plutonio costituisce l’esplosivo nucleare ideale, e che - anche se il plutonio generato nei reattori civili (reactor-grade) non ha le caratteristiche del plutonio militare (weapon-grade) - è assolutamente certo che può essere utilizzato per le bombe; gli USA e la Gran Bretagna hanno ufficialmente esploso testate con plutonio riprocessato. Il Giappone e la Germania sono dunque due paesi (ma non i soli) che possiedono i materiali e le capacità tecnico scientifiche per produrre armi nucleari sofisticate in tempi brevissimi52 (proliferazione latente, o stand-by).
In Giappone è in corso una vera escalation: prende sempre più forza la volontà di rivedere la costituzione post-bellica in senso militarista53, e parallelamente di realizzare armi nucleari. Questa escalation ha avuto un’impennata con l’inaugurazione nel marzo scorso del nuovo impianto di riprocessamento da 21 miliardi di dollari di Rokkasho-Mura, che separerà 8 tonnellate di plutonio all’anno! Tra pochi anni il Giappone diventerà il paese che possiede il maggiore quantitativo di plutonio al mondo. Per farne cosa? Da anni Tokyo sostiene che ha bisogno di plutonio per utilizzarlo come combustibile nei reattori veloci, e mescolato con l’uranio (MOX: Mixed Oxide, con il 3-10 % di plutonio) nei reattori convenzionali (termici): ma il programma dei reattori veloci è fermo, e l’uso del MOX ha incontrato difficoltà che non lo hanno ancora reso possibile54. Perché dunque continuare ad accumulare plutonio? I sospetti sono più che legittimi. Washington, nella sua strategia di contenimento della Cina, legittima questo sviluppi e li rafforza con il nuovo accordo strategico stipulato con Tokyo55.
Vi è poi da sottolineare una circostanza ulteriore molto grave, ma poco nota, sui controlli della IAEA sul plutonio: le migliori tecniche di controllo oggi disponibili sono infatti soggette ad incertezze ed errori intrinseci di qualche percento56 (v. Scheda). Potrebbe sembrare poco, ma si tratta di tonnellate di plutonio: in un impianto come quello di Rokkasho sarà assolutamente impossibile rivelare la scomparsa, o il mancato rendiconto, di una cinquantina di chili di plutonio all’anno57, quando ne bastano pochi chili per realizzare una bomba. Altro che i rischi dell’Iran! Nell’impianto di riprocessamento britannico di Sellafield nel 2004 si verificò una fuga della soluzione acida del combustibile irraggiato, che venne rivelata solo dopo 8 mesi, quando erano già usciti 83 mila litri di soluzione contenenti 160 kg di plutonio!58
1 L’arricchimento dell’uranio (U), al 2-3 % nell’isotopo fissile U-235, serve per i reattori nucleari “civili”; nella reazione a catena, i nuclei di U-238 colpiti da un neutrone si trasformano in plutonio (Pu), che costituisce l’esplosivo nucleare ideale. Per realizzare armi nucleari vi sono quindi due strade, entrambe legate strettamente alle tecnologie “civili”: l’arricchimento dell’U oltre il 90 % (la strada che seguì il Pakistan), o la separazione del Pu attraverso il riprocessamento del combustibile esaurito (come fece l’India).
2 Nel 1963 vennero messi al bando i test nucleari nell’atmosfera (alcuni paesi li proseguirono). Con questo non si vuol dire che i test sotterranei successivi non abbiano avuto rilasci radioattivi e conseguenze sanitarie e ambientali (è stata osservata, ad esempio, una correlazione tra le esplosioni nucleari e l’occorrenza di terremoti). È interessante menzionare il fatto che la consapevolezza scientifica dei danni alla salute e all’ambiente delle radiazioni ionizzanti e dei test nucleari risale agli albori dell’era nucleare: il fatto che la gente sia stata tenuta completamente all’oscuro si configura ancor più come un vero crimine. Fino dal 1943 gli scienziati Conant, Compton e Urey inviarono al Gen. Groves (Direttore del Mahnattan Project) un pro-memoria, tenuto allora segreto, su “Uso di materiali radioattivi come ordigni militari” (http://www.mindfully.org/Nucs/Groves-Memo-Manhattan30oct43a.htm). Se ne raccomandava appunto l’impiego sul campo di battaglia, specificando anche che le sottili particelle radioattive passerebbero attraverso tutte le maschere antigas, anticipando così l’impiego attuale dell’Uranio Impoverito (DU): non a caso il suo uso sconsiderato è avvenuto solo nel 1991, non appena il crollo dell’URSS ha distrutto l’equilibrio bipolare che aveva retto durante la Guerra Fredda. Anche per i test nucleari, è notevole che fin dal 1958 lo scienziato sovietico Sakharov aveva stimato che circa 10.000 persone avrebbero contratto tumori, mutazioni genetiche ed altre malattie per ogni megatone di potenza di un’esplosione nucleare in atmosfera, proprio per le piccole dosi: “Radioactive carbon from nuclear explosions and nonthreshold biological effects”, Soviet Journal Atomic Energy, Vol. 4, 6, 1958 (tradotto e riprodotto in Science & Global Security, Vol. 1, 1990, pp. 175-86).
3 H.L. Rosenthal et al., “Incorporation of fallout strontium-90 in deciduous incisors and foetal bone”, Nature, Aug. 8, 1964, Vol. 203, N. 4945, pp. 615-6; H.L. Rosenthal et al., “Strontium-90 content of first bicuspids”, Nature, April 9, 1966, Vol. 210, N. 5032, pp. 210-12; H.L. Rosenthal, “Accumulation of environmental Sr-90 in teeth of children”, Hanford radiobiology Symposium, Proceedings, 1969, pp. 163-171.
4 Radiation and Public Health Project, “Environmental radiation from nuclear reactor effects on children’s health from startups and shutdowns”, Press Conference, April 20, 2001, e “Environmental radiation from nuclear reactors and childhood cancer in Southeast Florida”, 2003 (http://www.radiation.org/florida.html); J. Mangano, “An unexpected rise of Strontium-90 in U.S. deciduous teeth in the 1990s”, The Science of The Total Environment, Vol. 317 (1-3), December 30, 2003, pp. 37-51 (http://www.radiation.org/); J. Mangano, “Improvements in local infant health after nuclear reactor closing”, Environ. Epid. & Toxic., 2 (1-4), 2000; J. Gould, “Explanation of black infant mortality rates”, The Black World Today (http://www.tbwt.org/home/).
5 Lauren Moret, “Depleted uranium weapons, the war against earth”, World Depleted Uranium Weapons Conference: The Trojan Horse of Nuclear War, Hamburgh, Germany, October 16-19, 2003 (http://www.traprockpeace.org/wuwc_reader4_civilians.pdf): questa relazione, da cui ho tratto molti riferimenti [la richiamerò con il simbolo LM], va molto al di là del problema del DU, ed è molto ampia e approfondita.
6 D.V. Conn, “US counts one in 12 children disabled”, Washington Post, 7/6/02 [LM].
7 R. Bertell, No Immediate Danger: Prognosis for a Radioactive Earth, The Book Publishing Company, Tennessee, 1985; G. Greene, The Woman Who Knew Too Much: Alice Stewart and the Secret of Radiation, Univ. Of Michigan Press, 1999.
8 Si veda ad esempio: A. Baracca, A Volte Ritornano, Il Nucleare. La Proliferazione Nucleare Ieri Oggi e Soprattutto Domani, Milano, Jaca Book, 2005, Paragr. 3.6.
9 E.J. Sternglass, Secret Fallout: Low Level Radiation from Hiroshima to Three Mile Island, New York, McGraw-Hill, 1981; e successiva comunicazione riportata da Lauren Moret [LM, fig. 2].
10 R. Bertell, “Victims of the Nuclear Age”, The Ecologist, November 1999, pp. 408-411 (http://www.ratical.org/radiation/NAvictims.html).
11 ECRR 2003 Recommendations of the European Committee on Radiation Risk, European Committee on Radiation Risk, Regulator’s Edition, Brussels, 2003, pp. 182-183 (http://www.euradcom.org).
12 World Health Organization Press release: “Global cancer rates could increase by 50% to 15 million by 2020”, Ginevra, 2 Aprile 2003. Bisogna, a questo proposito, denunciare l’accordo gravissimo del 1959 tra la IAEA e l’OMS, per cui nessun rapporto sugli effetti sanitari del nucleare può uscire senza l’avvallo della IAEA.
13 J. Mangano, “Three Mile Island: health study meltdown”, Bulletin of the Atomic Scientists, Vol. 60, n. 05, September/October 2004, pp. 30-35; M. C. Hatch et al., "Cancer Near the Three Mile Island Nuclear Plant," American Journal of Epidemiology, vol. 132, no. 3, pp. 397-412 (1990); e "Cancer Rates After the Three Mile Island Nuclear Accident and Proximity of Residence to the Plant," American Journal of Public Health, vol. 81, no. 6, pp. 719-24 (1991). S Wing et al., "A Re-Evaluation of Cancer Incidence Near the Three Mile Island Nuclear Plant," Environmental Health Perspectives, vol. 105, no. 1, pp. 52-57 (1997). M. Susser, "Consequences of the 1979 Three Mile Island Accident Continued: Further Comment," Environmental Health Perspectives, vol. 105, no. 6, pp. 566-67 (1997). E. O. Talbott et al., "Mortality Among the Residents of the Three Mile Accident Area: 1979-1992," Environmental Health Perspectives, vol. 108, no. 6, pp. 545-52 (2000); e "Long-Term Follow-up of the Residents of the Three Mile Island Accident," Environmental Health Perspectives, vol. 111, no. 3, pp. 341-48 (2003).
14 OMS e IAEA: Chernobyl Forum Report: Chernobyl’s Legacy, Health, Environmental and Socio-Economic Impacts
(http://www-pub.IAEA.org/MTCD/publications/PubDetails.asp?pubId=7382; http://www.who.int/mediacentre /factsheets/fs303/en/print.html;
http://www.IAEA.org/Publications/Booklets/Chernobyl/chernobyl.pdf )
15 R. Stone, “Return to the inferno: Chernobyl after 20 years”, Science, Vol. 312, 14 April 2006, p.180-82 (www.sciencemag.org). Anche se bisogna sottolineare la differenza tra Hiroshima e Chernobyl: “La bomba atomica produsse in gran parte esposizione a tutto il corpo [esterna] da raggi gamma e neutroni, esponendo uniformemente tutti i tessuti. L’esposizione di Chernobyl fu, a parte per coloro che lavoravano vicino al reattore, in gran parte interna, da isotopi radioattivi nel fallout, cosicché i diversi tessuti hanno ricevuto dosi differenti” (D. Williams e K. Baverstock, “Too soon for a final diagnosis”, Nature, Vol. 440, 20 April 2006, pp. 993-4). È molto importante osservare che gli effetti biologici dei diversi tipi di radiazioni sono completamente diversi in caso di esposizione esterna o interna, cioè quando i radionuclidi vengono assunti dall’organismo o inalati: nel secondo caso, le radiazioni meno dannose per esposizione esterna, perché assorbite dagli strati cutanei (come le particelle alfa), possono risultare le più dannose.
16 Gli articoli di Nature e Science citati nella nota 15, e ancora M. Peplow, “Counting the dead”, Nature, cit, pp. 982-3.
17 I. Fairlie e D. Sumner, TORCH: The other report on Chernobyl
(http://www.greens-efa.org/cms/topics/dokbin/118/118499.the_other_report_on_chernobyl_torch@en.pdf).
Low Level Radiation Campaign, Another Redundant Armchair Critique (ANORAC) (http://www.llrc.org/health/subtopic/ fairliechernobyl.htm).
18 Greenpeace, The Chernobyl catastrophe, consequences on human health, Aprile 2006 (http://www.greenpeace.org/international/press/reports/chernobylhealthreport ).
19 Occorre precisare che non si tratta solo delle microparticelle radioattive liberate dall’esplosione dei proiettili nelle zone di guerra (che si espandono però in zone molto più ampie), che quando vengono inalate o ingerite liberano le particelle alfa all’interno dei tessuti: particelle molto più piccole, volatili e persistenti vengono infatti liberate dall’uranio nelle testate nucleari, le cui esplosioni raggiungono milioni di gradi.
20 Si vedano ad esempio l’autorevole: The Future of Nuclear Power: An Interdisciplinary MIT Study,, Massachusetts Institute of Technology, 2003 (http://web.mit.edu/nuclearpower); e il recente J. Giles, “When the price is right”, Nature, Vol. 440, 20 April 2006, pp. 984-6.
21 T. Cochran, in: E. Marshall, “Is the friend atom poised for a comeback?”, Science, Vol. 309, 19.08.2005, p. 1168.
22 Marsha Freeman, “Industry gets ready to build new nuclear power plants”, Executive Intelligence Review, July 21, 2006
(http://www.larouchepub.com/eiw/public/2006/2006_20-29/2006-29/pdf/55-57_629_econuke.pdf#search=%22
Marsha%20Freeman%20Industry%20ready%20build%20nuclear%20plants%22);
“Russia embarks on its global nuclear power plans”, Executive Intelligence Review, March 31, 2006 (http://www.larouchepub.com/ other/2006/3313russ_nuke_plans.html).
23 Appena 10 anni fa il (decrepito) sistema russo di allarme confuse un razzo meteorologico lanciato dalla Norvegia con un missile nucleare lanciato da un sommergibile: la rappresaglia nucleare venne fermata dal Presidente Yeltsin all’ultimo istante.
24 Il testo completo del TNP, commentato, è riprodotto in: A. Baracca, A Volte Ritornano …, cit., App. 4.1 e Cap. 4.
25 Per una panoramica si può vedere A. Baracca, cit., soprattutto il Cap. 9.
26 Il tema è stato esaminato su Giano da Gabriele Garibaldi, “La crisi del Trattato di non-proliferazione e le guerre americane del futuro”, Vol. 51, 2005, p. 55-68. Il mio saggio già citato, A Volte Ritornano: il Nucleare, contiene un’illustrazione ( Par. 7.7), e la traduzione dei passi più significativi e commentati (Appendice 7.3).
27 http://www.bits.de/NRANEU/docs/3_12fc2.pdf; http://www.nukestrat.com. Per un’esposizione commentata si veda H.M. Kristensen, The role of U.S. nuclear weapons: new doctrine falls short of Bush pledge, Arms Control Association, settembre 2005:
http://www.armscontrol.org/act/2005_09/Kristensen.asp?print.
Anche: http://www.nukestrat.com/us/jcs/jp3-12_05.htm
28 H.M. Kristensen, Preparing for the failure of deterrence, “Sitrep”, Vol. 65, n. 6 (November/December 2005), pp. 10-12: http://www.rcmi.org/archives/sitrep_november_2005.pdf .
29 Narsi Ghorban, “Il gasdotto delle meraviglie”, Limes, “L’Iran tra Maschera e Volto”, 2005, n.5, pp 123-28.
30 Siddharth Varadarajan, India, China and the Asian axis of oil: new Sino-Indian partnership in oil and gas could serve as the foundation for an Asian Energy Union (The Hindu, 24 gennaio 2006): www.globalresearch.ca .
31 Franz Gustincich, “Herat nel grande gioco”, Limes, “Lost in Iraq”, 2005, n. 6, cit., p. 248. Per un’analisi generale: Paul Rogers, Iraq, Afghanistan and now Iran once again, International Security Monthly Briefing, gennaio 2006, www.oxfordresearchgroup.org.uk.
32 V. ad esempio Ramita Navai, “Le vie della droga”, in Limes, “L’Iran tra Maschera e Volto”, 2005, n.5, pp 79-87.
33 M. Chossudovsky, “The war on Lebanon and the battle for oil”, July 26, 2006
(http://www.globalresearch.ca/index.php?context=viewArticle&code=CHO20060726&articleId=2824); “Triple alliance: the US, Turkey, Israel and the war on Lebanon”, August 7, 2006
(http://www.indymedia.org.uk/en/2006/08/347113.html );
“The next phase of the Middle East war”, September 7, 2006
34 Ugo Bardi, La Borsa Iraniana del Petrolio in Euro, Uruknet.info. Vedi però F. William Engdahl, La borsa petrolifera dell’Iran non è una casus belli, www.GlobalResearch.ca, trad. it. in www.comedonchisciotte.org.
35 Stefano Chiarini, “Le resistenze islamo-nazionali contro al Qaida”, il manifesto, 28 gennaio 2006, p. 9. Chiarini appare uno dei più profondi conoscitori ed analisti della situazione mediorientale.
36 V. ad esempio l’analisi di G. Mascolo e B. Zand, “The spider’s web: Iran’s growing power in the Middle East”, Spiegel, 29 agosto 2006 (http://www.spiegel.de/international/spiegel/0,1518,434077,00.html ).
37 M. Chossudovski, Nuclear Attack against Iran, 3 gennaio 2006: www.globalresearch.ca. Time ha dedicato la copertina: “What war with Iran would look like”, 17 settembre 2006 (http://www.cnn.com/2006/WORLD/meast/09/17/coverstory.tm.iran.tm/index.html?section=cnn_topstories).
38 P. Rogers, Iran: Consequences of a War, Oxford Research Group, February 2006:
39 Per tutti gli approfondimenti e le informazioni tecniche di base sugli armamenti nucleari rimando al mio libro: A Volte Ritornano …, cit.
40 Rimandiamo ai saggi di Dominique Lorentz, Affaires Nucleaires, Paris, Les Arénes, 2001 (da me ampiamente recensito su Giano, 42, 2002, p. 168-73) e Secret Atomique, La Bombe Iranienne, Paris, Les Arènes, 2002. Vale la pena di ricordare che le manovre degli Usa verso l’Iran durano da più di cinquant'anni, da quando cioè un colpo di stato militare appoggiato dagli Usa e dalla Gran Bretagna rovesciò il governo democratico e insediò lo scià. Questi guidò il paese con pugno di ferro fino al 1979, quando fu cacciato da una sollevazione popolare. L'amministrazione Reagan appoggiò l'invasione dell'Iran da parte di Saddam Hussein, aiutandolo a massacrare centinaia di migliaia di iraniani e di curdi iracheni. Poi sono venute le dure sanzioni di Clinton, seguite dalle minacce di Bush di attaccare l'Iran.
41 Maurizio Martellini e Riccardo Radaelli, “Così si gioca al tavolo nucleare”, Limes, L’Iran tra Maschera e Volto, 2005, n.5, pp. 91-100.
42 Lelio Lagorio, L’Ora di Austerlitz, Firenze, Polistampa, 2005, pp. 54-57.
43 F. Baranaby, Iran’s nuclear activities, novembre 2005, Addressing the challenge of Iran, BASIC/ORG, Briefing 15, entrambi sul sito www.oxfordresearchgroup.org.uk.
44 Chossudovski, Nuclear attack to Iran, 3 gennaio 2006 www.globalresearch.org; Seymour M. Hersh, The coming wars: what the Pentagon can now do in secret, “New Yorker”
45 Ewen MacAskill, “Thousands would die in US strike on Iran”, The Guardian, 13 febbraio 2006.
46 Si veda ad esempio l’analisi di G. Mascolo e B. Zand, “Iran’s growing power in the Middle East: the spider’s web”, Spiegel Online, August 29, 2006
(http://service.spiegel.de/cache/international/spiegel/0,1518,434077,00.html ).
47 Mohsen Mehran, “Le vie del gas non sono infinite”, Limes, L’Iran tra Maschera e Volto, 2005, n.5, pp. 101-111. Si veda però l’intervista all’economista iraniano Hadi Zamani, Iran’s nuclear option: an energy need or a strategic choice?, http://acdn.france.free.fr/spip/breve.php3?id_breve=53 .
48 Franceso Piccioni, “Il ‘picco’ del petrolio si approssima e il ‘turbo’ del capitale perde colpi”, Giano, Vol. 51, 2005, p. 73-77. Vi sono molti siti Internet dedicati al problema, in particolare quello dell’Aspo, anche italiano. In relazione all’attacco al Libano si veda M. Chossudovsky, “La guerra al Libano e la battaglia per il petrolio”, 21 agosto 2006, tradotto sul sito <come donchisciotte>; può essere opportuno precisare che non di solo petrolio si tratta, non meno cruciale è il problema dell’acqua, v. ad esempio G. Ferrari, “Dentro la guerra libanese”, in stampa su Cassandra.
49 La stessa IAEA, d’altra parte, ha recentemente respinto un rapporto americano sulla questione dell’Iran per «manifesta inattendibilità»: il rapporto del rapporto è arrivata al Washington Post, che l’ha pubblicata il 14 settembre 2006.
50 F. Barnaby e S. Burnie, Thinking the unthinkable: Japanese nuclear power and proliferation in East Asia, Oxford research Group, agosto 2005, www.oxfordresearchgroup.org.uk. Il sito contiene molto materiale interessante.
51 A. Baracca, A Volte Ritornano, cit., Paragr. 7.4. Marc Hibbs, Tomorrow, a Eurobomb?, “Bulletin of the Atomic Scientists”, gennaio/febbraio 1996, pp. 16-23. Dieter Dieseroth, Germany’s NPT obligation not under condition of war, “INESAP Information Bulletin”, n. 8 (febbraio 1996), p. 9.
52 Japan can construct nuclear bombs using its power plant plutonium, Nuclear Control Institute, Washington, DC, press release, 9 aprile 2002: www.nci.org .
53 Si prospetta anzi una vera escalation in questo senso, con il passaggio di consegne dal Premier Koizumi al leader dei liberal democratici Shinzo Abe, il cui revanchismo punta al riarmo e fa temere uno scontro con i paesi vicini: v. ad esempio Pio D’Emilia, “In Giappone è l’ora di Abe, il nostalgico del grande impero”, il manifesto, 21.09.06, p. 10; “Abe, un falco a Tokyo”, . il manifesto, 27.09.06, p. 6.
54 L’impiego di combustibile misto in reattori progettati per utilizzare uranio abbassa la sicurezza del reattore, a causa della maggiore reattività del plutonio, ed aumenta i rischi per i lavoratori: vi sono stati scandali in Giappone per la falsificazione di dati relativi al combustibile MOOX. Questions and answers on plutonium/MOX, Greenpeace, e F. Barnabie e S. Burnie, cit.; F. Barnaby, The proliferation consequences of global stocks of separated civil plutonium, giugno 2005, www.oxfordresearchgroup.org.
55 Emilie Guyonnet, “Le nuove ambizioni militari nipponiche passano per gli Stati uniti”, Le Monde Diplomatique/il manifesto, aprile 2006, p. 10-11.
56 M.M. Miller, Are Iaea safeguards on Plutonium bulk-handling facilities effective?, Nuclear Control Institute, Washington, DC, 1990; P. Leventhal, Iaea safeguards shortcomings: a critique, Nuclear Control Institute, Washington, DC, 1994. F. Barnaby, The proliferation consequences of global stocks of separated civil plutonium, e Effective Safeguards?, Factshhet 2, www.oxfordresearchgroup.org.uk.
57 F. Barnaby, cit. F. Barnaby e S. Burnie, “Safeguards on the Rokkasho reprocessing plant”, Greenpaeace International, giugno 2002. Ulteriori informazioni sul programma giapponese per il plutonio si trovano della pagina web www.nci.org.
58 F. Barnaby, cit.