Laura Margottini


Farmaci, ricerca, industria: quale tutela per il cittadino?



Gran parte della ricerca mondiale in campo medico oggi non sopravvivrebbe senza i finanziamenti dell’Industria farmaceutica. La scienza sotto padrone, però, soffre di una precisa patologia: spesso risponde più alle esigenze commerciali della compagnia che la finanzia che a quelle dei malati in attesa di nuove cure. Situazione, questa, diffusa soprattutto in America e in Europa, dove gli enormi interessi della farmaceutica - primo settore industriale USA - rendono inevitabile il corto circuito tra scienza e profitto. L’Italia non sembra fare eccezione. Conflitti d’interesse e corruzione prosperano anche da noi, come dimostrano casi giudiziari tuttora aperti, che vedono indagate le più alte sfere della medicina italiana: l’ex Ministro Sirchia – per aver presumibilmente incassato da una ditta produttrice di elettromedicali, la Immucor, assegni intesi a favorire l’azienda in occasione di appalti. Il Prof. Umberto Tirelli, del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano – per avere accettato soldi da uno dei colossi della farmaceutica, la GlaxoSmithKline, in cambio di una certa disinvoltura nel prescrivere il farmaco antitumorale Topotecan.


Ma in quali pieghe del processo scientifico si insinuano e attecchiscono certe mistificazioni della scienza medica?



Peer review: Garanzia o censura?


Per rispondere, è necessario descrivere brevemente come funziona uno degli aspetti cruciali della scienza, in particolare di quella medica: la pubblicazione di articoli, attraverso i quali vengono rese note scoperte ed esiti delle sperimentazioni. È grazie a riviste specialistiche come The Lancet, The British Medical Journal, New England Journal of Medicine, JAMA, per citare alcune tra le più autorevoli, che i medici di tutto il mondo vengono informati sui risultati più innovativi della medicina e della farmacologia.


Ma la pubblicazione ha anche un altro ruolo vitale per la scienza:


rappresenta il test più critico per un’ipotesi o per un dato scientifico, che vengono sottoposti al giudizio dell’ultimo tribunale: la comunità scientifica e il pubblico”

spiega il prof. Peter Duesberg, professore di biologia molecolare della University of California, esperto di AIDS di fama mondiale.

Ma chi ha il compito di decidere se un lavoro è da pubblicare oppure no?


La valutazione si fa all’interno del cosiddetto peer-review process. Questo processo prevede che gli articoli proposti ad una rivista vengano esaminati da alcuni referee, cioè esperti di un determinato settore della medicina, a cui il direttore del giornale si rivolge perché valutino la qualità, la correttezza scientifica e l’originalità dei lavori. Forniscono, in pratica, i pareri tecnici in base ai quali il direttore decide se pubblicare o meno l’articolo. Al fine di garantire la trasparenza e l’obiettività dei giudizi, gli autori degli articoli non dovrebbero conoscere i nomi dei refeere e viceversa.


Questo, almeno, è ciò che dovrebbe essere, ma molte sono le eccezioni e le anomalie di questo processo. Secondo Duesberg:


il Peer-Review è una forma di censura con aspetti sia positivi che negativi. Positivi, perché scienziati senza conflitto di interesse possono eliminare le pubblicazioni basate su prove non scientifiche o ipotesi confutate. Negativi, perché l’ideologia scientifica prevalente usa il peer_review per eliminare quelle innovazioni che minacciano le ipotesi e gli investimenti dell’ortodossia.


Duesberg lo dice per esperienza. Considerato un luminare in tema di AIDS e cancro, avendo isolato il primo gene ritenuto responsabile di indurre tumori e mappato la struttura genetica dei retrovirus (un’opera che gli è valsa nel 1986 l’elezione alla più importante associazione scientifica americana, la National Academy of Science), Duesberg ha compromesso una lanciatissima carriera, opponendosi a quello che definisce “il dogma dell’Hiv”, cioè la teoria attualmente più accreditata sulle cause dell’AIDS, quella secondo la quale è il retrovirus Hiv ad indurre l’immunodeficienza. Secondo Duesberg, non c’è assolutamente alcun legame scientificamente accertato tra il virus e la malattia, e i farmaci antiretrovirali non solo sono inutili, ma in alcuni casi accelerano la morte dei pazienti, come è avvenuto per l’AZT della multinazionale Glaxo. Quando Duesberg ha tentato di divulgare le sue ragioni scientifiche sulla questione, si è visto rigettare lavori dalle stesse riviste mediche dove prima pubblicava, negare inviti ad importanti congressi a cui era solito partecipare e fondi per la ricerca che era solito ottenere.


Insomma, il suo punto di vista sulle cause dell’Aids – condiviso anche da scienziati del calibro di David Rasnick e del Premio Nobel 1993 per la chimica Kary Mullis – lo ha quasi ridotto al silenzio. Paradossalmente, quindi, può accadere che il peer review faccia da freno al progresso scientifico, invece che da motore, oscurando ipotesi nuove prima che abbiano avuto la possibilità di essere confutate. Secondo Duesberg:


Le riviste più quotate sono quelle che pubblicano gli articoli che maggiormente riflettono gli standard dell’ortodossia scientifica. Questo però non garantisce che le ricerche pubblicate siano corrette. Il lavoro di Galileo sul sistema eliocentrico ne è un classico esempio: pur essendo corretto, esso fu censurato dall’ortodossia del tempo. Ma abbiamo anche molti esempi moderni, come l’ipotesi della mutazione somatica per ciò che riguarda la ricerca sul cancro. Essa prevede che il cancro sia causato dalle mutazioni che subiscono alcuni geni. Sebbene non esistano prove a sostegno del fatto che mutazioni genetiche possano indurre il cancro, questa teoria ha effettivamente oscurato tutte le ipotesi alternative degli ultimi 30 anni”.



La frode degli autori fantasma.


La censura preventiva non è l’unico uso scorretto che si fa della pubblicazione. “Il sistema è stato molto abusato fino a questo momento – sostiene il Prof. David Healy, celebre psichiatra dell’Università del Wales, Inghilterra – in vari modi. Prima di tutto, tantissimi articoli medici non sono stati scritti realmente da chi dichiara di esserne l’autore, ma da ghostwriter, autori fantasma, cioè da impiegati delle compagnie farmaceutiche i quali prima provvedono alla stesura del lavoro, e poi propongono a qualche grosso nome della medicina di firmarlo”, ottenendo così pubblicità a basso costo per i nuovi farmaci. Infatti se l’articolo che ne descrive le proprietà è firmato da un nome importante, i medici tendono a fidarsi di più di quanto non farebbero con l’informatore farmaceutico mandato dall’industria, e quindi prescrivono quel farmaco più volentieri. Chi accetta di firmare lo fa sia per il compenso che la compagnia gli offre in cambio, sia perché pubblicare il più possibile è vitale per fare carriera e per ottenere l’assegnazione di fondi per la ricerca.


Lo stesso Healy si è visto presentare un articolo già pronto da firmare. Avendo declinato l’offerta, la compagnia che lo aveva scritto non ha fatto altro che riproporlo, nella stessa identica forma, ad un altro famoso psichiatra, il Dott. Siegfried Kasper dell’Università di Vienna, ottenendo finalmente ciò che voleva. “La cosa più grave – puntualizza Healy – non è che il vero autore sia un altro, ma che ciò che è scritto nell’articolo non sia la verità”. Questi articoli, infatti, non tengono veramente conto dei dati bruti ottenuti nella fase della sperimentazione clinica del farmaco. Ne esaltano le qualità e minimizzano gli effetti collaterali, come in un qualsiasi spot pubblicitario. “Sono veri e propri spot. – afferma Healy

In generale, quando si tratta di farmaci, pochissimi articoli sono scritti senza subire l’influenza delle case farmaceutiche”.

E il 50% di quelli pubblicati sul British Medical Journal e su The Lancet, secondo Healy sono scritti da ghostwriters. Poiché i dati bruti delle sperimentazioni troppo spesso non vengono pubblicati – pratica che lo psichiatra condanna duramente – è molto difficile verificare l’autenticità dei lavori.

Tale omissione di informazioni è considerata da moltissimi ricercatori e scienziati una grave mancanza, del tutto contraria all’etica della ricerca. Infatti, se i dati ottenuti durante una sperimentazione vengono tenuti nascosti alla comunità scientifica, oltre a non poter verificare l’autenticità dei risultati pubblicati, ciò provoca inevitabilmente un duplice effetto: il rallentamento di quelle sperimentazioni che potrebbero beneficiare di tali dati da una parte; la ripetizione di esperimenti già effettuati dall’altra.

La questione dei ghostwriter rappresenta un problema anche per le riviste, come evidenziato anche da Richard Smith, ex direttore del British Medical Journal e attuale direttore generale di United Health Europe: “È molto difficile, per noi, distinguere, e quindi rifiutare, gli articoli di questo tipo da quelli onesti - ha dichiarato.

Pubblicità esplicita

La dipendenza che i giornali hanno nei confronti dell’industria è dimostrato in prima battuta dalle inserzioni pubblicitarie presenti massicciamente nelle riviste. Quasi tutti i giornali che si occupano di medicina – dalle riviste specialistiche fino agli inserti “salute” dei quotidiani- ospitano moltissima pubblicità a pagamento sui farmaci e questo non può che gettare un ombra sull’onestà dell’informazione che viene proposta. Quale obbiettività ci si può infatti aspettare da una rivista che fa pubblicità ai prodotti di una certa compagnia farmaceutica? Gli editor saranno imparziali nel giudicare gli studi sponsorizzati dalle stesse compagnie che, attraverso l’acquisto di spazi pubblicitari, finanziano la rivista? Il Prof. Del Favero (dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Perugia), a cui abbiamo rivolto tali domande, ci assicura che


La sopravvivenza di riviste prestigiose come The Lancet, il BMJ o il New England Journal of Medicine, non dipende certo dal ricavato della pubblicità, poichè esse possono vantare un altissimo numero di abbonati”.


Ma allora perché anche le loro pagine sono piene di spot pubblicitari sui farmaci?


Del resto anche Richard Smith che è stato direttore per ben 13 anni del BMJ, ha recentemente affermato che la dipendenza delle riviste mediche dalla pubblicità delle case farmaceutiche è una realtà.


Senza contare un altro aspetto legato alla pubblicità dei farmaci: la stragrande maggioranza è giudicata pubblicità ingannevole, come rivela un articolo pubblicato nel 2003 su The Lancet, il quale sostiene che il materiale pubblicitario inviato ai medici dalle case farmaceutiche è pieno di affermazioni false, e un altro studio pubblicato nel 2004 dal BMJ che recita:


Solo il 6% del materiale pubblicitario sui farmaci è supportato da prove scientifiche


Il secondo articolo succitato riporta i risultati di uno studio condotto dall’ Institute for Evidence-Based Medicine, un istituto di ricerca privato e indipendente con sede a Colonia. Dall’esame di un campione di materiale pubblicitario sui farmaci, i ricercatori hanno verificato che solo il 6% di esso conteneva affermazioni scientificamente supportate da una letteratura medica identificabile. Nel restante 94% le affermazioni fatte non riflettevano i risultati di alcuno studio, o non era chiaro a quali studi si facesse riferimento. Lo studio evidenzia come “tali spot presentino un’immagine distorta dei medicinali che sponsorizzano: ne minimizzano gli effetti collaterali, ne esagerano i benefici, non danno una chiara definizione dei gruppi di pazienti a cui si fa riferimento, sopprimono i risultati degli studi, manipolano i rischi, in alcuni casi fanno riferimento solo agli effetti riscontrati sugli animali” Stando all’articolo del BMJ, tale situazione espone i pazienti a molti rischi, poiché “è dimostrato che i medici tendono a basare le proprie decisioni sul materiale informativo e pubblicitario inviato loro dalle compagnie farmaceutiche”, cioè si fidano di quello che c’è scritto, perché lo considerano scientificamente valido.

Pubblicità occulta


Secondo Smith la questione della pubblicità a pagamento sulle riviste, per quanto grave e cospicua, rappresenta solo la minore forma di corruzione. Nelle riviste mediche è diffusissima anche un altro tipo di pubblicità, ben più difficile da decodificare: quella rappresentata dalla pubblicazione dei risultati di sperimentazioni cliniche finanziate dalle industrie.


Studi di questo tipo molto raramente producono risultati sfavorevoli. Le compagnie farmaceutiche cercano infatti di pubblicare solo gli esiti positivi delle ricerche che finanziano, perché uno studio favorevole che appare su una rivista prestigiosa assicura loro un’enorme fonte di pubblicità. In questo caso l’articolo viene distribuito dalla casa farmaceutica ai medici di tutto il mondo nel tentativo di convincerli della qualità del “prodotto” di cui si parla nello studio, sfruttando l’autorevolezza di cui la rivista gode presso la comunità scientifica. Pubblicare solo i dati positivi delle sperimentazioni,

Secondo Smith:

Le riviste di medicina costituiscono un’estensione del braccio del marketing delle compagnie farmaceutiche, per le quali uno studio favorevole vale più di migliaia di inserzioni pubblicitarie. E’ per questo che una compagnia può arrivare a spendere più di un milione di dollari in reprint dello studio per la sua distribuzione mondiale.”

Smith avverte che “pubblicare tali articoli significa compromettere la credibilità e l’onestà della rivista”, ciò nonostante moltissimi giornali lo fanno, anche i più autorevoli. Il perché ce lo ha spiegato lo psichiatra David Healy:


Troppo spesso gli articoli che le grandi riviste pubblicano riguardano farmaci, perché gli editor sanno che ciò assicura grossi introiti alla rivista. Infatti, sanno già che la casa produttrice del medicinale di cui si parla nell’articolo acquisterà dalle 20mila alle 50mila copie [che porterà circa 100,000$ di profitto alla rivista]. Ciò influenza moltissimo le scelte dei direttori”


Ciò significa che la più grossa fetta di guadagno per le riviste, soprattutto per quelle più prestigiose, è costituito proprio da questo tipo di pubblicazioni. L’effetto che pratica ha, oltre ad indurre i medici a pensare che un farmaco sia più efficace di quanto non lo sia realmente, è quello di distorcere completamente la letteratura medica. Per questo David Healy ritiene che:


La fiducia che attualmente si può avere nei confronti di articoli che hanno a che fare con i farmaci è bassissima. In questo momento la pubblicazione scientifica è molto più importante per il marketing delle compagnie farmaceutiche che per lo sviluppo della scienza”.



La politica della “full disclosure”

Refeere, autori degli articoli ed editor (cioè direttori o redattori capo) delle riviste troppo spesso hanno conflitti d’interesse con l’industria e questo rende molto difficile capire quanto gli esiti pubblicati sugli articoli, specie in farmacologia, siano influenzati dalle compagnie farmaceutiche. Per questo motivo, dal 2001 una dozzina di giornali, tra i quali il Journal of the American Medical Association (JAMA), il New England Journal of Medicine (NEJM) e il The Lancet, richiedono una serie di garanzie prima di pubblicare i risultati degli studi. La nuova politica, che va sotto il nome di full disclosure, obbliga chi pubblica a dichiarare i propri legami con l’industria, in modo tale che il lettore spossa giudicare quanto l’informazione riportata possa essere stata influenzata dalle compagnie per le quali lavora l’autore dell’articolo. Strategia che rappresenta un primissimo ma efficace passo nella direzione della trasparenza. La proposta è stata accolta con entusiasmo, almeno in apparenza, dai ricercatori e da molte riviste internazionali. Quelle europee invece, non hanno ancora aderito.

Non tutti gli autori hanno la stessa percezione dell’importanza di questo nuova politica. Si va infatti da un eccesso all’altro. Come ha ricorda Marcia Angell, ex editor della più autorevole rivista di medicina, il NEMJ, i conflitti di interesse dichiarati sono in alcuni casi talmente tanti che non è possibile pubblicarli, come di norma, sulla pagine della rivista, perché prenderebbero più spazio dell’articolo stesso. Per questo vengono pubblicati separatamente sul sito web della rivista. In altri casi, come denuncia in un rapporto del 2004 l’organizzazione americana Center for Science in the Public Interest (CSPI) -che vigila sui molteplici conflitti di interesse che possono riguardare la scienza- ancora troppi autori dichiarano di non avere alcun legame con le industrie, quando invece ce l’hanno. L’associazione ha infatti analizzato i conflitti del primo e dell’ultimo autore che si dichiarava “pulito” di 163 articoli del 2003 apparsi in quattro tra le più note riviste mediche: NEMJ, JAMA, Environmental Health Perspective, Toxicology and Applied Pharmacology. Utilizzando database pubblici, la CSPI ha scoperto che in ben 13 articoli, l’8 %, gli autori avevano conflitti di interesse non dichiarati.


Industria, etica e libertà di ricerca


Oltre alle pubblicazioni, gli sponsor possono influenzare anche la libertà degli scienziati che lavorano per loro, come ci racconta un farmacologo di fama internazionale, il Prof. Gessa dell’Università di Cagliari, il quale riceve soldi per fare ricerca da 3 multinazionali straniere e da una casa italiana, di cui però non ci rivela i nomi.


Se studi un farmaco per conto di una compagnia – spiega Gessa – devi firmare un Secrecy Agreement, un accordo di segretezza in cui ti impegni a fare solo ciò che concordi con lo sponsor e nient’altro. Ad esempio, a non divulgare informazioni e a non pubblicare niente senza autorizzazione. Per fare dell’altro ti serve l’OK del finanziatore, che non sempre è propenso a concederlo”.


Questo vuol dire che se da una sperimentazione emergono risultati inaspettati, ad esempio si scopre che il farmaco ha effetti benefici anche per patologie diverse da quelle che interessano lo sponsor, il ricercatore non può informare né la comunità scientifica né i pazienti, se non è autorizzato. Ma ciò che è più grave è che nel caso in cui il ricercatore scopra delle reazioni avverse nei farmaci che studia, non è detto che sia libero di renderli pubblici. Lo dimostra il caso della dottoressa Nancy Olivieri dell’Università di Toronto. Avendo scoperto alcuni effetti tossici di un farmaco che stava testando per conto di una compagnia, la ricercatrice chiese di informare i pazienti che lo assumevano. Vedendosi negare l’autorizzazione, la Olivieri decise di non rispettare l’accordo di segretezza e informò lo stesso i suoi pazienti. Il risultato fu la sospensione dell’esperimento e del suo contratto di ricerca.


Lo sponsor può anche decidere di ritardare la pubblicazione di scoperte o farmaci nuovi, per ragioni strettamente commerciali, come ad esempio attendere che il farmaco venga brevettato. Può anche decidere di non pubblicare affatto i dati dell’esperimento nel caso in cui gli esiti siano negativi. Comportamento, questo, giudicato assolutamente contrario all’etica della ricerca.


Se invece l’esperimento va bene, e


se dalla vendita di un farmaco dovessero nascere dei miliardi, cosa che accade – continua Gessa – il ricercatore prende una certa percentuale. Una parte dei soldi che riceve può utilizzarla per gli studi che a lui interessano”.


Ma è possibile pensare di fare ricerca schivando certi paletti imposti dalle industrie? Secondo Gessa no. “Senza i soldi dell’industria non è possibile. Anche il ministero della ricerca consiglia di ‘sposarsi’ con gli sponsor, perché più dello stipendio non è in grado di assicurare”. Ma qualche modello di finanziamento alternativo forse esiste. Il Prof. Tansella, psichiatra dell’Università di Verona, ha recentemente proposto un sistema di finanziamenti per una ricerca su cui nessuno investe, la ricerca psicosociale, che studia gli effetti terapeutici dell’ambiente sociale sulle patologie mentali. Il finanziamento prevede anche il contributo dell’industria, ma pare aver trovato la chiave per evitarne la tirannia. Secondo il Prof. Tansella del Centro OMS per la Ricerca sulla Salute Mentale di Verona, la ricerca psicosociale ha un ruolo chiave nel fornire indicazioni per la cura delle patologie mentali, perché tiene conto di tutti gli aspetti che possono influire positivamente sul decorso della malattia, in particolare studia l’influenza che l’ambiente sociale può avere sul paziente. Gli esiti di questo tipo di ricerche, trasferiti nella pratica dei Servizi pubblici, come le ASL, permettono di valutare fin dall’inizio quale siano le strategie vincenti da utilizzare, specie nei casi gravi e soggetti a frequenti ricadute. Il Centro OMS di salute mentale si occupa proprio di questo tipo di studi, ed è riuscito a farsi finanziare anche dalle industrie, come Ely Lilly, Pfizer, Janssen-Cilag. Con una particolarità: i finanziamenti ottenuti sono a fondo perduto, cioè le compagnie non si aspettano nulla in cambio, cosa che lascia molta libertà ai ricercatori del Centro. In più, per evitare ogni rischio di condizionamento, tali finanziamenti non vengono impiegati negli studi di tipo farmacologico che il Centro conduce. “Abbiamo scelto questa strada, proprio per avere le mani libere” – spiega Tansella, il quale ha recentemente presentato anche una ricerca su un innovativo sistema di finanziamenti per i Servizi pubblici di salute mentale. Lo studio ha verificato l’applicabilità di una sistema tutto nuovo, che prevede una sovvenzione a pacchetto, invece che a singola prestazione come si è fatto fino ad oggi in Italia. È possibile, cioè, valutare quale sia il percorso e la strategia da seguire per riabilitare completamente il paziente, stabilendo fin dall’inizio il costo che graverà sulle casse dello stato. Una volta che al servizio venga concesso il finanziamento stimato necessario, gli psichiatri diventano i case manager del trattamento, utilizzando le risorse disponibili all’interno dei servizi sanitari e sociali presenti sul territorio. Lo studio ha dimostrato che questo sistema è in grado di ottimizzare i costi e finalmente di fornire risposte adeguate al paziente, che viene seguito non più a singoli spot, ma lungo tutto il percorso necessario per uscire dal tunnel della malattia.



Se l’Industria dirige lo Stato: il caso italiano


Un passaggio importante nel lungo percorso che porta nuove cure dal laboratorio di ricerca agli scaffali delle farmacie è quello della registrazione dei nuovi medicinali, fase in cui si valutano i dati sull’efficacia e la sicurezza, al fine di autorizzarne la commercializzazione. Della questione si occupa, in Italia, l’AIFA, Agenzia Italiana del Farmaco, voluta dal ministero della salute nel 2004. Oltre a decidere quali sono i farmaci che devono entrare in Italia – aspetto di cui si occupava in precedenza la Commissione Unica del Farmaco (la CUF) – l’AIFA si occupa di farmacovigilanza, cioè del monitoraggio dei farmaci già in commercio, e controlla l’operato delle industrie nella tutela del cittadino.


Per le valutazioni, l’agenzia si avvale del giudizio della Commissione Tecnico Scientifica, la CTS, ex CUF, costituita da una quindicina di esperti nominati direttamente dal ministro della sanità e dai presidenti delle regioni. Per farne parte sono fondamentali sia la competenza sia l’assenza totale di conflitto di interesse con le industrie, che potrebbero fare pressioni per velocizzare la procedura di commercializzazione, a scapito delle valutazioni sulla sicurezza. Questa situazione si verifica infatti in molte parti del mondo, primi fra tutti gli Stati uniti, dove “la sezione della FDA- analogo americano dell’AIFA – che si occupa di approvare i nuovi medicinali, riceve la metà del suo supporto economico dalle industrie” ha tuonato in un duro “j’accuse” Marcia Angell, ex direttore della rivista più prestigiosa per la medicina, il New England Medical Journal:

Le industrie pagano molti soldi per avere in cambio una commercializzazione più veloce. Questo significa che la FDA ora dipende dall’industria, mentre dovrebbe regolarla”

L’effetto, secondo la Angell, è che l’approvazione di farmaci di dubbio valore è troppo rapida e la rimozione di quelli con gravi effetti collaterali troppo lenta.


Alla luce di queste considerazioni, è spontaneo interrogarsi su certe politiche dell’AIFA, che in qualche caso sembrano tutelare più l’industria che il cittadino. Uno dei primi obiettivi dichiarati dall’Agenzia, infatti, è proprio quello di accelerare la procedura di registrazione dei farmaci, “per favorire l’accesso rapido a nuove cure” – ha dichiarato l’agenzia in occasione della sua inaugurazione, senza però spiegare se e come questo inciderà sulla sicurezza. Un altro aspetto molto singolare è che alla Presidenza dell’Aifa sieda proprio un ex Dirigente di Farmindustria, la dottoressa Antonella Cinque, fatto che costituisce un vero e proprio conflitto di interessi. Altre perplessità si hanno quando, spulciando tra le nomine delle vecchie commissioni CUF e della nuova CTS, ci si accorge che molti degli esperti che ne fanno parte sono gli stessi da circa 15 anni. La situazione è molto strana se si pensa che il mandato per un membro CUF prevedeva un massimo di 4 anni. Mandato che per la CTS è stato portato a ben 10 anni dall’ex ministro Sirchia, forse proprio per aggirare l’ostacolo delle nomine troppo spesso ripetute.


A cosa si devono queste anomalie? Lo abbiamo chiesto direttamente alla dottoressa Cinque. Dopo varie telefonate all’AIFA e dopo aver inviato le domande in anticipo, come ci è stato richiesto, la dottoressa ci ha comunicato attraverso la sua segretaria di non poter essere disponibile prima di una mese a causa di improcrastinabili impegni di lavoro, anche se, come abbiamo spiegato all’ufficio stampa della Presidenza, la conversazione avrebbe richiesto solo una decina di minuti. Ci siamo rivolti allora al Prof. Del Favero dell’Università di Perugia – uno dei nomi più ricorrenti nelle commissioni CUF e attuale membro della CTS – per sapere a cosa sia dovuto lo scarso ricambio delle nomine:


Credo che questa scelta sia stata fatta perché si vuole una continuità di lavoro e anche perché di esperti indipendenti, incorruttibili e competenti in questa materia non ce ne sono molti”.


Il prof. Gessa, anche lui ex membro CUF, crede invece che


a premere per le riconferme di alcune nomine ci siano delle pressioni politiche trasversali, di quelle che sopravvivono ai governi. È probabile che l’Industria - sostiene Gessa - abbia dei propri paladini all’interno della commissione”.


Ma è possibile, invece, che, come dice Del Favero, non ci siano altri esperti abbastanza validi da sostituire i vecchi? Il Prof. Healy pensa di no:


Non è vero che non ce ne sono. Molti altri potrebbero essere nominati. La realtà è che coloro che diventano esperti hanno spesso legami stretti con le industrie farmaceutiche per le quali devono registrare i farmaci”.


Riguardo al conflitto di interesse tra chi in precedenza ha lavorato per l’industria e successivamente si occupa di regolarla, Healy sostiene che


essere stati in passato tanto vicino all’Industria non è esattamente la cosa di cui si ha bisogno quando si siede al vertice di certe agenzie. Trovo che sia un comportamento molto difficile da giustificare. Come e perché certe cose accadano – conclude – sono due questioni di estremo interesse”.


Giriamo la questione ai vertici dell’AIFA, sperando che qualcuno trovi il tempo di rispondere.




Inserito: 8 giugno 2005; ultima revisione: 23 novembre 2005

Scienza e Democrazia/Science and Democracy

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