Jenner Barretto Bastos Filho

Dirimere conflitti e il complesso problema del relativismo culturale

 

1. Il problema

In uno dei suoi ultimi lavori Popper ha scritto:

Tarski went from Prague to Vienna where he stayed for a year and where we became friends. Philosophically, it was the most important friendship of my life. For I learnt from Tarski the logical defensibility and the power of absolute and objective truth: essentially an Aristotelian theory at which, it appears, Tarski and Gödel arrived, independently at almost the same time. It was first published by Tarski in 1930, whereupon Gödel, of course, accepted Tarski’s priority. It is a theory of objective truth – truth as the correspondence of a statement with the facts – and of absolute truth: if an unambiguously formulated statement is true in one language, then any correct translation of it into any other language is also true. This theory is the great bulwark against relativism and all fashions. And it allows us to speak of falsity and its elimination; of our fallibility; and of the fact that we can learn from our errors, from our mistakes; and of science as the search for truth. Moreover, it allows us – indeed, it requires us – to distinguish clearly between truth and certainty. [POPPER, 1990, pp. 3-4; il corsivo-grassetto è aggiunto; il corsivo da solo è di Popper]

Dobbiamo enfatizzare che Popper non soltanto afferma la validità della teoria di Tarski-Gödel nel contesto ristretto della logica e delle scienze fisico-matematiche. Il suo pensiero va molto avanti e fa una generalizzazione molto insicura della validità di questa teoria alla morale e all’etica.

Che cosa significherebbe generalizzare la teoria di Tarski-Gödel (originalmente ristretta alla logica) a un dominio così paludoso come quello delle scienze sociale?

Pensiamo, per esempio, al "teorema": "Se la dichiarazione non-ambigua ‘la tortura è deplorevole’ è vera nel contesto di una data cultura umana, alora la traduzione corretta di questa è anch’essa vera in una qualsiasi altra cultura."

Possiamo dire che ci sono diverse debolezze che non ci permettono prendere sul serio questo "teorema" nella sua forma "generalizzata".

In primo luogo, la teoria originale di Tarski-Gödel parla di un enunciato non ambiguo formulato in un dato linguaggio. Però la cultura è molto di piú che un linguaggio.

In secondo luogo, considerare la tortura come ‘deplorevole’ a causa di una supposta consensuale ‘violazione della dignità umana’ introduce un giudizio di valore estraneo alla teoria, che parla di vero o falso e non se una data cosa è moralmente deplorevole oppure no.

In terzo luogo, l’ambiguità è inevitabile (in linea di principio può darsi che una data cultura tenga la tortura come una pratica sadica essenziale per il mantenimento di un dato status quo).

In quarto luogo non è del tutto chiaro che cosa sarebbe una traduzione corretta di un enunciato dal contesto di una cultura in quello di un’altra. La cosa più ragionevole è concepire che traduzione corretta in questo caso dovrebbe significare lo stesso che "la tortura è anche deplorevole per qualsiasi cultura degna di questo nome".

Certamente, la soluzione più semplice è considerare la necessità di rispettare un nucleo minimo di diritti umani universalmente accordato come quello della Dichiarazione delle Nazione Unite. In questa Dichiarazione la tortura è sottintesa come una pratica deplorevole e non accettabile a causa della gravissima violazione della dignità umana che implicherebbe. Questo è incorporato come postulato e come requisito di qualsiasi pratica razionale e così non abbiamo il bisogno di rafforzare questo argomento con la teoria de Tarski-Gödel. Abbiamo argomentato (Bastos Filho) che questo atteggiamento è proprio necessario se vogliamo costruire un mondo più sostenibile. Pensiamo pure che in questo senso si può capire la critica razionale delle scienze che ha fatto Mamone Capria [2003] e in senso lato la critica cui credono tutti gli altri autori di Scienza e Democrazia.

Infatti il problema è complesso perché se da un lato il consenso minimo etico è necessario, dall’altro lo è anche la diversità culturale. Per esempio, un mondo dove le lingue si estinguono è un mondo che si impoverisce. Dunque, la diversità culturale deve essere tenacemente ricercata. Analogamente, un mondo dove le specie si estinguono diventa più povero. Il problema è come conciliare la necessità di un consenso etico minimo universalmente accordato e la necessità di promuovere la diversità etnica. Entrambe le cose sono necessarie, ma sembrano antitetiche. Il problema diventa ancora più complesso quando pensiamo che le culture sono entità dinamiche che evolvono nel tempo e nei rapporti reciproci. Su questo difficile problema abbiamo intenzione di discutere qualche argomento.

 

2. Il pensiero antropologico

Nel 2001 l’organizzazione del convegno annuale della ANPOCS ("Associação Nacional de Pós-graduação e Pesquisa em Ciências Sociais") in Brasile ha invitato l’antropologo statunitense David Maybury-Lewis per tenere il seminario di apertura, intitolato "Antropology in a Confusion Era" ("L’antropologia in un’era di confusione").

In questo seminario, Maybury-Lewis ha argomentato in favore della tesi secondo la quale il relativismo è fondamentale per la buona antropologia, però è necessario distinguere fra due forme di relativismo: la prima forma sarebbe il relativismo del "vale tutto" (anything goes), secondo cui non possiamo condannare le pratiche degli altri popoli, per quanto deplorevoli ci possano sembrare, perché sono pienamente approvate dalle loro culture; la seconda forma, che esiste tanto nel pensiero dei nostri predecessori quanto in quello dei contemporanei, raccomanda di sospendere il giudizio sui costumi degli altri popoli per meglio capire i loro modi di vita e, per quanto possibile, agire senza pregiudizi.

Argomenta Maybury-Lewis che questa seconda forma di relativismo ha il proposito di migliorare la nostra capacità di fare giudizi fondati. Insiste che questa seconda forma di relativismo è stata praticata da Erodoto, e finora costituisce il miglior cammino per esercitare una tolleranza ragionevole. Cosi, possiamo interpretarla come una forma di relativismo metodologico che secondo lui costituisce un metodo razionale per esercitare la tolleranza. In altre parole si trata di un metodo di relativismo razionale nella ricerca della tolleranza razionale.

Però questo cammino non è facile. Lo sforzo fatto da Erodoto per capire la cultura persiana gli ha attirato l’accusa fatta da Plutarco secondo la quale Erodoto era simpatizzante dei barbari.

3. La trappola in cui si trova Popper

Possiamo analizzare la situazione per il lato in cui Popper argomenta che l’etica non è una scienza. Vediamo un passaggio della sua La società aperta e i suoi nemici:

È impossibile dimostrare la giustezza di qualsivoglia principio etico o anche argomentare in suo favore esattamente allo stesso modo in cui argomentiamo in favore di un enunciato scientifico. L’etica non è una scienza. Ma, benché non ci sia alcuna "base scientifica razionale" dell’etica, c’è una base etica della scienza e del razionalismo. [Cit. in POPPER 2001, p. 591]

Allo stesso tempo in cui Popper argomenta in favore della teoria de Tarski-Gödel e la considera un vero "baluardo [bulwark]" contro il relativismo, argomenta che l’etica non costituisce affatto una scienza perché non può offrire un criterio1 razionale e critico. Ciò nonostante, esiste una base etica per la scienza e il razionalismo. Cosi possiamo anche interpretare che nonostante non esistano teoremi affidabili per quanto riguarda l’etica, questa può – e infatti deve – essere una base importante della ragione e della critica.

Infatti, per convincersene basta pensare nella regola d’oro dell’etica sia nella sua formulazione negativa (non fare agli altri quello che tu non desideri che sia fatto a te) sia nella sua formulazione positiva (fare agli altri soltanto quello che tu desideri che sia fatto a te). Questa regola constituisce veramente una base di tutta la razionalità e della critica perché stabilisce un criterio essenziale di convivenza, tolleranza e rispetto mutuo fra le persone senza il quale la discussione critica sarebbe veramente impossibile.

Il fatto che esista una base etica essenziale in tutta la razionalità non implica che l’etica sia demostrabile a partire dalla logica matematica. Cosí l’argomento popperiano secondo il quale la teoria de Tarski-Gödel sarebbe "un baluardo contro il relativismo" non è a mio avviso sostenibile.

In questo senso possiamo osservare che se si confrontano le due citazioni di Popper sopra riprodotte, allora un sapore di contraddizione appare con sufficiente chiarezza. Nella prima citazione Popper argomenta in favore della logica matematica per confutare il relativismo e nella seconda lui argomenta che l’etica non costituisce affatto una scienza, nonostante l’etica costituisca una base della razionalità. La sintesi che possiamo fare è che il relativismo non può essere confutato e neanche giustificato a partire dalla pura logica e così il argomento del "baluardo contro qualsiasi forma di relativismo" non è sostenibile. Per questo pensiamo che Popper si trova in una trappola.

 

4. Il relativismo sociologico è diverso dal relativismo culturale.

Popper scrive:

For I want to say a few words against the widespread doctrine of sociological relativism, often unconsciously held, especially by sociologists who study the ways of scientists and who think that they thereby study science and scientific knowledge. Many of these sociologists do not believe in objective truth, but think of truth as a sociological concept. Even a former scientist such as the late Michael Polanyi thought that truth was the experts believe to be true – or, at least, the great majority of experts. But in all science, the experts are sometimes mistaken. Whenever there is a breakthrough, a really important new discovery, this means that the experts have been proven wrong, and that the facts were different from what the experts expected them to be. (Admittedly, a breakthrough is not a frequent event.) [POPPER 1990, pp. 33-4, corsivo aggiunto]

A nostro avviso abbiamo bisogno di non confondere due cose che sono distinte. La critica fatta qui da Popper al relativismo sociologico è completamente diversa dalla critica fatta a proposito del confronto tra due diverse culture nel senso ristretto dei valori morali.

La dottrina del relativismo sociologico sostiene che la verità non costituisce una cosa assoluta, ma dipende dalla società e dal momento storico in cui essa si trova. Detto in altre parole, la verità sarebbe una cosa che – nelle parole che Popper atribuisce a Michael Polanyi – è accordata come tale dagli esperti che così la considerano. Insomma, la verità sarebbe una costruzione sociale e storica. Questa tesi è pericolosa perché lascia il cammino libero alla tesi della dissoluzione della realtà. Se la realtà è quella che ciascuno costruisce, allora che senso avrebbe postulare una realtà oggettiva? Non possiamo dimenticare che gli esperti si sbagliano. Dobbiamo enfatizzare che l’aspetto eternamente incerto della conoscenza è cosa molto diversa dalla supposta mancanza di oggettività della realtà e anche dalla supposta mancanza della verità oggettiva. Possiamo considerare, per un verso, il sapere umano come eternamente incerto, però per l’altro verso assumere l’oggettività della realtà e anche della verità, e impegnarci a ricercare sempre quest’ultima. In questo senso siamo d’accordo con Popper.

La dottrina del relativismo sociologico considera che il vero e il falso siano soltanto una costruzione storica e sociale, mentre la dottrina del relativismo culturale considera che il moralmente giusto non costituisce un concetto assoluto per qualsiasi cultura ma è un concetto relativo alla cultura.

Nel suo capitolo intitolato "Democrazia e critica razionale delle scienze", Mamone Capria (2003) argomenta che la valutazione della natura del consenso o del dissenso in una certa comunità è fondamentale per giudicare la credibilità di una certa opinione. Alla domanda di quali fattori vadano tenuti presenti nel formare una tale valutazione, egli risponde distinguendo tra "certezza soggettiva" e "verità pubblica":

C’è poi da notare che, anche se un individuo isolato potesse raggiungere una conclusione che lo lasciasse completamente soddisfatto, questa non sarebbe ancora una ‘verità scientifica’ o, più esattamente, non sarebbe ancora spendibile come tale. Per arrivare a questo, ci sarà infatti bisogno di un riconoscimento pubblico, che non si darà senza un iter appropriato. In altre parole, la trasformazione di una certezza soggettiva in verità scientifica pubblica passa necessariamente attraverso una procedura di validazione sociale, la quale potrà avanzare o arenarsi in funzione dell’intrinseca affidabilità del meccanismo validatorio, dello stato di salute intellettuale e morale della comunità disciplinare nel suo complesso e dei singoli individui responsabili in particolare, e della capacità dello scopritore di partecipare al rito senza creare attriti che ne ritardino o addiritura blocchino l’espletamento. [MAMONE CAPRIA 2003a, p. 18]

Come possiamo notare, la procedura di validazione sociale costituisce un processo complesso che coinvolge tanto la salute morale quanto quella intellettuale della comunità disciplinare, che a mio avviso sono soltanto parzialmente analizzabili. C’è una parte tecnica che è certamente analizzabile, e così è anche il gioco degli interessi e delle ideologie che spesso ha un peso importante nel determinare quale sarà l’opinione ‘vincente’ in una certa comunità; credo però che gli "insights", o le "intuizioni", che intervengono nella formazione tanto del consenso quanto del dissenso sono difficilmente analizzabili razionalmente, cosa che evidentemente non significa irrazionalità.

5. La scoperta dell’America

La scoperta dell’America ha svolto un ruolo molto importante nella Storia dell’umanità (MAMONE CAPRIA 1999; 2002). Il cannibalismo dei popoli del nuovo mondo ha solevato una grande discussione sul carattere etico di questa pratica. Montaigne in uno dei suoi saggi se ne è occupato:

We may then call these peoples barbarous, in respect to the rules of reason: but not in respect to ourselves, who in all sort of barbarity exceed them. [MONTAIGNE, p. 95]

Bartolomè de las Casas ha scritto una serie di libri in cui ha raccontato che i popoli dell’America Centrale sono stati annientati in accordo con un programma di sterminio portato a termine con grande crudelità dai colonizzatori spagnoli. Alla corte spagnola del secolo XVI ebbe luogo un dibattito sulla natura dei popoli che allora vivevano in America. In posizione contraria a Montaigne e a las Casas, che consideravano che questi popoli avevano dignità – perché esseri umani come gli europei – si trovava Juan Gines Sepulveda, che adottò la tesi della "essenziale sottomissione dei popoli inferiori" che giustificava la pratica della schiavitù, della tortura, della morte con metodi crudele e cosi via. Diversi argomenti sono stati utilizzati per giustificare questa tesi, che può essere considerata come un embrione della futura tesi del darwinismo sociale secondo cui nella evoluzione storica i popoli superiori hanno dominato i popoli inferiori perché i primi sono più capaci e intelligenti dei secondi e per questa ragione sono sopravvissuti come tali.

Il professore di diritto Francisco de Vitória della Università di Salamanca, coordinatore del polemico dibattito fra las Casas e Sepulveda, e che era un teologo tomista, affermò nel 1550 che "questi popoli non potevano essere schiavizzati". Inoltre, Francisco de Vitória ha anche ritenuto che questi popoli erano "i veri proprietari delle terre scoperte". Tutto questo è accaduto troppo tardi, perché questi popoli erano già per circa di 90% annientati. Secondo Gonzalo Fernández de Oviedo che aveva un’opinione simile a quella di Sepulveda, già nel 1535 una gran parte di questo popolo nativo era stata eliminata. Lui giustificava questa faccenda dicendo che quella era una gente pigra, selvaggia, peccatrice e che per questa ragione il Nostro Signore ha permesso che fosse eliminata. Il documento di papa Paolo III che affermava che questa gente era fatta veramente di uomini che avevano tutti un’anima è della fine del 1537.

 

6 Una brevissima storia della antropologia

Come abbiamo visto possiamo dire che, per quanto riguarda l’atteggiamento verso il relativismo, ci sono due tendenze in antropologia. La prima è quella che Maybury-Lewis ha chiamato "vale tutto", che è semplicemente l’accettare tutto di qualsiasi cultura che sia stato consolidato dalle tradizione, indipendentemente da giudizi morali, e una seconda è quella che ha come scopo la comprensione delle altre culture per meglio esercitare la tolleranza ragionevole.

Maybury-Lewis considera che la buona antropologia deve adottare un relativismo nel senso della seconda tendenza. È il caso di Erodoto nel secolo V (prima di Cristo), e di Bartolomè de las Casas e di Montaigne nel secolo XVI. Questa tradizione antropologica della comprensione relativa per esercitare la toleranza ragionevole ha guadagnato forza nel secolo XVIII con diversi seguaci di questa posizione nella misura in cui la tendenza razionalista cresceva in Europa. Secondo Maybury-Lewis, se Giambattista Vico già credeva essere possibile una scienza della storia, dopo di lui si credette possibile anche una scienza della società.

La tendenza della comprensione relativa per esercitare la tolleranza ragionevole è stata sostituita dalla tendenza del neodarwinismo sociale. Cosi, la tolleranza ragionevole è stata sostituita dal disprezzo evoluzionista. Non è difficile capire come una teoria originalmente concepita per il mondo naturale sia stata equivocamente generalizzata al mondo culturale. I concetti di selezione naturale e di sopravvivenza del più capace quando generalizzati al mondo umano e culturale hano favorito subito una intrepretazione delle culture secondo una gradazione che andava dalle culture considerate come non civilizzate e primitive fino a quelle pienamente civilizzate, ossia una gradazione che coinvolgeva il pericoloso concetto di superiorità culturale di cattiva memoria in tutta la storia dell’umanità. Il dominio di una cultura in rapporto a un’altra era interpretato come una cosa naturale ad esempio di quelo che succedeva nel rapporto fra le specie animali.

Alla fine del Novecento questo punto di vista favorevole all’evoluzionismo sociale è stato severamente criticato. Per esempio, Franz Boas negli Stati Uniti ha insistito sulla necessità di procedere a miglioramenti dei lavori sul campo, nel senso di costruire una base empirica da contrapporre alle inferenze equivoche ispirate dall’evoluzionismo sociale. Con questa base empirica Boas intendeva che sarebbe stato possibile mostrare le debolezze delle tesi evoluzioniste.

Ciò nonostante, l’antropologo inglese A. R. Radcliffe-Brown aveva serissimi dubbi circa l’antropologia culturale di Boas. Radcliffe-Brown considerava molto vago il concetto di cultura e per questa ragione secondo lui l’antropologia doveva eleggere il concetto più concreto di struttura sociale. Il confronto fra antropologia culturale e antropologia sociale ebbe luogo fino alla metà del secolo XX .

Venne allora una nuova fase delle scienze antropologiche. Il grande antropologo francese Claude Levi-Strauss, che era venuto in Brasile in occasione della creazione dell’Università di São Paulo negli anni 30 del secolo XX, ha svolto un importante ruolo nella creazione della cosiddetta antropologia strutturale, la quale coinvolgeva in maniera intrecciata tanto le strutture della cultura quanto le strutture della società.

Una grande difficoltà riseideva precisamente nella demarcazione precisa del concetto centrale dell’antropologia che è il concetto di cultura. Il concetto secondo il quale la cultura costituisce un insieme standardizzato delle idee che formano la Weltanschaung di una persona singola e di un popolo è stato duramente criticato da chi sosteneva che la cultura non è demarcabile né concettualmente né demograficamente.

I movimenti post-colonialista e post-modernista hano avuto una grandissima influenza sull’establishment antropologico. Il movimento post-colonialista considerava che le analisi prodotte dagli antropologi che lavoravano in una situazione coloniale era marcata da asimmetria e obliquità. Per quanto riguarda la tendenza post-moderna più radicale questa si approssimava al nihilismo. Però Maybury-Lewis considera che "abbiamo imparato dai post-moderni una nuova autoconscienza che ha migliorato la nostra analisi, però dobbiamo fare attenzione nel senso che questa autocoscienza non deve ostacolare la nostra ricerca."

 

7. Il problema della incommensurabilità, del dialogo e della convivenza fra le culture

Nel 1998 il nostro PRODEMA (Pós-graduação de Desenvolvimento e Meio Ambiente) ha organizzato un convegno che ha eletto a tema centrale la importanza della dimensione culturale per quanto riguarda il carattere sostenibile dello sviluppo. In altre parole le persone che hanno partecipato del convegno erano sollecitate a dare risposte alla domanda di come la cultura deve costituire una dimensione imprescindibile di qualsiasi sviluppo che sia sostenibile. Come risultato dei lavori presentati e della discussione suscitata abbiamo pubblicato un libro che ha ricevuto il titolo Cultura e Desenvolvimento (A sustentabilidade cultural em questão). Il lavoro presentato da J.G.W. Marques ha messo in discussione un dilemma profondo.

Marques ha criticato la concezione di sviluppo sostenibile centrata nei concetti di necessità e di solidarietà diacronica come si presentano nel testo della Relazione di Brundtland. Secondo tale Relazione, lo sviluppo sostenibile deve essere tale da provvedere alle necessità della presente generazione senza pregiudizio della provvisione alle necessità delle generazione future. In altre parole non si devono esaurire le risorse in una maniera irresponsabile rispetto al futuro.

Facciamo attenzione che qui si parla tanto di necessità quanto di solidarietà diacronica o solidarietà fra le generazioni. Ambedue i concetti suscitano problemi. Per quanto riguarda la solidarietà fra le generazioni, non siamo ancora riusciti a stabilire un cammino verso il superamento nemmeno della fame nel mondo, che rientra in quella solidarietà sincronica che è più alla nostra portata; e questo nonostante l’opinione pubblica è sempre più consapevole ed attiva su questo aspetto. Però Marques concentra la sua attenzione sul problema delle necessitá.

Ma che cos’è una necessità? Come stabilire un confine tra necessità assolutamente imprescindibili, come l’aria che respiriamo, e i desideri vani come possedere a qualsiasi costo una bella ‘Ferrari rossa’? In altri termini, come stabilire una specie di commensurabilità fra le diverse cose che le varie tradizioni culturali considerano necessità imprescindibili?

Marques studia nuovi esempi e mostra l´immensa difficoltà dell’integrare tutto questo in un solo modello valido e legittimo.

 

8. Conclusione

Dalla discussione precedente siamo arrivati alla conclusione che tanto la ricerca di un nucleo minimo d’accordo fra tutti i popoli, quanto la diversità culturale, in analogia alla diversità biologica, devono essere tenacemente ricercate. Questa diversità culturale deve rispettare i valori essenziali di ogni cultura ma al tempo stesso favorire l’intreccio e l’evoluzione di tutte le culture, perché l’idea di una cultura staticamente demarcabile è uno sproposito. Senz’altro i fondamentalismi impediscono una tale eventuale e ragionevole conciliazione, quindi dobbiamo enfatizzare che soltanto con la pace e la comprensione delle motivazioni profonde degli altri possiamo trovare il cammino più efficace per questo dialogo, il quale richiede grandissimi sforzi da tutti e durante tutto il tempo. Insomma, è un dialogo che deve essere costruito ogni volta e sempre.

Certamente, l’elezione di un consenso minimo, non significa la rinuncia del cuore della razionalitá che è l’atteggiamento critico, ma questa deve essere esercitata al di là dell’imprescindibile rigore etico, anche della necessaria generosità che caraterizza la toleranza raggionevole. È importante avere in mente che le divergenze e le tensioni essenziali sono entrambe irremovibili e questo è un aspetto centrale della complessità umana.

A quanti considerano utopica questa eventuale conciliazione fra un accordo minimo coinvolgente tutti i popoli e la protezione della diversità culturale, dobbiano ricordare che l’unica razionalità che può avere successo in questo difficile campo è quella che prende in considerazione la essenziale complessità del mondo e della natura umana. All’argomento secondo il quale l’accordo minimo e la diversità massima costituiscono in realtà tendenze opposte (propensioni antitetiche) e che per questa ragione è impossibile conciliarle, dobbiamo rispondere che nel mondo della scienza convivono programmi di ricerca antitetici e nonostante tutto capaci di offrire tutti un contributo di rilievo allo sviluppo della conoscenza. Inoltre, complessità del mondo non significa né assurdità del mondo né contraddizione nella realtà.

È anche importante considerare che nonostante la logica non sia capace di offrire una base affidabile per quanto riguarda le questione morale, la base etica della razionalità e della critica è capace di offrire a tutti noi un potente insegnamento. Dobbiamo ricordarci che le raccomandazioni a ‘non esercitare la frode’ e a ‘non fare agli altri quello che non vogliamo che sia fatto a noi stessi’ hanno una radice tanto etica quanto epistemologica, e ciò ci permette di rivisitare il risultato che secondo Popper è il più centrale della teoria di Tarski-Gödel. Ricordiamo che se la comunicazione fra le specie è possibile, allora lo è a molto maggiore ragione quella fra gli uomini. È da questa base etica della razionalità – e non proprio dalla sua base logica – che ci aspettiamo che sia possibile una traduzione "corretta" di una "verità etica profonda" da una cultura a un’ altra. In questo preciso senso pensiamo che la teoria di Tarki-Gödel ci possa offrire una base di analogia molto rilevante che favorisce la tolleranza ragionevole.

Ringraziamenti. Voglio ringraziare Marco Mamone Capria per il suo commento critico.

Note

1 Però nell’appendice "Facts, stardards and truth" alla Società aperta Popper dà una versione diversa della questione. Argomenta che l’assenza di un criterio di verità non implica che la nozione di verità è diventata senza significato, come l’assenza di un criterio di salute non implica che la nozione di salute non abbia significato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

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Inserito: 5 agosto 2005

Scienza e Democrazia/Science and Democracy

www.dipmat.unipg.it/~mamone/sci-dem