ERMENEGILDO CACCESE

MARCO MAMONE CAPRIA

Risposta a un questionario sull'attività di ricerca dei docenti universitari

 

Data: Mon, 12 Dec 2005 22:30:24 +0100
    Da: mamone@dipmat.unipg.it
 Oggetto: Rilevazione sull'attività di ricerca dei docenti universitari
    A: perani@istat.it

   Gent.mi Signori dell'ISTAT,

   abbiamo ricevuto il vostro modulo per la "Rilevazione sull'attività di
ricerca dei docenti universitari" e qualche telefonata di sollecitazione a
rispondere oralmente ai quesiti ivi contenuti. Purtroppo, dopo averne presa
attenta visione, dobbiamo concludere che non è possibile, per noi, accettare i
presupposti di molti dei quesiti elencati.

Il questionario, a parte domande su dati di fatto ufficiali e pubblicamente
disponibili (se abbiamo il dottorato o no, qual è la nostra qualifica e la
struttura universitaria di afferenza ecc.), chiede che si:

a) descriva l'"Organizzazione del tempo di lavoro", fissando percentuali del
totale delle ore di lavoro che si chiede preliminarmente di stimare;

b) quantifichi il tipo di ricerca condotta e anche il peso relativo delle
discipline in cui questa è avvenuta.

Ora, noi siamo pienamente convinti che gli universitari debbano rendere conto di
quello che fanno, e giustificare agli occhi della collettività (e non solo dei
propri colleghi, come per lo più preferiscono fare) l'investimento che questa
sostiene a favore dell'università pubblica. Non credo però che le richieste a)
e b) (punti 3 e 4 del questionario) si avvicino minimamente a questo obiettivo.

In primo luogo, il lavoro di ricerca è qualcosa che ogni ricercatore degno di
questo nome svolge anche dopo essere uscito dal proprio ufficio, e pertanto non
è possibile quantificarlo in termini di "ore di lavoro prestate presso
l'Università". La 3.1 è quindi una domanda ambigua o mal posta. In linea di
principio è legittimo e ragionevole a un ricercatore chiedere quali siano i
frutti dell'impegno di ricerca, ma non quante siano le ore dedicate ad esso.

In secondo luogo, sempre a proposito del punto 3, la suddivisione tra "Attività
didattica"e "Attività di ricerca e sviluppo" in termini di percentuali di ore è
artificiale, sia perché il lavoro di preparazione della didattica (che, come ci
informa una nota, comprende quello di "lettura o correzione" delle tesi di
laurea!) richiede un tipo di impegno del tutto indistinguibile da quello
implicato nella cosiddetta ricerca, sia perché le due attività sono fortemente
comunicanti per chiunque le svolga con un minimo di rispetto per la loro
natura.

Peraltro, e proprio per questo, la "didattica" dovrebbe essere fatta oggetto di
una valutazione almeno altrettanto dettagliata di quella che l'ISTAT riserva
alla "ricerca". Nel pretendere una distinzione in percentuali di ore tra
attività sostanzialmente affini e comunicanti e nel non approfondire il
capitolo della didattica, l'ISTAT consolida uno dei più gravi difetti del
sistema di progressione delle carriere universitarie, che è la sistematica
sottovalutazione della didattica, vista come attività di mera fatica, e come
tale misurabile soltanto in termini del numero di ore dedicato ad essa.

Tra l'attività "didattica" e quella di "ricerca e sviluppo" non trova poi spazio
un'attività importantissima e che si sovrappone largamente ad entrambe, che è
quella di comunicazione e dialogo sulla scienza con il pubblico. Questa voce
dovrebbe impegnare gli scienziati, soprattutto quelli più attivi nella ricerca,
in una misura enormemente superiore a quello che succede attualmente. Il
questionario ISTAT la ignora totalmente e quindi consolida un altro pregiudizio
pericoloso della classe accademica.

Al punto 4.2 si assume una distinzione tra discipline che rende impossibile
classificare la ricerca interdisciplinare, di cui si parla per lo più come di
qualcosa che sarebbe molto auspicabile, ma che anche l'ISTAT, a quanto pare, ha
deciso di ignorare.

L'estensore del questionario compie un'altra opzione ideologica arbitraria e
pericolosa quando classifica la riflessione epistemologica come pertinente alla
"Filosofia ed etica" e quindi agli "Studi e ricerche in ambito umanistico" e non
alle scienze. Riteniamo infatti che niente la società civile dovrebbe più
paventare che il proliferare di ricerche che non includano, anche nella loro
redazione conclusiva in articoli specialistici, il momento della riflessione
epistemologica sulla ricerca stessa. È vero che oggi ciò accade di rado, ma la
cosa va deplorata, non incoraggiata decretando (in maniera del resto anche
storicamente scorretta) l'estraneità tra scienza ed epistemologia. L'ISTAT
avvalora l'idea dello scienziato come mero tecnico, che considera la
riflessione su ciò che fa come un diversivo e non come una sua parte
integrante.

Ci sia lecita anche una piccola osservazione 'tecnica': al punto 4.3 l'estensore
sembra essersi dimenticato del secolo in cui viviamo, e che oltre ai contributi
in forma cartacea, esistono anche quelli in formato elettronico (CD-rom, DVD,
siti Web).

Infine l'intero questionario dà una deprimente impressione di déjà vu. È a tutti
gli effetti il primo stadio di un processo di importazione anche in Italia del
modello della famigerata Circolare A-21, quella con cui il governo USA cercò di
imporre nel 1966 e ancora nel 1980 ai docenti universitari di quel paese la
redazione di "effort reports", basati appunto su percentuali di ore dedicate
alle varie attività. Negli Stati Uniti questa iniziativa si scontrò con una
fortissima opposizione. Speriamo che lo stesso accada anche in Italia.

                                        Distinti saluti,

Ermenegildo Caccese (Dipartimento di Matematica, Università della Basilicata)
Marco Mamone Capria (Dipartimento di Matematica, Università di Perugia)

[Inoltrato all'ISTAT in data 12 dicembre 2005]

 

 

Inserito: 14 dicembre 2005

Scienza e Democrazia/Science and Democracy

www.dipmat.unipg.it/~mamone/sci-dem