PASQUALE SANTÉ
Come si diventa professori universitari: teoria ed esempi
Ringrazio Mamone Capria per avermi invitato a tenere una relazione in questo convegno di grande interesse che purtroppo, per precedenti impegni, non ho potuto seguire quanto avrei voluto.
Una prima riflessione va a mio avviso fatta sul titolo stesso del convegno: come si confrontano scienza e democrazia, e quale rapporto esiste tra di esse all’interno dell’Università italiana, struttura principale cui è devoluta l’alta formazione nel nostro Paese.
Per democrazia si intende una forma di governo in cui la sovranità risiede nel popolo che la esercita per mezzo delle persone e degli organi che elegge a rappresentarlo.
Se questa è la definizione di democrazia, esaminiamola in relazione al mondo dell’Università italiana. Se infatti per popolo, si intende quello degli "addetti ai lavori", può essere definita democratica un’organizzazione in cui un terzo di tale popolo è escluso dal diritto di voto?
Ora in Italia i Ricercatori universitari, più di un terzo del corpo docente, non fanno parte in quanto tali degli organismi di gestione e controllo dell’Università. Solo i loro rappresentanti, non tutti i Ricercatori che insegnano in un determinato Ateneo – sempre quindi in un numero decisamente inferiore rispetto a quello degli altri docenti – possono votare per eleggere, ad esempio, il rettore dell’Ateneo. A me è capitato, ad esempio, di far parte del Senato Accademico della mia Università in quanto rappresentante eletto, e di votare quindi nel massimo organo decisionale dell’Ateneo su questioni anche di una certa rilevanza, e nel contempo di essere escluso dal Consiglio della mia Facoltà, organo ben meno importante, in quanto non eletto tra i rappresentanti dei Ricercatori.
Vi sembra una situazione normale?
Solo questo esempio, ma se ne potrebbero fare degli altri, è sufficiente a mio avviso, a stabilire quanto segue: l’università italiana non rispetta i princìpi elementari della democrazia.
Mi si potrebbe obiettare che potrebbe non essere necessaria la democrazia in un ambiente che dovrebbe produrre scienza, ma ciò dovrebbe essere allora valido per tutti coloro che operano nell’Università, e non solo per alcuni (in alternativa il rettore potrebbe non venire eletto dal corpo accademico, ma, calato dall’alto, dovrebbe dimostrare nel corso del suo mandato di operare bene nel perseguire i fini dell’Istituzione).
Ho voluto fare subito riferimento ai Ricercatori universitari perché, nel seguire quel che è accaduto a questa categoria nel corso degli anni, possiamo fare luce su aspetti talora inquietanti e rispondere al quesito su come si diventi professori universitari in Italia. Cercherò di fare il minor numero possibile di riferimenti a leggi precise per non tediare l’uditorio, soprattutto gli ospiti stranieri: l’importante è rendervi partecipi di questa vicenda emblematica, evidenziando di volta in volta le incongruenze del nostro sistema di reclutamento.
Dunque: i Ricercatori nascono a seguito della legge 382 del 1980 per l’inquadramento di tutta una serie di figure precarie. Ad un’ulteriore legge da emanare nei successivi 4 anni si demanda la definizione del loro stato giuridico, che ne sancisca in pratica in via definitiva diritti e doveri. La citata 382 conferisce loro mansioni prevalentemente di supporto all’attività di professori ordinari ed associati.
Vi sembra normale che a tutt’oggi, cioè dopo 23 anni, si sia ancora in attesa di tale legge?
Ci si sarebbe allora aspettati quanto meno che in tutti questi anni i Ricercatori, fascia di reclutamento della docenza universitaria, avessero avuto la possibilità di essere valutati attraverso regolari concorsi da svolgersi, sempre in base a quanto prescritto dalla stessa legge 382 del 1980, con cadenza biennale. Ebbene tra il 1980 e il 1998 sono stati banditi solo 3 dei 9 concorsi programmati. Da ciò sono risultati ovviamente danneggiati anche gli associati nel passaggio alla fascia degli ordinari.
Vi sembra normale una tale inadempienza?
Dunque niente stato giuridico e pochi concorsi. Nel frattempo tutta una serie di leggi minori porta i Ricercatori ad un ruolo "de facto" di docenti a tutti gli effetti (non dimentichiamo che in questi anni si è praticamente compiuta la trasformazione dell’Università italiana da Università di élite a Università di massa, e si è ormai creato un grande bisogno di "manovalanza", ancorché priva di qualsiasi diritto).
I concorsi, come è noto, sono in questo arco di tempo nazionali, con una unica commissione che decreta contemporaneamente tutti i vincitori. Ciò comporta che basta il ricorso da parte di uno solo dei concorrenti perché l’intero procedimento venga ritardato e che quindi tutti i vincitori, e tutte le sedi che avevano bandito i posti, ne risultino danneggiati. Come porre rimedio a tale inconveniente?
Con i concorsi locali, come stabilito dalla legge 210 del 1998 in cui, essendo le commissioni diverse per ciascun concorso, nel caso vi sia qualche ricorso, sarà bloccato solo quel determinato concorso.
Ma torniamo al periodo 1980-1998. In alcune sedi e in alcune Facoltà i concorsi danno luogo a risultati difficilmente giustificabili con i valori espressi dai concorrenti. Solo in casi sporadici i mezzi di informazione si interessano di talune vicende, e si parla allora di "concorsopoli", ma l’interessamento è sempre molto limitato nel tempo (a chi interessa in fondo ciò che accade nell’Università?) e soprattutto superficiale (non si va a fondo sui motivi alla base del malcostume).
Citiamo due esempi: un’interrogazione parlamentare nel caso di un vincitore ad un posto di professore ordinario di Chirurgia che si scopre non essere mai stato in sala operatoria (e qui entrano in gioco i rapporti tra Servizio Sanitario Nazionale e Facoltà Mediche che costituiscono un problema a parte particolarmente delicato) – e vincitore non in una sede secondaria, ma in una delle più importanti del Paese; un altro concorso, sempre di Medicina, in cui i commissari sono addirittura condannati fino al giudizio della Cassazione con motivazioni di estrema durezza. Scelgo a caso tra le motivazioni della sentenza di condanna:
…sull’esistenza di un centro di potere di taluni prof. più in vista, titolari – i più spudorati – di una sorta di "potere di vita e di morte" – da intendersi ovviamente sul piano accademico e quindi professionale – su giovani e meno giovani aspiranti a progredire nella carriera universitaria, taluni dei quali si sono di conseguenza determinati addirittura ad abbandonare il mondo accademico, per loro non più praticabile a causa dell’inimicizia loro riservata da qualche "potente".
[…] In proposito s’impone la preliminare quanto elementare considerazione che le molteplici e roboanti argomentazioni spese da tutti gli appellanti, nel mentre sono totalmente prive di utilità a fini difensivi, hanno notevole efficacia contraria, giacché dimostrano quanto aberrante sia l’approccio dei cattedratici imputati con la materia concorsuale e con le leggi che la regolano e quanto intensa e reiterata sia stata la loro determinazione nel violarle.
[…] È vero pure che vi era un certo numero di "baroni" che detenevano saldamente nelle loro mani il potere di gestire illecitamente i concorsi, per la cura dei loro interessi personali e/o di famiglia, degli appartenenti al loro gruppo di potere (talvolta anche in modo trasversale agli opposti centri di potere, onde ricambiare favori ricevuti o soddisfare obbligazioni in precedenza assunte con l’avversa fazione), e che con la propria attività delittuosa unilateralmente violavano i diritti e calpestavano la dignità umana e professionale degli appartenenti sia all’opposto che al proprio gruppo di potere ed infine di coloro che erano rimasti privi di copertura per morte (o anche solo grave malattia) del "patron" con un cinismo autoritario che non tollerava limiti di sorta, a livelli inimmaginabili per la fantasia dell’uomo medio").
e si potrebbero citare altri casi più o meno simili.
Qui non si tratta di fare del facile scandalismo, ma di sottolineare talune situazioni su cui viene fatto calare troppo spesso un interessato silenzio, anche perché si tratta di episodi che rappresentano verosimilmente la punta di un iceberg.
Vi sembra di poco conto che nel giugno del 1994 venga presentata addirittura una proposta di legge mirante ad istituire una commissione parlamentare di inchiesta, composta da 25 senatori e da 25 deputati, sulle modalità di svolgimento dei concorsi pubblici per l’accesso e la progressione in carriera dei docenti universitari, nonché dei ricercatori e dei tecnologi degli enti di ricerca?
Non solo il fatto in sé costituisce la spia di una situazione profondamente degenerata, ma ancora più gravi sono le motivazioni addotte dalla relatrice, prova indiscutibile della gravità e dell’estensione del fenomeno:
Esiste nel nostro paese una prassi ormai consolidata e comunemente accettata sull’accesso alle carriere accademiche. Tutti sono a conoscenza del fatto che nelle università si creano dei veri e propri potentati personali, in grado di "portare in cattedra" anche personale docente scarsamente qualificato, che ha avuto il solo merito di servire fedelmente, per anni e gratuitamente, qualche "barone", abilmente collegato con enti di ricerca pubblici e privati, in grado di distribuire contributi, finanziamenti, borse di studio, incarichi professionali e quant’altro, dissipando il denaro pubblico in nome di un concetto di cultura piuttosto discutibile. Tutto ciò è stato reso possibile dall’assurda modalità prevista per i concorsi pubblici in questo settore, a partire da quelli per ricercatore universitario fino a quelli per ricercatore o tecnologo negli enti di ricerca. L’elevato livello di preparazione necessario per partecipare a tali concorsi fa sì che il giudizio delle commissioni esaminatrici si basi su valutazioni del tutto arbitrarie, tali da nascondere, per di più impunemente, delle vere e proprie spartizioni, spesso andate di pari passo con i metodi lottizzatori dei partiti politici tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90. Il mondo accademico, per le sue mille intersezioni con alcuni poteri dello Stato – alcuni professori sono deputati, altri magistrati, altri ancora hanno fatto parte di vari governi –, ha finito esso stesso per costituirsi come luogo di potere, con le sue immunità, i suoi ingiusti privilegi, le sue regole non scritte, cui si sono formate generazioni di classi dirigenti.
Ed ancora:
…Qui si prende atto invece di una situazione ancora più amara, che, malgrado l’arbitrarietà consentita dalle leggi, qualcuno è riuscito a portare a conseguenze molto gravi. In molti concorsi pubblici banditi dalle università e dagli enti di ricerca i vincitori sono stati proclamati senza nemmeno badare a frapporre un qualunque pretesto che rendesse il loro ingresso nell’ambito accademico qualcosa di diverso da una semplice cooptazione. Su queste violazioni palesi alla logica dell’interesse generale nell’affidamento di incarichi pubblici, a tempo determinato o indeterminato, dovrà porsi l’attenzione della Commissione parlamentare di cui si propone l’istituzione, allo scopo di chiarire gli intrecci esistenti tra il mondo della ricerca, pura ed applicata, quello delle imprese, quello della politica e quello, infine, di una cultura il cui significato profondo è stato volutamente frainteso.
C’è ben poco da aggiungere a quanto sopra.
Intrecci fra politica e mondo accademico (quanti docenti finiscono in Parlamento? – non è un numero eccessivo rispetto agli altri Paesi europei? – ; e perché proprio nelle Commissioni Istruzione di Camera e Senato?; e perché in questi casi non si parla di conflitto d’interessi?); nepotismo (che ha raggiunto ormai punte inimmaginabili – una volta almeno ci si accontentava di mandare il proprio parente presso un docente amico, oggi lo si trattiene spesso presso di sé, nello stesso Ateneo, nella stessa Facoltà, sovente nello stesso Dipartimento); sperpero di pubblico denaro (in Gran Bretagna esiste da circa cento anni un serio sistema di valutazione della ricerca, da noi solo oggi comincia a muovere i primi passi); ma forse, più di tutto, colpisce il richiamo alla profonda offesa recata alla cultura.
Si potrebbe obiettare che la cooptazione può costituire anche un diritto di un docente (in fondo è comprensibile che un allievo possa essere preferito ad un altro), ma, rileggendo quanto detto appena sopra, un dubbio legittimo nasce sulla neutralità di molte cooptazioni.
A questo punto vale forse la pena tornare alla vicenda dei Ricercatori universitari che nel frattempo, giova ricordarlo, per la gran parte svolgono corsi di ogni livello (laurea, laurea breve, specializzazione, perfezionamento, dottorato, sono relatori di tesi di laurea e di specializzazione), attività totalmente sovrapponibili a quelle svolte dai "veri" professori, come amabilmente si compiace di esprimersi qualche collega delle altre fasce. Dunque nel 1998 (legge 210) sono stati sbloccati i concorsi con una modalità che tra l’altro, come ricordavo, mette al riparo tutti gli altri concorsi, nel caso un ricorso ne blocchi qualcuno. Grande enfasi viene però data all’autonomia delle singole sedi (ciascuna può bandire un concorso quando lo ritiene opportuno e scegliersi, entro certi limiti, il vincitore più adatto alle proprie esigenze). Per inciso va anche detto che logica avrebbe voluto che la riforma dei concorsi fosse stata preceduta da una seria riforma dello stato giuridico di tutti i circa 50.000 docenti universitari italiani (riorganizzare le forze esistenti, darsi una "legge-quadro" per l’Università del futuro, solo in un tempo successivo riformare i concorsi). Così non è stato fatto e solo ora, proprio in questi giorni, sembra che a livello parlamentare si voglia riprendere il discorso sullo stato giuridico di cui, malgrado in molti tendano a sminuirne l’importanza, è ancora l’annosa questione della sistemazione dei Ricercatori a costituire uno dei problemi di più difficile soluzione.
All’avvento della già citata legge di modifica delle regole dei concorsi (chiamati ora "valutazioni comparative"), c’era tutta una generazione di emarginati (Ricercatori e Professori Associati) che si aspettava di essere finalmente valutata per l’avanzamento in carriera. Ma un fatto nuovo era nel frattempo sopravvenuto, ancorché prevedibile: si era aggiunta una nuova generazione di concorrenti (molti anche ormai quarantenni) ed era subentrata una nuova generazione di commissari di concorso. Il risultato inevitabile è stato che, per tacito accordo, è stata ammessa a valutazione prevalentemente solo la nuova generazione (ovviamente con un certo numero di eccezioni). Il tutto è stato favorito dal meccanismo elettivo per la formazione delle commissioni composte, come è noto, da cinque membri. Bastava, e basta, che il "membro interno", eletto dalla Facoltà banditrice, si mettesse d’accordo con altri due per far convergere il maggior numero possibile di voti su di loro e il gioco era, ed è, fatto, la maggioranza assicurata.
Nel caso dei Ricercatori oggi i due/terzi, su 20.00 circa, hanno in media 50 anni, ed inoltre vi sono 6.000 Professori Associati con più di 60 anni di età. L’anomalia è evidente. Come mai un ruolo (quello dei ricercatori) che è di prima formazione, si ritrova a 50 anni ancora in prima formazione? Essi, vale la pena ricordarlo, portano il peso oggi del 40% della didattica, a seguito delle nuove disposizioni sulla stessa didattica in esecuzione del decreto ministeriale 509 del ’99, mantenuto dall’attuale governo, ed inoltre, aspetto non secondario, sono mal pagati.
Quello dell’elevata età media dei docenti universitari italiani è un altro del tutto prevedibile problema di cui in molti sembrano accorgersene solo ora. Entro il 2.017 quasi 25.000 professori, pari a circa la metà circa degli attuali Ricercatori, Associati, Ordinari, lasceranno infatti l’Università italiana. Una voragine, destinata inevitabilmente ad essere colmata con una serie di interventi di emergenza destinati a far avanzare anche personale insufficientemente preparato, si aprirà nel nostro sistema universitario.
Il prof. De Maio, coordinatore del gruppo di consulenti del ministro Moratti, in un recente intervento al CUN ha lamentato che "superate Chiasso e Mentone nessuno più comprende il nostro sistema universitario" e si è chiesto "perché il CUN non ha mai valutato quanto sia stata applicata la legge 382".
Da tutto quanto sopra derivano quelli che, a mio avviso, potrebbero essere alcuni dei rimedi da prendere in considerazione per migliorare l’attuale situazione: