ITALO NOBILE

La comunicazione scientifica come questione filosofica

 

Mai come in questo momento storico, il problema della produzione e circolazione del sapere è attuale ed urgente. Basti fare qualche esempio :

Altro esempio:

 

 

Si possono fare mille altri esempi che possono mostrarci come questioni che ci toccano e ci toccheranno da vicino, ci trovano angosciati e lenti nelle risposte proprio perché ci mancano le conoscenze sufficienti per immaginarne almeno una. Abbiamo il diritto di voto, di associazione, di parola, la libertà di pensiero e tuttavia questi diritti non possono sostanziarsi in uno o più metodi di ricerca e di elaborazione teorica e strategica che ci consentano di affrontare i problemi con cui siamo chiamati a confrontarci, data la massa di dati ed immagini che in maniera confusa e capziosa i mass-media ci elargiscono ogni giorno. Questa asimmetria, questo sfalsamento tra i nostri diritti/doveri e la nostra capacità concreta di esercitarli ha radici lontane, nel tipo di sapere che ha dominato gli ultimi secoli, che ha portato tante conseguenze positive ma che al tempo stesso ha imposto ai processi storici e sociali una scala ed una velocità tali da far perdere ogni possibilità di controllo e di verifica ai singoli individui ed anche a quelle comunità, a quelle associazioni in cui essere inseriti e partecipare ha un senso immediato e riconoscibile.

Questo sapere a cui si fa riferimento, lo si potrebbe definire sapere scientifico-matematico: esso già agli inizi del nostro secolo fu sottoposto ad una critica spietata per la sua astrattezza e per la sua assoluta separazione dal livello di esperienza sensibile ed emozionale a cui siamo più abituati nel corso della nostra vita.4 Il fatto che alcuni dei rappresentanti di questo movimento di critica della scienza (quali G. Gentile, M. Heidegger e il fenomenologo O.Becker) siano stati coinvolti in quei processi di mobilitazione delle masse che hanno portato anche a guerre mondiali, a genocidi, a forti violazioni dei diritti individuali e collettivi,5 non ci esime dal valutare esatta la diagnosi e letale la separazione tra l’ambito teorico e quello sensitivo-emozionale, tra il linguaggio scritto e quello visivo o sonoro, tra le formule e le immagini, tra le qualità primarie e le qualità secondarie.6 Una separazione non sintetizzabile solo nella questione del rapporto tra le "due culture", ma che si riverbera nella chiusura reciproca tra gerghi specialistici ed in quella complessiva tra il linguaggio specialistico e quello "naturale" storicamente in uso ed in continua evoluzione del cosiddetto "senso comune"7. Molti pensano che questo problema si riduca a quello di una buona divulgazione (e si fa spesso l’esempio dell’Inghilterra). Ma la questione è più complessa: la buona divulgazione può operare una traduzione mirabile dal linguaggio specialistico a quello del senso comune, ma non consente l’interlocuzione, rimane una trasmissione a senso unico tra chi sa e chi non sa, dove il secondo termine non può ulteriormente elaborare il sapere a partire da quello che gli è stato trasmesso. Inoltre la divulgazione presuppone l’esistenza di un sapere già compiuto che deve essere solo comunicato, cosa che invece a nostro parere va riconsiderata, come vedremo adesso.

Il problema dunque è quello di effettuare traduzioni e/o di creare linguaggi che consentano un’elaborazione diffusa di saperi, una decodificazione dei gerghi scientifici in linguaggi più simili a quello ordinario, in modo da allargare l’ambito di coloro che possano modulare le conoscenze in maniera da adattarle ai contesti sempre più turbolenti della vita quotidiana ed agli ambiti sempre più complessi in cui si esercitano i nostri diritti di cittadinanza. Per fare questo bisogna adottare un presupposto metodologico che in Italia (negli Usa c’è Dewey ma sino a che punto è stato veramente compreso?) è stato formulato in maniera più esplicita da culture quali il neo-idealismo, che hanno paradossalmente svolto per certi versi una funzione frenante nella nostra cultura: il presupposto metodologico di cui parliamo è quello per cui la comunicazione e la veicolazione dei saperi è parte costitutiva di quegli stessi saperi, per cui un sapere che non si comunica nel linguaggio storicamente e contingentemente dato non è vero sapere. Questo assunto non è senza conseguenze: proprio le scienze cosiddette "hard", quelle con più alto grado di "certezza" e con "magiche" applicazioni tecnologiche sarebbero maggiormente messe in questione. Né si può dire che la tecnologia sia una prova della verità della scienza, se non se ne rende chiaro il rapporto e si dia la possibilità anche alle popolazioni del "Terzo Mondo" di elaborare saperi che tengano conto della scienza e della tecnologia, ai loro contesti materiali e culturali: questo non si è mai fatto (alcune forme di ecologismo stanno abbozzando un approccio in tal senso di ibridazione culturale9) e proprio in virtù di questa storica omissione abbiamo avuto forme di coesistenza irrazionale tra saperi scientifici e principi ideologici e religiosi spesso intolleranti10 (si pensi al nazismo, ma anche al fondamentalismo islamico, dove le scienze sono utilizzate coerentemente alla separazione dei saperi in nome di fini che noi definiamo "barbari"). La chiusura linguistica della scienza la rende una merce buona per tutti gli usi: basta pagare lautamente chi la sa per costruire tutte le armi che si vuole; chi la sa può non conoscerne tutti gli usi, chi paga può tranquillamente dire che la scienza è frutto del demonio e ignorarne i presupposti teorici o metodologici. Ma, tra chi sa e chi paga, c’è troppa gente che subisce, vittima dei poteri e dei saperi. E’ necessario perciò operare quella decodificazione di cui abbiamo parlato, perché poi le decisioni si prendano insieme, senza delegare a nessuno la nostra vita. A questo proposito, Diego Marconi in un articolo sul Sole - 24 Ore11 afferma decisamente che non si può pretendere che gli scienziati presentino le loro tesi in modo che "chiunque" sia in grado di valutarne l’attendibilità; la cosa sarebbe impossibile e chi la pensasse diversamente sarebbe un illuso o un imbroglione. Marconi chiude la questione là dove dovrebbe cominciare: perché la cosa è impossibile e perché chi la pensa diversamente è un illuso o un imbroglione? Torniamo a vecchie platoniche questioni. Da cosa si riconosce un competente? Qual è il criterio che distingue critiche competenti da critiche incompetenti? Se non si vuole affrontare in maniera frettolosa questo problema, va studiato con impegno, se adottiamo una terminologia marxiana12, il rapporto tra la produzione e la riproduzione della scienza. La soglia tra i linguaggi evidenziata da Marconi va superata (o almeno bisogna disperatamente tentare) e non sedercisi sopra con sollievo o con supponenza, quasi che la riflessione di Feyerabend sia solo il ronzio fastidioso di una zanzara.

Più concretamente un "politico", tra la consulenza degli istituti sanitari di ricerca e le marce di degenti speranzosi, non può evitare il barcamenarsi e l’ammiccamento, in quanto da un lato condivide la situazione cognitiva dei degenti e dall’altro trova chi gli annuncia funereo che si potrà fare un’opinione seria della cosa solo con un curriculum che presuppone semplicemente la reduplicazione della sua vita terrena; se però il politico, rimanendo ignorante, accetta il verdetto della "comunità sapiente", lo fa in nome di che? Come se la cava lo scienziato-tipo, che ricusa il principio di autorità nei giorni festivi, per invocare questo principio tutti i giorni feriali, e cioè ogni volta che c’è una decisione da prendere che implichi conoscenze non veicolabili nei tempi di un pubblico dibattito? Questi problemi non sono aggirabili e la democrazia non è solo un principio politico, ma anche un processo cognitivamente rilevante13. Allo stato attuale delle cose, le decisioni vanno prese sulla base delle competenze ricavabili dalla letteratura divulgativa: se non si riesce a comunicare il sapere, non si può gridare all’oscurantismo ed alla demagogia.

In questa polemica purtroppo anche un punto di riferimento indiscusso come Marcello Cini ha parzialmente sconfessato il suo radicalismo materialista-storico ("la storia esterna determina la storia interna della scienza") e cerca di distinguere tra il linguaggio canonico che verte sulla natura (linguaggio tecnico-formalizzato storicamente determinato per rappresentare il patrimonio di conoscenze condivise dagli esperti di una data disciplina) ed il linguaggio metateorico che verte sulla scienza (insieme di proposizioni che esprimono un giudizio su completezza, validità, coerenza, limiti, utilità etc. del linguaggio canonico).14 Per Cini solo quest’ultimo linguaggio può essere oggetto della pressione del contesto sociale, mentre il sacrario del linguaggio specialistico non si tocca! Invece la democratizzazione radicale della scienza necessita la rottura di ogni recinto sacro, il disvelamento di ogni linguaggio chiuso. E’ necessaria la decodifica proprio del linguaggio canonico, decodifica che non è mera volgarizzazione, dal momento che ha la pretesa di essere il linguaggio con cui viene intrapresa la ricerca conoscitiva e non solo il mero ricettacolo del precipitato "volgare" della ricerca stessa.

Ma chi può dare il via a questo processo di traduzione dei saperi ?

E quali sono le operazioni concrete, i modi con cui iniziare la realizzazione di tale programma ?

Gli attori sociali possono ben essere tutti quelli che sono impegnati nella comunicazione del sapere : insegnanti, operatori culturali, sociali e massmediologici, educatori di comunità, genitori, giornalisti, artisti, i quali devono passare dalla oscillazione tra falsificazione mercatistica dei saperi e divulgazione sterile alla costituzione di un sapere che nella comunicazione si realizza compiutamente. Quanto al mezzo riteniamo che la cassetta degli strumenti sia quella tradizione a volte reietta che ha nome FILOSOFIA.

Sembra strano.

Ma forse il fine di trasformazione che il giovane Marx dava alla filosofia passa attraverso una trasformazione del linguaggio e del suo uso.

In questa operazione alcune delle cose da fare sarebbero:

Questa può essere l’alba di una filosofia futura, i cui antecedenti sono Marx, Husserl, Wittgenstein, Whitehead.

Certamente abbiamo di fronte un campo illimitato in cui non può impegnarsi una sola persona: dobbiamo solo cominciare a dissodarlo.

Bibliografia

AA.VV. (a cura di G. Marchetti) 1999: Il Neopragmatismo, La Nuova Italia, Firenze.

Calzolari G. 2001: "Sirchia dice no al metodo Di Bella", Il Giorno, 12 Novembre

Capra F. 1984: Il punto di svolta, Milano, Feltrinelli,

Croce B. 1990: Estetica, Milano, Adelphi, 1990, pp. 3-16.

Greco P. 2001: "Se il politico fa lo scaricabarile", l’Unità, 9 giugno.

Husserl E. 1987: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore.

Ifrah G. 1989: Storia universale dei numeri, Milano, Mondatori.

Lukacs G. 1959: La distruzione della ragione, Torino, Einaudi.

Mann Th. 1997: Considerazioni di un impolitico, Milano, Adelphi.

Marconi D. 2001 "Lo spirito critico e il contar storie", Il Sole-24 Ore, 27 Maggio.

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Pace G. M. 2001: "Tirelli: ‘Cocktail inefficace non servono altre indagini’", La Repubblica, 13 nov.

Spinicci P. 2000: Sensazione, percezione, concetto, Bologna, il Mulino.

Testart J. 2000 "Gli esperti, la scienza, la legge", le Monde diplomatique, Settembre

Whitehead A. N. 1975: Il concetto di natura, Torino, Einaudi.