Marco Mamone Capria

Percezione di rischio, esperti e pseudoscienza

 

Quando [il governo e la classe dirigente medica e scientifica] dicono che qualcosa è sicuro o buono per te, ciò che questo significa veramente è che è sicuro o buono per loro. A loro non importa quello che succede a te. [...] Se c’è qualcuno che proteggerà la tua vita e sicurezza, quel qualcuno non potrai essere che tu.

Irwin Bross, 1987

 

1. INTRODUZIONE*

Una delle circostanze tipiche in cui la comunità scientifica entra in rapporto con i cittadini è quando questi manifestano apprensione nei riguardi di qualcosa. Il qualcosa può essere un apparente mutamento climatico o l’attività di un vulcano o l’evoluzione di un terremoto, oppure qualcosa alla cui nascita la scienza è connessa più direttamente, come l’introduzione di una innovazione tecnologica, con tutto ciò che comporta a livello di sistema produttivo e di utenza.

È chiaro che in tutti questi casi ci sono scienziati che possiedono competenze particolari, che è giusto facciano valere sottoponendo i loro pareri al pubblico. È però anche chiaro che quasi mai una singola specialità racchiude l’intero problema agitato nella società civile. E poiché lo scienziato professionista è tipicamente uno specialista, e spesso in un’area molto ristretta, è improbabile che quanto egli ha da dire sia risolutivo. Ciò crea nel professionista un difficile equilibrio fra il desiderio di dare un contributo al dibattito e la giusta resistenza a fare sfoggio di competenze che non ha. L’equilibrio è in effetti così difficile da mantenere che spesso si rompe, di solito a danno della seconda di queste esigenze.

Il fideismo tecnologico

D’altra parte nei loro interventi pubblici molti scienziati condividono un atteggiamento che non emana dal loro sapere specialistico, ma dal loro fare scienza in generale. Questo atteggiamento è ciò che potremmo chiamare il fideismo tecnologico. Per chiarirne le origini, dobbiamo collocarlo in una prospettiva più ampia.

Il famoso storico della scienza ed epistemologo Thomas Kuhn [1970] ha sottolineato con vigore una caratteristica della ricerca scientifica ordinaria (o, come l’ha chiamata, della "scienza normale") che è in curioso contrasto con quello che spesso passa come l’"atteggiamento scientifico" per eccellenza, e cioè con lo scetticismo. La caratteristica è che il quadro di riferimento (o "paradigma") di una disciplina viene raramente messo in discussione, mentre i conflitti con l’esperienza o le difficoltà interne si configurano professionalmente come "rompicapo" (puzzle) piuttosto che come minacce ai fondamenti della disciplina. Ciò significa, in particolare, che lo scienziato che si imbarca nella risoluzione di un rompicapo non sta mettendo alla prova il paradigma, ma sé stesso in quanto professionista. Il presupposto (molte volte inconsapevole) del suo lavoro è che, con gli strumenti messi a disposizione dal paradigma, il rompicapo ammetta una soluzione, più o meno difficile da trovare. Se poi le questioni aperte si moltiplicano nonostante gli sforzi dei migliori tra i professionisti, allora – e solo allora – si cominciano a nutrire seri dubbi circa la solidità del quadro di riferimento, e quindi a scivolare lentamente verso uno stato d’animo che rende possibile il verificarsi di una "rivoluzione scientifica".

Trasferendo tutto questo al campo delle preoccupazioni dei cittadini ecco che diventa del tutto intelligibile la maniera in cui gli scienziati si pongono rispetto ad esse: questi le interpretano come provenienti o da incomprensione (o più spesso ignoranza) di qualche teoria scientifica accreditata (cioè appartenente al paradigma), oppure dal trasformare una difficoltà – un rompicapo – in una insormontabile difficoltà. Come abbiamo visto, la seconda cosa è l’esatto opposto di ciò che uno scienziato è professionalmente abituato o incoraggiato a fare. Ecco perché i timori dei cittadini gli appaiono in genere incomprensibili e irritanti – sembrano infatti nascere da una per lui incongrua sfiducia in ciò che ‘la scienza’ può fare. Inutile dire che questo approccio non tende certo a favorire un sereno confronto pubblico.

Ciò riguarda la dimensione psicologica, ma per lo scienziato c’è anche l’esigenza di preservare la propria credibilità pubblica, e gli interessi che da essa dipendono. Da ciò scaturisce una regola fondamentale e tacita, e cioè che, ovunque possibile, i problemi si annunciano pubblicamente come tali e se ne ammette la gravità solo al momento di presentare (ipotesi di) soluzioni.

Un esempio molto istruttivo è dato da recenti vicende in farmacologia. La prescrizione di un farmaco è (attualmente e per il futuro prevedibile) qualcosa che rassomiglia all’assegnazione di un biglietto di una lotteria, i cui vincitori sono quei pazienti che dall’assunzione del farmaco trarranno giovamento. Ora, il fatto notevole è che quasi nessuno dei partecipanti a questa lotteria sa quante sono le probabilità di vincere. La ragione di questa ignoranza diffusa è che gli operatori del settore si sono sempre guardati bene dal comunicare questa informazione essenziale (inutile cercarla nei foglietti illustrativi!).

Un’eccezione si è però verificata nel dicembre del 2003, quando Allen Roses, un genetista che è anche vice-presidente mondiale per il settore genetica della maggiore transnazionale britannica del farmaco, la GlaxoSmithKline, ha dichiarato a un convegno che il 90% dei farmaci in commercio è efficace su una percentuale di soggetti che sta tra il 30 e il 50%. In parole, la stragrande maggioranza dei farmaci è inefficace (ma, naturalmente, può avere effetti indesiderati) sulla maggioranza delle persone a cui vengono (correttamente) prescritti.

Un giornalista ha commentato che questa è la prima volta che un importante dirigente industriale abbia fatto in pubblico una simile affermazione, ma che il suo contenuto, nell’ambiente dell’industria farmaceutica, era un segreto di Pulcinella. Come mai informazioni di questo tipo sono adesso rese di pubblico dominio (anche se i giornali ancora continuano a non dar loro molta pubblicità)? La risposta è che l’industria del farmaco sta attualmente cercando di accreditare la sua ipotetica capacità, in un futuro non lontano, di produrre medicine ‘individualizzate’, fatte ‘su misura’ del profilo genetico del paziente. Essa dichiara il problema (le medicine attualmente in commercio funzionano poco o pochissimo) solo per preparare il pubblico a ciò che presenta come la soluzione (la farmacogenomica).

Il difficile dialogo tra "esperti" e cittadini

Durante le polemiche sulla politica nucleare in Italia, sfociate nel referendum del 1987, il contrasto tra la tendenza a minimizzare degli scienziati e i timori dei cittadini emerse ripetutamente con grande chiarezza. Quella della sicurezza non era, naturalmente, la sola questione importante (impostare un indirizzo di politica energetica evidentemente coinvolge l’opzione per un intero modello di sviluppo socio-economico), ma era certo tra le più importanti.

Citiamo a testimonianza un testo significativo di cinque anni dopo scritto in collaborazione da una giornalista e da un fisico favorevole all’uso dell’energia nucleare:

 

Qualsiasi pubblica discussione sull’impiego dei reattori nucleari si conclude perciò, inevitabilmente, con la domanda: "E le scorie?" e con il successivo scontro tra l’esperto che illustra i problemi tecnici di smaltimento e l’interlocutore ambientalista che li dichiara inammissibili per ragioni di principio. L’impressione che quasi sempre resta è che non vi sia, nella dialettica contemporanea, una giusta misura per affrontare problemi di una certa complessità tecnologica con elementi di rischio: da un lato, le valutazioni competenti appaiono sempre come coperture fumogene del pericolo realizzate mediante l’uso di un linguaggio fortemente specializzato; dall’altro, la denuncia del rischio appare sempre come la descrizione di un’imminente e voluta apocalisse senza precedenti storici e, quindi, senza soluzioni "provate". [Bernardini, Minerva 1992, pp. 202-3]

Pur rendendosi conto della situazione di stallo tra i due tipi di interlocutori, gli autori citati non riescono a capacitarsi che i "problemi di una certa complessità tecnologica con elementi di rischio" abbiano diverse ed importanti componenti sulle quali lo specialista non ha alcuno speciale titolo per sostituirsi al cittadino. Così essi se la prendono invece con i politici che ricorrono "a consulenze di comodo o addirittura allo strumento referendario, che apre la strada alle ideologie più ingenue; [...]" [p. 194].

Il solo rilievo che si sentono di poter muovere agli "scienziati" è... un complimento, peraltro largamente immeritato: questi "dovrebbero trovare il modo di portare la loro competenza tecnica fuori dei laboratori in modo altrettanto chiaro e credibile di quanto non lo sia all’interno della comunità scientifica" [ibid.]. All’ovvia obiezione che una scelta come quella energetica deve necessariamente essere inscritta nel più vasto contesto delle ricadute socio-politiche (oltre che ambientali) che essa può avere, reagiscono qualificandola come "pasticcio" che confonderebbe tra "valutazioni politiche" e "valutazioni razionali" [p. 193].

È evidente, in siffatte prese di posizione, il disagio del professionista a riconoscere l’importanza di considerazioni che, per essere estranee alla sua specialità, vorrebbe che fossero anche escluse dalla possibilità di un confronto razionale. Le conseguenze di questa mossa non sono percepite per quello che sono – e cioè disastrose per le sorti del dibattito pubblico – ma minimizzate e addirittura interpretate come un semplice problema di comunicazione tra scienziati e cittadini. In particolare si finge di ignorare che anche "all’interno della comunità scientifica" la problematica dell’energia nucleare ha suscitato e tuttora suscita nette differenze d’opinione.

Sul punto di merito ("E le scorie?") ritorneremo in una sezione successiva.

 

 

Professionisti e laici

È preferibile usare il termine ‘professionista’ invece di quello di ‘esperto’ quando ciò che abbiamo in mente non è il possesso di un’effettiva competenza, ma la pratica professionale di una certa disciplina. Di esperti (nel senso vero del termine) se ne trovano infatti sia tra i professionisti che tra i non professionisti (che chiameremo laici); e anzi, nelle questioni che valicano i confini tra le discipline l’essere un professionista è più spesso una controindicazione che non un titolo di credito. Il ruolo rivestito di fatto dal professionista è quello di presunto esperto in contesti ufficiali. Ma è necessario stabilire caso per caso se e in che misura questa presunzione corrisponda alla realtà.

Il termine ‘professionista’ è anche utile perché suggerisce l’appartenenza a un gruppo (corporazione, ordine) che spesso ha una sua organizzazione interna, organi di controllo, uffici di relazione con il pubblico ecc.: in altre parole una struttura che lotta per la propria sopravvivenza e, subordinatamente, per gli interessi dei suoi membri. Che questa lotta possa entrare in conflitto con gli ideali della professione è un fenomeno prevedibile che di fatto si è verificato moltissime volte nella storia delle professioni, a vari livelli di gravità. Parlare di ‘esperti’ nel modo in cui spesso si fa induce a ignorare questa dimensione conflittuale tra ideali e realtà istituzionali.

La razionalità della paura

Un corollario del fideismo tecnologico è che le paure dei cittadini circa le conseguenze di una certa tecnologia sarebbero sempre "irrazionali". È molto difficile reperire in tutta la letteratura scientifica una valutazione positiva della paura. Eppure è chiaro che esistono paure razionali. Una paura è razionale quando tende a inibire comportamenti che possono creare problemi intrattabili (allo stato dei mezzi e delle conoscenze del soggetto) e la cui mancata soluzione porta con sé gravi conseguenze.

Per esempio, se non si sa nuotare e si ha ragione di supporre che non si riuscirà ad impararlo in pochi secondi dopo essere caduti in acqua, allora si fa bene ad aver paura delle acque profonde. La paura razionale è appunto la traduzione della comprensione di una difficoltà in un’emozione che blocca il comportamento rischioso. La comprensione dei limiti dei poteri umani, e della scarsa propensione ad ammetterli da parte di corporazioni professionali, non è pessimismo, è parte della conoscenza di se stesso che l’uomo può e, nel proprio interesse, dovrebbe cercare di raggiungere.

 

2. DUE COMPITI PER IL SENSO COMUNE

In generale il parere dei professionisti non gode di una credibilità intrinseca ove non si verifichino alcune condizioni che è facoltà del laico valutare. La cosa vale, naturalmente, anche quando si tratta di professionisti della scienza, cioè di scienziati.

Quale credibilità hanno gli scienziati? Un primo compito

Per esempio, è plausibile pensare che un certo tipo di soluzione del problema energetico piaccia al settore della comunità scientifica che sarà investito di particolari responsabilità – e quindi di particolare potere e credito – qualora quel tipo di soluzione venga adottato in sede politica, e quindi con il volume eccezionale di investimenti pubblici e privati che di solito ne consegue. Non è ragionevole pensare che questa circostanza possa indurre gli scienziati appartenenti a quel settore a sottovalutare le difficoltà coinvolte? Che uno scienziato si senta stimolato e sedotto da un problema "di una certa complessità [...] con elementi di rischio" è comprensibile e, fino a un certo punto, ammirevole. Ma è altrettanto comprensibile (e sano) che il cittadino comune possa guardare a questa circostanza come a un elemento che mette in pericolo l’obiettività del professionista, e tener conto di questo aspetto nel momento in cui deve valutare quanto lo scienziato gli dice.

Un altro dato inquietante è il coinvolgimento di una grande massa di scienziati in un tipo di ricerche, quelle su armi di distruzione di massa, che hanno aumentato vertiginosamente i rischi di estinzione della civiltà umana senza aver diminuito quello di "guerre convenzionali". Uno dei tre scopritori della struttura del DNA, Maurice H. Wilkins, in un’intervista concessa nel 1985 sottolineò con acume questo punto:

La maggior parte degli scienziati oggi si allontanano sempre più dallo scopo fondamentale della scienza di realizzare l’unità, per spostarsi verso modi di pensare piuttosto limitati e senza molta apertura mentale, e stanno facendo quello che fanno semplicemente per soddisfare bisogni materiali limitati. In particolare, circa la metà degli scienziati in tutto il mondo sono attualmente impegnati in programmi di guerra. Questo fatto scandaloso non riceve abbastanza attenzione. Si può dire che la scienza è una nobile attività se circa la metà degli scienziati in tutto il mondo stanno lavorando su modi di distruggere altri esseri umani?

E poco dopo, a proposito del programma di ricerca spaziale e dell’energia nucleare per "scopi pacifici":

Quello che non capivo era che fin dall’inizio l’intero programma spaziale americano era largamente basato su esigenze militari. Ciò fu tenuto nascosto al pubblico.

È lo stesso con le politiche di sviluppo dell’energia nucleare in questo paese [la Gran Bretagna], che sono sempre stati spacciati al pubblico come "atomi per la pace". In realtà, queste politiche avevano un’importantissima connessione con esigenze militari proprio fin dall’inizio. Il governo lo tenne nascosto al pubblico perché pensava di saperla più lunga degli altri e di essere moralmente giustificato nel fare così. Penso che la vera misura in cui tutta la scienza in tutto il mondo è indirizzata e prodotta [borne along] da esigenze militari non è stata ancora pienamente compresa.

Certo, come queste e altre citazioni dimostrano, "non tutti" gli scienziati sono ciechi o moralmente insensibili a tali fondamentali aspetti etico-politici; ma questa – tante volte ripetuta – è davvero una misera consolazione. Se la metà della ricerca scientifica mondiale è direttamente connessa con la progettazione di strumenti di morte, che senso ha compiacersi che c’è tuttavia qualche scienziato che ne prende le distanze? Qual è il peso politico della minoranza di scienziati eticamente e politicamente consapevoli e impegnati? Per non dire che anche l’altra metà della ricerca scientifica, pur non avendo finalità belliche, è tuttavia largamente impostata e manipolata a fini di profitto privato, e anche per questo è stata ed è fonte di gravi rischi per la collettività.

Un altro punto che merita di essere sottolineato è la differenza di giudizio esibita molto frequentemente dai professionisti, non solo su questioni morali o politiche, ma anche squisitamente tecniche. Questa differenza implica che non si possono risolvere i dubbi appellandosi all’unanimità dei consensi (ammesso e non concesso che questo criterio fosse raccomandabile). D’altra parte, se su una questione i presunti competenti divergono, ciò vuol dire che la presunzione di competenza non basta a risolvere la questione. Ne segue che una volta che i professionisti sono stati sentiti, è necessario, per decidere tra i loro pareri, fare appello a criteri esterni alla presunzione di competenza. Dunque non ha senso escludere i laici dal prendere posizione allegando che essi non si possono presumere o non sono competenti.

I criteri esterni appartengono, in parte, a quella che si può chiamare sociologia del senso comune, cioè il tipo di interpretazione delle azioni umane (comprese le dichiarazioni e altri atti di comunicazione) che ci impegna in gran parte della nostra vita sociale. I ‘veri’ sociologi fingono di solito di prendere le distanze da questa forma di sociologia, anche se di fatto molte delle loro scoperte (se attendibili) non sono che verità di senso comune più o meno abilmente travestite con una terminologia esoterica. Ciò che qui importa sottolineare è che questa facoltà conoscitiva è essenziale anche per stabilire che uso fare dei contributi tecnici degli scienziati.

Quanta razionalità c’è nella ricerca scientifica? Un secondo compito

È importante rendersi conto che la ricerca scientifica può essere giudicata dal laico anche per quanto riguarda la sua intrinseca razionalità. Questa pretesa può sembrare a tutta prima eccessiva, data la disputa interminabile nel secolo scorso se esista e in che cosa esattamente consista la razionalità scientifica. E tuttavia se non ci si lascia sviare dalle fitte cortine di fumo generate in questa come in tante altre dispute accademiche, ci si rende conto che vi sono criteri accessibili e solidi che permettono di distinguere anche nell’operato degli scienziati tra ciò che è razionale e ciò che non lo è; tra ciò che è affidabile e ciò che è inaffidabile; tra ciò che è scienza e ciò che è falsa pretesa di scientificità – o pseudoscienza.

Criteri di pseudoscienza che possono spesso essere applicati con profitto sono i seguenti:

1) l’ambiguità e l’incoerenza interna;

2) la mancata riproducibilità dei risultati o la mancanza di tentativi di riproduzione;

3) il rifiuto di prendere sul serio le confutazioni empiriche.

La ragione per cui è importante che il laico faccia ricorso a questi criteri è che la linea di separazione tra scienza e pseudoscienza, in generale, passa anche attraverso ciò che è classificato come ‘ricerca scientifica’ in una certa società. L’idea che la definizione sociale di ‘scienza’ coincida con la sua definizione normativa è tanto ingenua quanto pericolosa.

La storiografia laica di Machiavelli, Guicciardini e Sarpi ci ha già da secoli abituati all’idea che i rappresentanti ufficiali di un certo credo religioso possono benissimo deviare sistematicamente da ciò che è più essenziale a quel credo. Per esempio, nel Cinquecento era possibile a Machiavelli citare come modello perfetto di principe fraudolento un papa cattolico, di cui dice che "non fece mai altro, non pensò mai ad altro che ad ingannare uomini", e più in generale, affermare che era alla straordinaria corruzione del Vaticano che si doveva se gli italiani erano "diventati sanza religione e cattivi". Il fatto che la religione cattolica condannasse i comportamenti di cui i suoi ministri erano accusati non rendeva l’affermazione di Machiavelli incredibile ai suoi contemporanei. Oggi invece, per quanto riguarda la scienza anche se – probabilmente – non la religione, sembra che prevalga ancora una visione della sua pratica che ritiene gli scienziati, non si sa come, garantiti in quanto tali dalle cadute nella pseudoscienza o in vari tipi di frode, come l’adulterazione dei dati empirici. L’emancipazione da questa nozione infantile è altrettanto essenziale al progresso dell’umanità quanto lo è stata quella nata dalle acquisizioni dei grandi storici suddetti.

Nella parte 3 daremo alcuni esempi concreti dell’intreccio tra valutazioni tecniche, sociologiche ed epistemologiche che necessariamente intervengono nelle controversie pubbliche che coinvolgono la scienza.

 

3. RISCHI DA TECNOLOGIE NUOVE

Come ci si deve comportare di fronte a una nuova tecnologia che l’industria ha immesso, o vuole immettere, in un ambiente di lavoro o nella vita quotidiana dei cittadini? Che tipo di garanzie è possibile ottenere, e che livello di rischio è da considerare accettabile?

Sono, queste, domande a cui è difficile rispondere in generale, e soprattutto la seconda entra nel cuore di ciò che si chiama politica. In effetti ciò che è ‘accettabile’ per un gruppo di persone unito da certi interessi spesso non lo è per altri gruppi di persone che fanno riferimento ad altri interessi. L’idea che i conflitti sociali nascondano sempre un obiettivo comune che i contendenti perseguono senza rendersene conto è facilmente confutabile. In effetti alcuni obiettivi sono realmente incompatibili, senza che ciò significhi che il confronto razionale non possa spesso portare a conversioni o almeno a mediazioni.

Già Menenio Agrippa si trovò con un compito non facile quando dovette persuadere i plebei che essi erano le braccia, le gambe ecc. di un corpo il cui stomaco era rappresentato dai patrizi. E gli andò bene, perché i plebei avrebbero potuto facilmente ritorcergli che, anche accettando la graziosa similitudine, non era ancora chiaro perché mai non potessero essere loro lo stomaco. Platone aveva descritto nella Repubblica una strategia di indottrinamento mirata ad evitare che una replica come questa potesse anche solo essere pensata: bisognava convincere fin dalla fanciullezza il popolo che gli uomini non sono uguali, ma che appartengono a razze diverse – aventi valore, compiti e diritti diversi. Ma oggi questo tipo di approccio non è più tanto apprezzato dai cittadini istruiti. Chi parla di ‘rischio accettabile’ deve quindi fare i conti con tale importante e salutare mutamento di clima ideologico.

In questa parte dell’articolo esamineremo brevemente alcuni episodi che vertono tutti, in un modo o nell’altro, sulla richiesta di riconoscimento ufficiale di un rischio sanitario e sul tipo di resistenza incontrata. Cominceremo dando qualche riferimento storico e qualche nozione di base sull’entità fisica alla base di tutti questi episodi tranne l’ultimo.

Radiazioni

Con gli esperimenti di Hertz del 1888 si affermò la teoria secondo cui la luce visibile (dei vari colori) è solo un piccolo sottinsieme di una classe di processi ondulatori che hanno in comune l’origine fisica (che è l’elettromagnetismo) e che si propagano nel vuoto alla stessa velocità c.

Nel 1895 Röntgen scoprì i raggi X, che erano in grado di impressionare una lastra di platino ricoperta di cianuro di bario, e permettevano così di ‘fotografare’ le parti più dense all’interno del corpo umano. Che i raggi X fossero onde fu provato da von Laue nel 1912, con esperimenti di diffrazione, e l’anno dopo i Bragg (padre e figlio) ne misurarono la lunghezza d’onda (circa 10-8 cm).

Le onde elettromagnetiche si classificano appunto per mezzo della loro lunghezza (o, alternativamente, la loro frequenza). In ordine di lunghezza d’onda decrescente troviamo le onde radio (tra i 3 km e i 3 m), l’infrarosso, la luce visibile (tra 4 e 8 centomilionesimi di cm), l’ultravioletto, i raggi X e i raggi gamma. Lunghezza l e frequenza f di un’onda sono legate alla velocità c dalla semplice relazione c=lf, dove, se l è misurata in metri, c vale circa 300 milioni di metri al secondo.

Nello stesso 1895 e nei due anni successivi furono eseguiti, da Popov e Marconi, esperimenti che mostrarono un’altra possibilità di applicazione tecnologica delle onde hertziane, e cioè la trasmissione di segnali. Marconi nel 1901 effettuò la prima trasmissione transoceanica, dagli Stati Uniti all’Inghilterra.

Nel 1896 e nel 1898 fu invece scoperta la radioattività naturale, da parte di Becquerel e dei coniugi Curie, che consiste nel fatto che taluni elementi (come uranio, torio, polonio, radio ecc.) emettono spontaneamente raggi di vari tipi (denominati alfa, beta e gamma). In particolare i raggi gamma sono una radiazione elettromagnetica di lunghezza ancora minore di quella dei raggi X (meno di

10-9 cm). Con il termine radiazioni ionizzanti sono oggi denominate sia le onde elettromagnetiche di piccolissima lunghezza d’onda o, equivalentemente, altissima frequenza (raggi X e raggi gamma principalmente), sia flussi di particelle elementari ad alta energia. Nel 1899 Marie Curie mise in evidenza che un corpo non radioattivo, posto vicino a uno che lo è, lo diventa anch’esso per un certo periodo di tempo (radioattività temporanea), il che rende conto della possibilità di contaminazione radioattiva di terreno, acqua e atmosfera – fin troppe volte verificatasi nel secolo successivo, per effetto dell’impiego militare o civile dell’energia nucleare (ne dovremo riparlare).

La radioattività può essere anche prodotta artificialmente, colpendo un elemento non naturalmente radioattivo con particelle di vari tipi (per esempio con ioni positivi). Questo effetto fu messo in evidenza da Irène Curie e da suo marito, Fréderic Joliot, nel 1934; si deve a Fermi e ai suoi collaboratori a Roma, l’anno dopo, la scoperta che le particelle più efficaci con cui bombardare una sostanza per renderla radioattiva erano neutroni rallentati. Non furono tuttavia i fisici italiani, bensì i tedeschi Lise Meitner e suo nipote Otto Frisch a interpretare nel 1938 gli esperimenti della scuola romana, poi ripetuti da Hahn e Strassmann, in termini di fissione (‘spaccatura’) del nucleo atomico dell’elemento bombardato. Gli esperimenti di fissione portarono di lì a poco alla produzione di elementi transuranici, non esistenti in natura, come il nettunio (numero atomico 93) e il plutonio (n. a. 94) e i loro isotopi (elementi con lo stesso numero, ma diverso peso atomico).

La radioattività artificiale può produrre reazioni a catena con esito esplosivo o, se opportunamente moderata, calore e quindi energia utilizzabile per fini non (necessariamente) distruttivi. La fissione nucleare a catena, autosostenuta ma – appunto – controllata, fu realizzata da Fermi a Chicago nel 1942 (pila di Fermi); questo fu un passo decisivo per la costruzione di due delle tre bombe atomiche (una all’uranio e due al plutonio) costruite negli Stati Uniti nel quadro del cosiddetto Progetto Manhattan, e precisamente delle due bombe al plutonio, una delle quali fu ‘provata’ nel deserto del New Mexico ad Alamogordo, e l’altra gettata con esiti devastanti su Nagasaki.

La scoperta delle maniere in cui si producono le onde elettromagnetiche di varie lunghezze aprì un territorio immenso e inesplorato alla tecnologia, non solo militare ma anche medica, che avrebbe rivoluzionato la vita quotidiana delle persone in tutto il mondo. In effetti l’apprensione creata dalle radiazioni nei cittadini ha molto meno a che fare con il "mistero" della loro invisibilità (come a volte si sostiene), quanto, al contrario, con i loro effetti, dimostrati in maniera evidente e nelle più diverse circostanze fin dai primi anni dopo la loro introduzione (per non dire delle radiazioni note da sempre, come la luce visibile e la radiazione termica).

D’altra parte è un fatto che lo sfruttamento tecnologico o anche solo di laboratorio delle varie radiazioni precorreva di gran lunga la conoscenza dei rischi connessi. Gli stessi scienziati che operarono per primi con le nuove entità non si premunivano a sufficienza, e spesso si ammalavano: sono ben noti, per esempio, i casi di Marie Curie (1934) e di sua figlia Irène (1956) che morirono entrambe di leucemia, rispettivamente a 66 e 58 anni. Ma già prima della fine del Novecento l’esposizione ai raggi X aveva dato luogo a 170 casi registrati di danno alla salute, tra cui anemia, vari tipi di cancro, cateratte e ustioni. Alla fine della I guerra mondiale si stima che in conseguenza della sovraesposizione a raggi X fossero morti 100 radiologi.

 

3.1 Radiazioni ionizzanti

È oggi ufficialmente riconosciuto che le radiazioni ionizzanti sono mutagene (cioè alterano il DNA) e cancerogene, anche se il dibattito sull’effetto delle basse dosi è stato molto tormentato.

La lotta per ottenere e diffondere informazioni attendibili sui rischi da radiazione fu combattuta da pochi, tra professionisti e laici, e costò a quei pochi parecchi sacrifici. In particolare, come vedremo, il grosso della comunità scientifica, in larga complicità con la grande industria, cercò di far passare i rischi come inesistenti o trascurabili, e questo prima che se ne sapesse qualcosa di definitivo e sebbene ci fossero buone ragioni per sospettare il peggio; fece poi ostruzionismo a quei ricercatori che misero nero su bianco i primi risultati positivi; e cooperò al ritardo della emanazione di misure che proteggessero i cittadini. Questi sono fatti storici ormai stabiliti che dovrebbero essere insegnati nelle scuole e tenuti presenti quando si tratta di valutare l’attendibilità e la devozione al bene pubblico degli scienziati.

Radiografie di donne incinte

I raggi di Röntgen portarono presto all’uso sempre più comune della radiografia come strumento diagnostico e terapeutico, anche in situazioni in cui non era efficace o indispensabile: come, ad esempio, nei disturbi mestruali e nel controllo di quanto bene calzasse una scarpa. O nella cura dell’acne. Un medico statunitense rievocherà, parlando delle terapie degli anni Sessanta:

Vent’anni fa, a decine di migliaia di vittime di acne si davano trattamenti a base di raggi X, nello sforzo di controllare o di eliminare la malattia. Di fatto, io stesso prescrissi questi trattamenti. I risultati di questo comportamento pericoloso e irrazionale sono oggi evidenti in quella che è praticamente un’epidemia di tumori alla tiroide, alcuni dei quali maligni, tra gli esposti alla catastrofica radiazione per questa e altre condizioni.

Negli anni Cinquanta l’epidemiologa inglese Alice Stewart (1906-2002) decise di approfondire le cause dei tumori "infantili" (che cioè colpiscono bambini di età tra 0 e 14 anni) e spedì a un campione di donne, che nel triennio 1953-1955 avevano visto morire il figlio di qualche tipo di tumore, un questionario su che cosa avessero fatto di notevole durante la gravidanza. Erano tornate appena 35 risposte che ella si rese conto del fatto che per le madri essersi sottoposte anche a una singola radiografia durante la gravidanza quasi raddoppiava il rischio di aborti o di cancro infantile nei figli.

In effetti tra i vari usi che si facevano normalmente delle radiografie all’epoca c’era quello di radiografare le donne incinte allo scopo di valutare lo stato del feto. Come dirà più tardi la Stewart in un’intervista, i raggi X "erano il giocattolo preferito della professione medica".

Quando i risultati della Stewart furono pubblicati, suscitarono una reazione violentissima, soprattutto da parte di fisici e radiobiologi, a cui si unirono, con la loro autorità, i comitati dell’ICRP (la Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni), a dire dei quali le basse dosi di raggi X a cui ci si esponeva nel corso di una radiografia erano totalmente innocue.

Per punizione la Stewart non ricevette più finanziamenti governativi di grossa entità. Ciò nonostante, negli anni sessanta e settanta, insieme allo statistico George Kneale, continuò le sue indagini in questa direzione, ottenendo ulteriori conferme soprattutto nei casi in cui le radiografie erano state fatte ai primi stadi della gravidanza. Si venne così formando la base di dati di ciò che sarebbe stato chiamato l’Oxford Survey of Childhood Cancer.

Fu solo negli anni settanta che organismi medici ufficiali riconobbero che il rischio segnalato dalla Stewart era reale, ed emanarono la raccomandazione di evitare radiografie alle puerpere. Le principali associazioni mediche statunitensi si decisero solo nel 1980; quello stesso anno furono radiografate 266.000 donne incinte.

Nel 1986 alla Stewart fu assegnato, insieme alla canadese Rosalie Bertell, il Right Livelihood Award, il cosiddetto "premio Nobel alternativo" che il parlamento svedese conferisce il giorno prima della cerimonia dei premi Nobel propriamente detti. La motivazione fu: "per aver portato alla luce contro l’opposizione ufficiale i veri pericoli della radiazione a basso livello". In quell’occasione, a conferma che il riferimento all’"opposizione ufficiale" era ancora attuale, l’ambasciata britannica a Stoccolma si rifiutò di mandare, come d’uso, un’auto per accogliere l’ottantenne scienziata all’aeroporto.

Oggi tutti, sia tra i medici che tra i laici, sanno che in gravidanza una radiografia è pericolosa per la salute del feto (soprattutto nei primi due trimestri), ma pochi sanno quanto ci volle perché questa opinione fosse accettata dalle autorità mediche. È anche evidente che il merito fu soprattutto della singolare personalità e indipendenza di alcuni studiosi, in lotta contro il grosso dell’ambiente scientifico in cui operavano. Di questo fenomeno troveremo conferme negli altri episodi di seguito riportati.

Mammografie

Ancor meno nota è la vicenda che riguarda i rischi di un altro uso diagnostico della radiografia. In quegli stessi anni Settanta il National Cancer Institute negli Stati Uniti varò un costoso programma diagnostico di massa che prevedeva l’esecuzione di mammografie su donne sane, allo scopo di cogliere nella fase incipiente eventuali processi degenerativi.

Irwin Bross, allora direttore del Biostatistics Department del Roswell Park Memorial Institute, era impegnato nella continuazione di un grande studio statistico, il "Tri-State Study" (coinvolgente un totale di 15-16 milioni di persone dai registri dei tumori degli stati di New York, Maryland e Minnesota), che era nato appunto per controllare le tesi della Stewart. Bross, insieme ai suoi collaboratori, estese l’analisi agli effetti delle radiografie in ogni ambito, e in particolare nella diagnosi di tumore al seno.

Bross descrive così la situazione che si venne a creare:

Con l’aiuto di Mr. Natarajan, Dr. Rosalie Bertell e altri del mio gruppo, in breve tempo stavamo producendo nuovi importanti risultati, e stavolta erano enunciati in semplice inglese, invece che nei gerghi rispettabili ma inintelligibili dell’epidemiologia. I risultati, pubblicati in una serie di stimate riviste mediche richiamarono all’attenzione dei medici i seri rischi dei raggi X diagnostici, sebbene i livelli usati fossero ufficialmente "innocui".

Una delle più sconcertanti conclusioni di Bross fu che il numero di tumori causati dalla suddetta campagna di mammografie sarebbe stato molto superiore a quello dei tumori evitati grazie a una eventuale diagnosi precoce: per ogni tumore evitato ce ne sarebbero stati 4-5 causati dalle mammografie di massa.

L’idea convenzionale di come la scienza procede di fatto vorrebbe che a questo punto le dichiarazioni di un professionista della statura e della reputazione di Bross determinassero una drastica revisione delle linee guida sulle radiografie, e che egli fosse candidato al Nobel, per lo straordinario contributo così dato alla salute pubblica. Ciò che veramente accadde è invece di segno un po’ diverso:

Questi risultati erano particolarmente allarmanti per i radiologi che erano strenui difensori del mito [dell’innocuità delle basse dosi di radiazioni ionizzanti]. I radiologi originalmente associati al Tri-State Study erano abituati a riscrivere i risultati a proprio piacimento, e quando non ebbero più questa possibilità diventarono piuttosto antipatici. Uno di essi era così infuriato per il fatto che dicevo pane al pane e vino al vino su una delicata questione medica, che mi disse che mancavo di professionalità. Disse pure che avrebbe denunciato la mia condotta a una commissione medica che mi avrebbe tolto il titolo di medico!

Quanto al premio Nobel... in poche settimane il National Cancer Institute (NCI) tagliò i fondi al Tri-State Study, e i 9 collaboratori di Bross si videro costretti a cercare lavoro altrove. Nel 1983 egli stesso dette le dimissioni dal Roswell Institute.

Dato il tempo di incubazione dei tumori (15-20 anni), fu solo nel 1986 che si poté constatare la fondatezza della predizione di Bross: in quell’anno il NCI dovette ammettere un aumento "inaspettato" (unexpected) e "privo di spiegazioni" (unexplained) del tasso di mortalità per tumore al seno. Ma questo fatto non modificò la politica di promozione delle mammografie da parte del NCI e della American Cancer Society, che anzi si intensificò.

Tuttora in alcuni paesi (compresa l’Italia) alle donne dopo una certa età arrivano lettere a casa in cui si fissa la data e l’ora dell’esame, e talvolta si chiede anche di fornire spiegazioni nel caso che non si accetti l’invito; queste lettere affermano l’utilità della mammografia, sostenendo che una diagnosi precoce permette di curare la malattia senza devastazioni chirurgiche. Una valutazione recente in merito, che si legge sul British Medical Journal, è tuttavia diversa, e si avvicina di più a quanto avanzato da Bross:

non ci sono prove affidabili che mostrino che gli esami al seno salvino vite; questi esami portano a fare un numero maggiore di interventi chirurgici, comprese le mastectomie; e si stima che più di un decimo delle donne sane che entrano in un tale programma di esami fanno esperienza di una considerevole angoscia per molti mesi. [Gøtzsche 2002, p. 891]

Nonostante le perplessità di Bross siano state avvalorate in questa ed altre pubblicazioni, non si deve pensare che l’informazione sia diventata nel frattempo più circospetta e prudente. Un’indagine su 27 siti Internet di paesi scandinavi e di lingua inglese, 13 dei quali gestiti da gruppi di pressione (quali associazioni per la ricerca sui tumori), 11 da istituzioni governative e 3 da associazioni di consumatori ha rivelato che solo gli ultimi 3 avanzano dubbi sull’utilità delle mammografie, mentre gli altri 24 le raccomandano, fornendo materiale "povero di informazione e gravemente distorto a favore degli esami" e violando le regole ufficialmente accettate sul consenso informato. I gruppi di pressione suddetti accettano finanziamenti dall’industria, "a quanto pare senza restrizioni", e senza mostrare consapevolezza dell’evidente conflitto di interessi.

Gli episodi qui ricapitolati mostrano dunque che quando i professionisti (e gli organismi ufficiali che li rappresentano) sembrano preoccuparsi della nostra salute, non è detto che ciò che ci consigliano ci faccia più bene che male, e che il cittadino fa bene a procurarsi un’informazione il più possibile completa sul contesto in cui quelle preoccupazioni vengono espresse e attivate.

NOTA. Recenti studi (Berrington de González, Darby 2004; cfr. Herzog, Rieger 2004) stimano per la Gran Bretagna in 0,6% il rischio di cancro (in persone di età fino a 75 anni) dovuto alle radiografie, cioè un totale di 700 casi all’anno, e che fino al 30% delle radiografie toraciche "potrebbe essere non giustificato". Considerazioni connesse, tra cui la saggia raccomandazione di sottoporre al paziente una dichiarazione di consenso informato per ogni esame radiologico, si trovano in Picano 2004.

Radioattività

Le bombe atomiche fatte cadere su Hiroshima e Nagasaki avevano fornito un vasto campione di persone – i sopravvissuti – su cui misurare gli effetti delle radiazioni nucleari. I risultati di queste indagini fornirono i valori accettati che furono in seguito utilizzati per stimare il rischio cancerogeno dell’esposizione cronica a basse dosi di radiazioni ionizzanti, come quelle a cui erano sottoposti i soldati statunitensi inviati come truppe di occupazione nelle due città giapponesi. La questione divenne ancora più importante politicamente quando gli Stati Uniti iniziarono i test nucleari atmosferici, in Nevada negli anni 1951-1955, 1958, 1962, e sul Pacifico nel 1946, 1948, 1951, 1952, 1954, 1956, 1958 e 1962; nel 1954 ci fu la prima esplosione termonucleare di ‘prova’ all’atollo di Bikini (Isole Marshall). Altre 39 armi nucleari furono fatte esplodere sott’acqua nel Pacifico e sopra l’Atlantico, nonché in Alaska, Colorado, New Mexico, e Mississippi. In tutto, dal 1951 al 1992 furono fatte esplodere, in atmosfera o sotto terra, circa 1030 bombe nucleari.

La ‘linea’ delle autorità statunitensi, e in particolare della Commissione per l’Energia Atomica (Atomic Energy Commission, AEC) fu fin dall’inizio limpida: il rischio derivante dalla ricaduta radioattiva doveva essere ufficialmente negato.

Il 10 settembre 1945, un mese dopo il lancio delle bombe atomiche sul Giappone, il generale Groves e Robert Oppenheimer – i due capi del Progetto Manhattan – si facevano fotografare e intervistare mentre passeggiavano sul sito statunitense del test della bomba al plutonio (ad Alamogordo). Oppenheimer dichiarò che probabilmente già un’ora dopo le esplosioni si poteva entrare senza rischi a Hiroshima e Nagasaki per le operazioni di soccorso, che non c’erano "altri orrori se non quelli familiari di una qualsiasi grande esplosione", che non c’era stato alcun "avvelenamento della terra con elementi radioattivi", e che le esplosioni erano state effettuate ad alta quota appunto per proteggere i giapponesi. Groves da parte sua disse che solo "un numero relativamente piccolo di persone" stavano morendo per le conseguenze della radioattività nelle due città bombardate. In particolare niente dovevano temere i 37.000 soldati delle truppe d’occupazione statunitensi entrati nelle due città.

La verità era che migliaia di civili giapponesi stavano morendo per le conseguenze della radioattività residua, e che Groves e Oppenheimer stavano mentendo spudoratamente su praticamente ogni punto. Se nonostante questa misinformazione qualche dubbio fosse ancora rimasto nel pubblico, a impedire che maturasse in richiesta ufficiale di verità ci pensò il generale MacArthur, che il 19 settembre proibì il rilascio di qualsiasi comunicato stampa sulle bombe di Hiroshima e Nagasaki.

Nel 1957, quattro anni dopo aver ottenuto il Premio Nobel per la Chimica, Linus Pauling redasse l’"Appello per il bando dei test", che tra l’altro sottolineava i rischi dei test nucleari per la salute e il patrimonio genetico umani, e riuscì a farlo sottoscrivere da 11.021 scienziati di 49 paesi diversi. La consegna di questa petizione all’ONU è generalmente ritenuta essere stata un fattore determinante per l’accordo USA-URSS di moratoria sui test nucleari siglato nel 1963.

Tuttavia Pauling non solo fu accusato e chiamato a testimoniare per attività antiamericane, ma fu isolato dai suoi stessi colleghi al California Institute of Technology ("Caltech"). Egli fu costretto a dare le dimissioni da varie cariche amministrative nel 1958; in seguito alla gelida accoglienza ottenuta al Caltech dopo il conferimento nel 1963 del suo secondo premio Nobel, quello per la Pace, l’anno dopo lasciò definitivamente l’istituto.

L’ostruzionismo contro chi metteva in evidenza i rischi da bassi livelli di radiazioni (si noti bene: qualunque fosse il suo prestigio scientifico, che nel caso di Pauling era immenso) non era collegato solo con il clima della guerra fredda e con la corsa agli armamenti; o, per meglio dire, l’intera problematica era stata ‘militarizzata’, con la volenterosa collaborazione della classe dirigente scientifica. Valga accennare qui che questa complicità non si fermò al falsare e distorcere la scienza, ma arrivò all’esecuzione di esperimenti potenzialmente e a volte gravemente dannosi, connessi alla radioattività, su migliaia di cittadini statunitensi inconsapevoli, per ben cinquant’anni a partire dagli anni trenta. Chi pensa che tali mostruosità siano un’esclusiva dei medici nazisti che operavano nei campi di concentramento, commette un grave errore – benché comune e alimentato dai media.

Il chimico, fisico e medico John Gofman era dal 1963 uno dei nove direttori associati del Lawrence Livermore Laboratory, in California. Questo laboratorio si occupava di una vasta gamma di problemi legati allo sviluppo di armi nucleari e, in particolare, alle conseguenze sulla salute dell’esposizione a radiazioni di ogni tipo, in contesti sia militari che civili.

Nel 1969 Ernest Sternglass, un fisico radiologico influenzato dall’opera di Alice Stewart, dopo una serie di articoli su riviste specialistiche, aveva commesso un imperdonabile errore di etichetta pubblicando un articolo su un periodico popolare, Esquire, intitolato "La morte di tutti i bambini". In esso sosteneva che i test delle armi nucleari avevano causato la morte di 375.000 bambini, e che ogni test nucleare significava la morte di migliaia di bambini. La AEC chiese nel 1969 a Gofman e a un suo collega, Arthur Tamplin, di "dimostrare" che Sternglass si sbagliava. Tamplin esaminò i lavori di Sternglass e concluse che la sua stima era errata per due ordini di grandezza: le vittime tra i bambini dovevano, a suo parere, essere circa 4000. Ma l’AEC non fu contenta. Da Washington insisterono perché dall’articolo di Tamplin fosse eliminato ogni riferimento ai 4000 bambini: la tesi ufficiale del governo e dell’AEC era infatti che la ricaduta radioattiva delle esplosioni nucleari fosse innocua. Tuttavia Gofman e Tamplin non cedettero, e l’articolo apparve senza censure. ma era solo l’inizio di un conflitto che sarebbe aumentato di intensità di lì a breve.

Il mito della soglia minima sicura

Nell’ottobre dello stesso anno, Gofman fu invitato al Simposio dell’Istituto degli Ingegneri Elettrici ed Elettronici (IEEE) e presentò una relazione nella quale si sostenevano due principali conclusioni della sua collaborazione con Tamplin: 1) la stima ufficiale dei tumori per unità di radiazione era un ventesimo di quella vera; e 2) non esisteva una soglia minima sicura. Questo secondo punto contraddiceva direttamente la dottrina ufficiale dell’intera scienza fisica-medica governativa: e cioè che ci fosse una dose al di sotto della quale l’esposizione alla radioattività (di qualsiasi origine, compresi gli esami radiografici di massa) non creerebbe alcun eccesso di casi di cancro nella popolazione esposta.

La relazione non fu notata sulla stampa nazionale, ma Gofman la ripresentò poco in una versione ampliata a Washington, davanti alla Commissione del Senato per i Lavori Pubblici: stavolta la risonanza fu ben più grande, e in pochi giorni fece di Gofman e Tamplin le vittime di una intensa campagna di denigrazione e di molestie. Come raccontò Tamplin al Congresso degli Stati Uniti nel 1978:

Dopo di ciò scoppiò l’inferno. Avevo a quel tempo un gruppo di 13 persone al laboratorio. In un breve lasso di tempo il gruppo fu ridotto a due persone, e poi anche l’altra persona fu licenziata. Ci fu anche uno sforzo per censurare un rapporto che stavo per presentare alla riunione dell’American Association for the Advancement of Science.

Per il 18 gennaio 1970 Gofman fu invitato a rendere testimonianza al Comitato Congiunto sull’Energia Atomica, al Congresso; lo scopo dell’invito era di sottoporlo a un fuoco di fila di domande per metterlo in imbarazzo e cercare di demolirne la reputazione. In preparazione alla convocazione, Gofman e Tamplin scrissero ben 14 articoli che rincaravano i sospetti sulla nocività delle radiazioni e confermavano che non esisteva una soglia di sicurezza. Se il tentativo denigratorio fallì, a Gofman furono poco dopo tagliati tutti i finanziamenti, sia dall’AEC che dal National Cancer Institute. Così nel febbraio 1973 dovette dimettersi. Tamplin restò un altro anno e mezzo, senza collaboratori e vittima di mobbing (cioè trattato come "una non-persona", secondo la sua stessa descrizione).

Gofman racconta di aver saputo indirettamente, poco dopo l’audizione al Congresso, che cosa pensavano di lui e Tamplin gli scienziati dell’AEC; un membro dell’AEC avrebbe detto a un collega:

"Li [cioè Gofman e Tamplin] distruggerò. La ragione è [...] che per quando quella gente [operai, militari, cittadini] si prenderà il cancro e la leucemia, lei sarà in pensione e pure io, e allora che diavolo di differenza fa adesso? Abbiamo bisogno del nostro programma di energia nucleare e, se non distruggiamo Gofman e Tamplin, il programma di energia nucleare corre un vero rischio a causa di quello che loro dicono". [Corsivo nell’originale]

In seguito Gofman sviluppò la sua attività di scienziato a difesa del pubblico interesse, pubblicando molti articoli e libri sui rischi delle radiazioni.

Oggi è generalmente condiviso il punto di vista per cui, quando si tratta di cancerogeni (in opposizione alle altre sostanze, la cui tossicità dipende dalla dose) è scientificamente errato postulare che al di sotto di una certa soglia il rischio sia nullo.

Industria nucleare

Un eminente epidemiologo statunitense, Thomas Mancuso, aveva ricevuto nel 1964 dalla AEC l’incarico di valutare gli effetti dell’esposizione a materiale radioattivo nello stabilimento di Hanford, dove si era prodotto il plutonio per il progetto Manhattan. Mancuso aveva rilevato un tasso di mortalità da cancro superiore a quanto era stato stimato a partire dalle indagini sui sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki. Dopo 10 anni di lavoro egli venne licenziato dall’AEC, essendosi rifiutato di censurare o alterare i propri risultati.

Mancuso si mise allora in contatto con la Stewart, chiedendole di aiutarlo ad esaminare i dati raccolti sull’industria nucleare. Il Dipartimento per l’energia statunitense cercò di impedire alla studiosa inglese di prendere visione dei dati, ma non ci riuscì, e così nel 1977 Kneale, Mancuso e la Stewart pubblicarono i risultati della loro analisi, da cui risultava un rischio di ben 20 volte superiore alle stime accettate.

Le autorità continuarono a negare la validità di queste ricerche ancora per molti anni, e i loro autori, così come altri che ne condivisero le opinioni, fra i quali Bross (che nel 1987 stimò il rischio di cancro a bassi livelli di radiazioni ionizzanti come maggiore di almeno 200 volte rispetto alle stime ufficiali), furono diffamati e ostacolati in molti modi.

Le tesi che furono più pubblicizzate furono invece quelle espresse da personaggi come il fisico Edward Teller, il quale nel 1956 dichiarò che "una ricaduta radioattiva su tutto il mondo è altrettanto pericolosa quanto essere sovrappeso di trenta grammi o fumare una sigaretta ogni due mesi". Sempre Teller nel 1958 assicurò il mondo che "I test [atmosferici nucleari] non mettono seriamente in pericolo né la generazione presente né quelle future".

È il caso di sottolineare che l’essersi pronunciato in maniera così avventata su una questione in cui, peraltro, un fisico (se proprio bisogna scegliersi uno specialista da consultare) non sembra essere la persona più indicata, non costò a Teller alcun tipo di conseguenza negativa. Questo è un esempio della netta asimmetria tra ciò che accade allo scienziato che mette in guardia i cittadini contro qualche pericolo, e ciò che accade a quello che li rassicura: e questa differenza non è collegata né con la fondatezza delle dichiarazioni, né con la reputazione dello scienziato. Lo scienziato rassicurante è in genere coccolato dai media e dai governi, l’altro invece si trova a rischiare la carriera o il posto. Basterebbe questo semplice e comprovato dato di fatto a rendere razionale la tendenza del pubblico a prendere gli allarmi più seriamente delle rassicurazioni.

Un altro argomento – tuttora ripreso in diversi contesti nel giornalismo o nell’accademia – con cui si cercò di contrastare questi risultati fu il confronto con la radiazione naturale, e in particolare con i raggi cosmici. Ma naturalmente l’esistenza della radiazione naturale non ‘assolve’ in nessun senso quella artificiale: piuttosto ne potenzia gli effetti. Detto in forma più generale: le varie fonti di avvelenamento dell’ambiente non sono in competizione – nel senso che la maggiore gravità dell’una renda innocua l’altra! –, ma in sinergia. È veramente deprimente constatare quanto grande è il numero di professionisti (nella scienza e nel giornalismo) a cui apparentemente continua a sfuggire questo punto elementare.

Infine, agli autori di articoli che mettevano in evidenza le possibili conseguenze negative, riviste come Science chiedevano che si sostituisse nella presentazione dei dati la percentuale anziché il numero assoluto di persone presumibilmente colpite. Il chimico Linus Pauling replicò efficacemente a una tale richiesta dicendo: "Questo indica un atteggiamento morale molto diverso tra me e il revisore".

Il bilancio di Bross (vedi capitolo I/1) è che "dei circa 222.000 veterani atomici [le] morti per cancro [...] causate dalle loro esposizioni [furono] circa 50.000".

Scorie radioattive

Abbiamo visto che la questione delle scorie nucleari è stata da sempre al centro del confronto tra professionisti e cittadini, ambientalisti o no, sulle centrali nucleari. La ragione è semplice. Il combustibile la cui fissione permette la produzione di energia nelle centrali nucleari deve, esaurito il suo ciclo, essere appropriatamente eliminato o riutilizzato (cosa possibile solo in parte e dopo opportuno ritrattamento). Si tratta di un residuo radioattivo. E, per quanto riguarda la sua persistenza, basta pensare che vi si trova il plutonio 239, il quale ha un tempo di dimezzamento di 24.000 anni (ciò significa che ci vogliono circa 24.000 anni perché la metà di una data quantità di plutonio 239 si trasformi in un altro elemento!). È da notare che il plutonio è un elemento radioattivo quasi inesistente sulla Terra prima che "l’uomo" – o meglio, i governi di USA, URSS, Gran Bretagna, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele, Sudafrica – ne riversasse su di essa 10 tonnellate con le esplosioni di ordigni nucleari.

Il dibattito su come eliminare le scorie radioattive (per quanto riguarda il nucleare sia militare che civile) ha portato alla luce "soluzioni ‘provate’" e magari anticipabili sulla base di "precedenti storici"? In realtà esso "continua senza soluzioni soddisfacenti in vista", per citare una dichiarazione delle Nazioni Unite del 1999. Più recentemente, nel 2003, è apparso uno studio del Massachusetts Institute of Technology, Il futuro dell’energia nucleare, che descrive il problema della gestione ed eliminazione delle scorie come

uno dei problemi più intrattabili che si pongono all’industria dell’energia nucleare in tutto il mondo. Nessun paese ha ancora implementato con successo un sistema per eliminare queste scorie. [MIT 2003]

In altre parole l’"ambientalista" aveva visto giusto, e le rassicurazioni dell’"esperto" erano illusorie.

L’8 novembre 1987 in Italia andò alle urne il 65,1% degli aventi diritto. Ai primi tre quesiti sulla politica energetica nucleare, il SÌ all’abrogazione vinse tutt’e tre le volte, con le percentuali rispettivamente dell’80,6%; 79,7%; 71,9%. Ciò contribuì a determinare l’abbandono del nucleare in Italia.

Sicuramente il gravissimo incidente alla centrale sovietica di Chernobyl avvenuto nel 1986 ebbe un peso nel determinare l’esito del referendum, ma ciò non diminuisce il valore del risultato. In effetti il caso Chernobyl fu quel tipo di evento negativo che i media non poterono ignorare. L’atteggiamento del gruppo di pressione nuclearista e di gran parte della stampa italiana circa l’informazione da dare ai cittadini è ben rappresentato dal seguente commento che, a un convegno del 1974, l’allora ministro della Ricerca Scientifica rivolse al presidente dell’ENEL, a proposito di critiche della politica nucleare fatte in Stati Uniti e Svezia:

"Gli italiani non dovrebbero sapere certe cose. Hanno una sensibilità epidermica. Gli echi negativi arrivano dagli Stati Uniti proprio ora che eravamo riusciti a convincere gli italiani dell’innocuità delle centrali nucleari, vero professor Angelini?"

Ma non si deve credere che ci sia qualcosa di specificamente "italiano" in questa intesa tra politici ed "esperti" per nascondere la verità ai cittadini quando c’è l’energia nucleare di mezzo (ma non solo in questo caso, beninteso). Nel 2002 il presidente della Tokyo Electric, la compagnia che gestisce la maggior parte delle 52 centrali nucleari giapponesi, ha ammesso che in 29 casi, riguardanti 13 centrali, erano stati rilevati danni a varie parti, incluso il reattore, ma che questi erano stati "occultati per continuare a far funzionare gli impianti".

Ovviamente non si è trattato di una confessione spontanea: due anni prima un ex lavoratore aveva denunciato la situazione al ministero dell’Industria; il quale, da parte sua, ha fatto sapere di aver condotto delle indagini. Quello che è certo è che il ministero ha continuato per altri due anni a negare che ci fossero problemi di sorta con la sicurezza delle centrali.

Rispetto alla suddetta questione fondamentale (quella delle scorie), l’esito del referendum va quindi considerato giudizioso e preveggente. Ma gli "esperti" ammetteranno mai di aver clamorosamente sottovalutato le difficoltà, e che l’elettorato nel 1987 ebbe ragione? Con ogni probabilità no. La fede non si dimostra e non si può confutare; soprattutto quando essa, come abbiamo visto, è particolarmente in armonia con la formazione professionale del credente. Uno degli scienziati del progetto Manhattan, John Gofman, di cui avremo modo di parlare in seguito, racconta il seguente istruttivo aneddoto, che esemplifica alla perfezione l’atteggiamento che ho chiamato fideismo tecnologico (cfr. parte 1):

Una volta mi trovavo in aereo con un ingegnere fortemente nuclearista. Dissi: "Ho fatto un po’ di lavoro nuovo sul plutonio. Penso che è molto più tossico di quanto si sia pensato prima. A quale [livello di] tossicità lei rinuncerebbe all’energia nucleare?"

E lui: "Di che sta parlando?"

"Se le dicessi che dovreste controllare le vostre perdite di plutonio a ogni passo – rutti, cadute, sbuffi, incidenti, fughe, tutto – che non vi potete permettere di perderne nemmeno un milionesimo, questo le sarebbe sufficiente per rinunciare all’energia nucleare?"

"Oh, adesso capisco il suo punto, John", disse. "Ora, lei mi dice – noi ci rivolgiamo a biologi come lei per dirci fino a che punto dobbiamo arrivare. Se voi ci dite che dobbiamo controllarlo fino a una parte su dieci milioni, lo faremo. Se ci dite che dev’essere una su un miliardo o su dieci miliardi, lo faremo. Voi ci dite che cosa dobbiamo fare come ingegneri e noi lo faremo".

Allora dissi: "Amico mio, lei ha perso completamente il contatto con la realtà. Ho lavorato in laboratori di chimica per tutta la mia vita, e pensare che possiate controllare il plutonio fino a una parte su un milione è assolutamente assurdo. Se lei fosse un mio paziente, la manderei da uno psichiatra".

"Bene, John, l’ingegneria è il mio campo. E noi crediamo che possiamo fare qualsiasi cosa di cui c’è bisogno".

Il fatto che questo atteggiamento sia diffuso non solo tra gli ingegneri, ma anche tra gli scienziati, è giusta ragione di inquietudine tra le persone che guardano alla cosa senza partecipare del delirio tecnocratico.

Impianti per il riciclaggio delle scorie

I casi di Mancuso, Stewart e Bross ricostruiti sopra non sono un ricordo dei tempi ormai andati della guerra fredda. Citiamo un esempio recente della stessa situazione. Un epidemiologo dell’università di Besançon, Jean-François Viel, ha pubblicato negli anni novanta alcuni articoli sui casi di leucemia riscontrati nei dintorni di uno dei maggiori stabilimenti di riciclaggio dei rifiuti radioattivi al mondo, che è situato a La Hague, sulla Manica (Cotentin), occupa un’area di 300 ettari ed è in funzione dal 1966. Si noti che la Francia, che possiede 55 centrali nucleari (seconda in questa classifica solo agli Stati Uniti, che ne hanno 112), produce da sola ogni anno 12 tonnellate di plutonio.

Dopo un lavoro preliminare in cui studiava la mortalità per leucemia infantile, e da cui non risultavano valori in eccesso nell’area considerata, Viel passò ad studiare l’incidenza della stessa malattia, problema ben più difficile, in quanto per quella zona mancavano registri permanenti su questa e altre forme di cancro. D’altra parte studiare l’incidenza piuttosto che la mortalità è cruciale. In effetti, data l’alta curabilità della leucemia infantile (il successo terapeutico arrivò al 70% dei casi negli anni novanta), la mortalità è "l’indicatore di scelta per chi si augura di non dimostrare niente", come ha scritto argutamente lo stesso Viel.

Nel 1995 egli pubblica un secondo lavoro, dove viene messo in evidenza un aumento delle leucemie infantili a sud-est dello stabilimento, e in particolare nel cantone di Beaumont-Hague; un ulteriore risultato importante è che l’effetto diminuisce con la distanza. Alla ricerca viene dato spazio in un mensile di scienza divulgativo, Science et Vie.

La reazione è immediata: Viel è attaccato dai suoi stessi ex collaboratori, lo si accusa di aver comunicato con il pubblico prematuramente e senza aspettare il confronto con i colleghi (si noti: dopo la pubblicazione su una rivista specialistica!). Ma il peggio deve ancora venire.

Nel 1997 egli pubblica un altro articolo in cui si documenta la correlazione di un certo comportamento con la leucemia infantile, e se ne congettura la possibilità di un ruolo causale. Il comportamento è la frequentazione delle spiagge da parte di madri incinte e bambini, e il consumo di pesce e frutti di mare della zona. Per la precisione, il rischio nel caso della frequentazione da parte delle donne incinte è 4,5 volte quello normale, nel caso che a frequentarle siano i bambini è 2,9 volte, e nel caso del consumo di pesce e frutti di mare è 3,7 volte.

Stavolta l’attacco acquista toni demolitori sia del lavoro che della persona dell’autore principale:

Forse la reazione più interessante è quella dell’INSERM ("Institut national de la santé et de la recherche médicale"), che ha finanziato (insieme alla Lega nazionale contro il cancro) il progetto di ricerca di Viel e che nella primavera del 1997 ne dà una valutazione uguale a 2,23 (meno della media, che è 2,5), nonostante la pubblicazione sul British Medical Journal, che normalmente sarebbe considerata una garanzia di qualità. La spiegazione di questo voto negativo è:

La commissione scientifica specialistica n. 11 richiama l’attenzione sul fatto che i risultati delle ricerche condotte nei laboratori dell’INSERM o finanziate dall’INSERM non dovrebbero essere diffuse attraverso i media per il grande pubblico se non nel quadro di una concertazione con l’ufficio stampa dell’INSERM.

Oltre ad essere falso che questa fosse stata una condizione per la concessione del finanziamento INSERM, è divertente constatare che una commissione scientifica penalizza una ricerca scientifica in base all’ipotesi di un comportamento moralmente o politicamente scorretto del responsabile verificatosi dopo la fine e pubblicazione della ricerca!

Sul British Medical Journal la campagna contro Viel fu efficacemente paragonata a "una reazione immunologica", in quanto "è stata molto rapida e ha tentato di rigettare un corpo estraneo che perturbava una delle sue [dell’establishment nucleare francese] funzioni". Viel ha scritto: "La virulenza degli attacchi personali che ho subito ha modificato profondamente la mia percezione della vita", e si è detto confortato in questo difficile frangente dall’appoggio di molti cittadini (nonostante l’ostilità e il partito preso di quotidiani come Libération).

Alcuni anni dopo, una ricerca indipendente, estesa fino al 1998, ha confermato l’aumento dell’incidenza di leucemie nell’area in questione. Al di là delle indicazioni, di validità generale, sulle funzioni della scienza ufficiale, ciò che invece la vicenda sopra descritta esemplifica ulteriormente è il carattere tabù della questione nucleare, la sua capacità di "annichilare la divisione destra-sinistra," e la connivenza di media e istituzioni della ricerca nel tenere il pubblico all’oscuro di ogni risultato "inquietante" che riguardi l’industria nucleare.

Dosi

Alla fine del giugno 2005 sono apparsi ben due documenti ufficiali che fanno il punto sulla questione della nocività delle basse dosi di radiazioni ionizzanti: Cardis et al. 2005 (cfr. IARC 2005) e BEIR VII (un volume di 700 pagine). Entrambi confermano che non esiste una soglia al di sotto della quale l’esposizione a radiazione non produce cancro.

Bisogna dire che sulla qualità scientifica e la natura dei rapporti BEIR ("Biological Effects of Ionizing Radiation", l’ultimo rilevante era il V, del 1990) Bross si è ripetutamente espresso in termini sarcastici.

Comunque, il lettore potrà apprezzare che la stima di quante persone su 100.000, esposte per tutta la vita a 100 millirem all’anno (massimo delle basse dosi di radiazioni), moriranno di cancro a causa di questa esposizione era: tra 25 e 119 secondo BEIR III (del 1980); tra 520 e 600 secondo BEIR V (del 1990); tra 530 a 2440 secondo BEIR VII, in cui questa stima è riformulata col dire che su 100 persone, 42 moriranno di cancro per altre cause, e una per esposizioni a bassi livelli di radiazioni (cioè 1000 su 100.000). La stima di Cardis et al 2005, corrispondente a un’esposizione totale media di 1900 millirem, calcolata per gli operai dell’industria nucleare, è di 1000-2000 decessi su 100.000.

Come riferimento concreto, si tenga presente che la dose di radiazioni attualmente assunta con una radiografia toracica è di 10 millirem (= 0,1 millisievert o mSv); quella di una mammografia 70 millirem (= 0,7 mSv); e quella di una TAC è di 1000 millirem (= 10mSv). A proposito delle mammografie però è da considerare quanto avvertito da Epstein et al. 2001:

Contrariamente alla convenzionali assicurazioni che l’esposizione da radiazione in una mammografia è banale – simile a quella di una radiografia toracica o del trascorrere una settimana a Denver, di circa 1/1000 di rad [= 1 millirem] [...] – la pratica di routine di prendere quattro lastre [film] per mammella porta a un’esposizione, mille volte maggiore, di 1 rad [=1 rem =10 mSv], concentrata su ogni mammella piuttosto che sull’intero torace.

Poiché ogni rem di esposizione aumenta "il rischio di cancro alla mammella dell’1%", e poiché questi aumenti sono additivi, è facile calcolare, per esempio, il rischio aggiuntivo creato da una sola mammografia all’anno durante tutto il decennio precedente la menopausa.

 

3.2 Radiazioni non ionizzanti

Negli ultimi decenni è sorta una diffusa inquietudine popolare relativamente alla presenza di cavi dell’alta tensione o di antenne per la radiotrasmissione in prossimità di abitazioni. Il dibattito qui riguarda esclusivamente le radiazioni non ionizzanti, e in particolare quelle a frequenza estremamente bassa e a radiofrequenze. Lo analizzeremo, stavolta, entrando nei dettagli di alcuni documenti essenziali che riguardano le posizioni di scienziati italiani, perché così sarà più chiaro come la comunità scientifica, nel rendere i propri pareri, possa assumere anche un ruolo esplicitamente politico.

La prima ricerca che stabiliva una correlazione tra campi a frequenze estremamente basse, come quelli prodotti dalle linee elettriche e dalle cabine di trasformazione, e leucemia infantile fu condotta a Denver (Colorado) da Nancy Wertheimer. Quando ella pubblicò i suoi risultati nel 1979, suscitò la reazione negativa che ha accompagnato, come abbiamo visto, tutte le rivelazioni di questo tipo.

In Italia la ripresa di interesse da parte dei media nacque dall’ultimatum (con scadenza il 16 marzo 2001) dell'allora ministro dell'Ambiente, Willer Bordon, allo Stato del Vaticano affinché mettesse in regola le antenne di Radio Vaticana, situate fra Santa Maria di Galeria e Cesano, nella periferia nord di Roma. Si trattava in questo caso non di campi elettrici e magnetici generati da linee elettriche, bensì di quelli a radiofrequenze.

All'inizio c'era stata l'inchiesta di un magistrato romano, cominciata nel 1999 in seguito agli esposti di trenta comitati cittadini e basata sul decreto legislativo 381 del 1998, in seguito recepito dalla "legge quadro sulla protezione delle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici" del 22 feb. 2001. La denuncia dei suddetti comitati riguardava ciò che essi registravano come un’aumentata incidenza di tumori, e in particolare di leucemie infantili, in prossimità della zona occupata dagli impianti.

Gli elettrodotti "nel peggiore dei casi rovinano il paesaggio"

In un'intervista apparsa sul quotidiano la Repubblica, il 7 aprile 2001, e intitolata "Veronesi: ‘L'elettrosmog? Non è una causa di cancro’", il noto oncologo e allora ministro della Sanità, Umberto Veronesi, rassicurava appunto il pubblico circa la sostanziale innocuità dei campi elettromagnetici a bassa frequenza. A supporto di questa sortita del ministro, che ovviamente suscitò contestazioni, si levarono immediatamente un certo numero di fisici (nota bene) italiani, e in particolare il fisico teorico Tullio Regge, che già il giorno dopo scrisse sullo stesso quotidiano:

Gli elettrodotti non sono vicini simpatici: ma nel peggiore dei casi rovinano il paesaggio [...]

L'indomani un telegramma di solidarietà a Veronesi fu spedito da "nove esperti", tra i quali Regge stesso e Renato A. Ricci (presidente onorario della Società Italiana di Fisica e della Associazione Italiana Nucleare), al ministro stesso e al Presidente della Repubblica Ciampi. In esso si leggeva che

il termine elettrosmog non ha alcun significato scientifico ed è sovente utilizzato in campagne che procurano un ingiustificato allarme sociale.

Questo telegramma, in effetti, non era una sorpresa. Il 12 marzo una "Lettera aperta al Presidente della Repubblica" sullo stesso tono era stata firmata dagli stessi scienziati, più una eterogenea sequela di ricercatori fisici e sanitari, parecchi ingegneri, un economista ecc. È da sottolineare l’evidente portata politica del gesto, che avveniva al culmine di un conflitto tra lo Stato Italiano e uno stato straniero, e che intendeva screditare l'azione di un ministro impegnato a far rispettare normative in vigore.

La lettera aveva severe parole di biasimo verso la

incuranza dell'analisi critica di tutte le risultanze scientifiche effettuate da molteplici organismi scientifici indipendenti e ufficialmente riconosciuti, di livello sia nazionale che internazionale, [...] [in seguito alla quale] si sono predisposti atti normativi che, dal punto di vista della rilevanza sanitaria, sono destituiti di ogni fondamento scientifico.

Pur invocata, l’"analisi critica" contenuta nella lettera si riduce a una serie di citazioni da fonti ‘autorevoli’, in primo luogo l'American Physical Society (APS) – non certo un'istituzione sanitaria – di cui si riportano le seguenti dichiarazioni, rispettivamente del 1995 e del 1998:

"La letteratura scientifica mostra che non esiste alcun consistente e significativo legame tra il cancro e i campi elettromagnetici delle linee di trasmissione. Non è stato identificato alcun meccanismo biofisico plausibile per l'iniziazione o la promozione del cancro da queste sorgenti. Inoltre, la preponderanza dei risultati delle ricerche epidemiologiche e biofisiche/biologiche [N.B.: con questa locuzione ci si riferisce in particolare agli esperimenti su animali (nota di MMC)] ha fallito nell'avvalorare quegli studi che hanno riportato specifici effetti avversi conseguenti all'esposizione a tali campi. [...]"

"tutti gli studi successivi al 1995 non hanno svelato alcuna nuova evidenza di effetti sanitari dalle linee di trasmissione elettrica"

Si cita poi uno dei "recenti rapporti" dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), secondo cui:

"Sulle radiazioni non-ionizzanti sono stati scritti più di 25.000 articoli negli ultimi 30 anni. Si sa più su questo agente che su qualunque composto chimico".

Dovrebbe a questo punto essere chiaro che la presa di posizione dei firmatari metteva in gioco la credibilità di un'intera classe scientifica, e pertanto meritava più di altre un'attenta considerazione. Nella perorazione si chiede che

Si ridia voce, per governare i comprensibili timori dei cittadini, solo ai rapporti di istituzioni che siano scientificamente accreditate e indipendenti da ogni interesse coinvolto nel problema in questione.

Questa è un'eccellente raccomandazione – purché non sia vuota; e in effetti, sebbene bisogni apprezzare lo sforzo dell'estensore di riconoscere la validità della regola di senso comune che una sentenza non va affidata a un giudice che sia parte in causa, è comica la pretesa dei firmatari di accreditare, senza alcuna "analisi critica", le agenzie da essi citate, e se stessi, come "indipendenti da ogni interesse". Come abbiamo visto, tutti i principali critici delle posizioni ufficiali delle autorità governative statunitensi in materia di nocività delle radiazioni sono stati molestati, censurati e rimossi – e ciò del tutto indipendentemente dalla loro competenza e reputazione, che erano innegabili e, anzi, non seconde a quelle dei loro avversari. Pensare di risolvere questioni intorno a cui ruotano importanti interessi economici mediante un appello del genere testimonia quindi di una penosa incapacità di comprendere l’ordine di complessità del problema.

Scienziati contro il principio di precauzione

C'è una seconda raccomandazione nella lettera, e cioè che

Sia dato meno ascolto a chi, utilizzando singoli e isolati risultati, apre presunti spazi di dubbio nel tentativo di razionalizzare posizioni di parte in aperto contrasto con gli interessi della collettività e con l'analisi critica della totalità delle acquisizioni scientifiche.

Così i "singoli e isolati risultati", sia pure di natura statistica e ammesso che solo di questi si tratti ("si è avvistato un corvo che probabilmente è grigio") non solo non bastano più a falsificare senza ulteriori indagini le generalizzazioni ("tutti i corvi sono neri") – il che è ragionevole –, ma neanche ad aprire "spazi di dubbio" – il che è assurdo.

Per comprendere l'origine di questa incredibile tesi, bisogna riandare alla legge quadro, che nella dichiarazione di finalità (art. 1) si richiama al Trattato istitutivo dell’Unione Europea (7 febbraio 1992), art. 174, par. 2, il quale, nella versione del 1998, introduce il riferimento al principio di precauzione:

2. La politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga". [...]

Il principio di precauzione ricevette la sua consacrazione internazionale alla conferenza su Ambiente e Sviluppo dell’ONU di Rio de Janeiro (3-14 giugno 1992), con la Dichiarazione di Rio dove appare come "Principio 15":

Allo scopo di proteggere l’ambiente gli Stati applicheranno largamente l’approccio precauzionale secondo le loro capacità. Qualora ci siano minacce di danno grave o irreversibile, la mancanza di una piena certezza scientifica non sarà usata come ragione per posporre misure efficienti in rapporto ai costi [cost-effective] per prevenire il degrado ambientale.

Come si vede, in contraddizione con critiche tante volte mosse, questo principio non è affatto una raccomandazione a non far niente; al contrario, si oppone direttamente alla tentazione – che nasce dal timore di non turbare ‘prematuramente’ potenti interessi – di stare a vedere che cosa succederà prima di prendere provvedimenti.

Un aspetto fondamentale e di importanza storica di questo principio è che prende coraggiosamente posizione sulla portata del principio maggioritario in materia scientifica. Ecco infatti come recita la Comunicazione della Commissione delle Comunità Europee del 2 febbraio 2000:

La mancanza di prove scientifiche dell'esistenza di un rapporto causa/effetto, un rapporto quantificabile dose/risposta o una valutazione quantitativa della probabilità del verificarsi di effetti negativi causati dall'esposizione non dovrebbero essere utilizzati per giustificare l'inazione. Anche se il parere scientifico è fatto proprio solo da una frazione minoritaria della comunità scientifica, se ne dovrà tenere debito conto, purché la credibilità e la reputazione di tale frazione siano riconosciute.

È chiaro che, pur concedendo attenzione solo a personalità scientifiche "riconosciute" (e cioè, in pratica, a docenti universitari o a membri di istituzioni della ricerca), questa apertura di credito alle minoranze non poteva che suscitare le ire dei detentori del potere scientifico in Italia, e quindi indurli a tentare di denigrare i colleghi ‘non allineati’: lo screditamento è infatti la sola arma cui la legge attribuisce, indirettamente, efficacia. Ecco quindi l'estensore della "Lettera aperta al Presidente della Repubblica" rivelare un’inaspettata vena di psicologo sociale – quella con cui tratteggia la cupa fisionomia di chi, pur di far prevalere la propria faziosa posizione, non si perita di sviare i concittadini...

Sviluppi recenti

La controversia sulla pericolosità delle linee elettriche ebbe poche settimane dopo uno sviluppo che si può ritenere, sotto vari profili, cruciale, non fosse altro che per il lasso di tempo che ha richiesto per maturare e per la portata internazionale della corrispondente correzione di rotta. La IARC rese infatti noto il suo parere dopo un incontro di un suo gruppo di lavoro composto da 21 persone, svoltosi nella settimana del 19-26 giugno 2001. Così lo riassume in un'intervista Morando Soffritti, direttore della Fondazione europea di oncologia e scienze ambientali Ramazzini e unico italiano fra i partecipanti:

"I campi elettromagnetici generati dalla corrente elettrica vanno considerati possibili agenti cancerogeni. È una conclusione alla quale si è arrivati basandosi sulle ricerche condotte su bambini esposti a queste radiazioni: è emerso un aumento del rischio di leucemie".

Quindi non si tratterebbe esattamente di preoccupazioni per l'estetica del paesaggio, come sostenuto da Regge. E le rassicurazioni di Veronesi (non più ministro), saldamente confortate dagli illustri scienziati che abbiamo citato?

"[...] l'ex ministro Veronesi su questo tema mi è sempre sembrato disinformato [...] Ora il parere dell'agenzia internazionale di ricerca sul cancro è stato formulato e non coincide con le opinioni del professor Veronesi".

Un verdetto ufficiale non proprio trascurabile, su un argomento intorno al quale, a detta della OMS, si sapeva pressoché tutto – e cioè che nulla c’era da temere.

Una visita al sito della IARC permette di ottenere ulteriori dettagli dal comunicato stampa del 27 giugno, intitolato: "La IARC trova una limitata evidenza che i campi magnetici residenziali aumentano il rischio di leucemia infantile":

La IARC ha ora concluso che i campi magnetici di frequenza estremamente bassa sono possibili cancerogeni per gli umani, sulla base di coerenti associazioni statistiche tra campi magnetici di alto livello residenziali e un raddoppio del rischio di leucemia infantile. Bambini che sono esposti a campi magnetici residenziali di frequenza estremamente bassa minori di 0,4 microTesla non hanno un aumento di rischio di leucemia. A causa dell'insufficienza dei dati, i campi magnetici statici e i campi elettrici statici e ELF [= di frequenza estremamente bassa] non hanno potuto essere classificati per quanto riguarda il rischio cancerogeno per gli umani.

[...] Effetti sulla salute di campi elettromagnetici da radiofrequenze, che sono prodotti da sorgenti come torri di trasmissione di radio e televisioni, telefonini e radar, non sono stati valutati dal gruppo di lavoro della IARC. Queste esposizioni saranno esaminate dal programma di monografie della IARC quando ricerche attualmente in corso siano state pubblicate, molto probabilmente nel 2005.

Si noti la formulazione circospetta: per quanto riguarda i campi da radiofrequenze (pertinenti, per esempio, alla controversia su Radio Vaticana), la IARC non si pronuncia, e prevede di esprimere un parere non prima di cinque anni.

 

Chi non sia a conoscenza del quadro complessivo che abbiamo tratteggiato nelle pagine precedenti potrebbe aspettarsi che questa decisione della IARC abbia fatto crollare le certezze precedentemente espresse dagli scienziati che abbiamo citato. Naturalmente non è stato questo il caso. Al contrario: è stato nominato successivamente da Veronesi e dai ministri dell’Ambiente e delle Telecomunicazioni un ristretto "Comitato Internazionale di Valutazione per l'indagine sui Rischi Sanitari dell'esposizione ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici", nelle persone di F. Cognetti dell'Istituto Regina Elena per lo studio e la cura dei tumori di Roma, Sir Richard Doll, G. Falciasecca dell’Università di Bologna, Tullio Regge dell'Università di Torino e M. Repacholi dell'OMS. Il comitato nel febbraio 2002 ha dato parere favorevole all’innalzamento delle soglie massime consentite, raccomandando l’eliminazione dei "valori di attenzione" e degli "obiettivi di qualità" previsti dalla legge quadro.

Si noti che Regge e Cognetti erano due dei firmatari dell’appello; Doll era a sua volta citato nella presentazione dell’appello come autore di uno studio che "conforta totalmente le indicazioni del nostro appello". Insomma, quello che si dice un comitato al di sopra delle parti...

Il più recente studio sul collegamento tra elettrodotti e leucemie infantili conferma le conclusioni dell’IARC. Apparso sul British Medical Journal il 4 giugno 2005, ha riguardato 29.081 bambini inglesi. Bambini nati a meno di 200 metri (risp. tra 200 e 600 metri) dagli elettrodotti hanno un rischio relativo stimato di 1,69 (risp. 1,23) di contrarre una leucemia rispetto a quelli nati a oltre 600 metri di distanza. Nondimeno gli autori sottolineano che i loro risultati, come quelli precedenti, non sono "supportati da convincenti dati di laboratorio o da un qualsiasi meccanismo biologico accettato". L’interpretazione di questa clausola sarà più chiara alla luce della parte 4 di questo articolo, che metterà in luce una metodica dell’attuale ricerca biomedica che permette di mantenere nel limbo dell’incertezza, per decenni, risultati sufficientemente fondati sull’indagine epidemiologica. L’episodio che stiamo per ricostruire rientra anch’esso, come vedremo, in questa ‘logica’.

 

3.3 Plastica

A Porto Marghera, nella laguna veneziana, presso l’impianto petrolchimico della Montedison, si è prodotta fin dagli anni Cinquanta una resina denominata cloruro di polivinile (CPV), la quale, opportunamente trattata, diventa la plastica di cui sono fatti tanti oggetti d’uso comune.

Il CPV – sintetizzato per la prima volta nel 1835 – si ottiene per polimerizzazione del cloruro di vinile monomero (CVM), che a temperatura e pressione normali è un gas incolore il cui odore diventa percepibile (e per lo più gradevole) per gli esseri umani solo a concentrazioni molto elevate, cioè tra le 3000 e le 4000 ppm (= parti per milione). Il CVM è stato ottenuto per la prima volta nel 1912, in Germania, per reazione dell’acetilene con l’acido cloridrico; la polimerizzazione avvenne per caso, e così nacque il CPV, che fu poi riscoperto nel 1916 negli Stati Uniti.

Che l’esposizione al CVM fosse nociva è una cosa che si è venuta a scoprire abbastanza presto. In uno studio sovietico del 1949 (attenzione alla data), pubblicato sulla rivista Igiene e Sanità di Mosca, già si parlava, tra l’altro, di danni al fegato subiti da 15 su 45 operai di CVM e CPV presi in esame.

Citiamo da una dichiarazione, risalente agli anni Novanta, dell’oncologo Cesare Maltoni, che ebbe un ruolo importante nella storia della ricerca su questa sostanza:

"Già negli anni ’50-’60 fu segnalato che fra i lavoratori dell’industria del cloruro di vinile, esposti ad alte dosi (oltre che per via inalatoria, anche per contatto, come si verifica nei pulitori delle autoclavi), si manifestava una serie di situazioni patologiche quali: angioneurosi spastica, morbo di Raynaud, scleroderma, acrosteolisi e alterazioni vascolari, tutte probabilmente riconducibili all’effetto tossico specifico del cloruro di vinile nelle cellule di rivestimento dei vasi sanguigni (endoteli). All’inizio degli anni ’70 fu anche segnalata, soprattutto in Germania, un’alta incidenza di fibrosi epatiche (con caratteristiche anche di vera e propria cirrosi) fra i lavoratori nell’industria del cloruro di vinile-cloruro di polivinile, presumibilmente esposti ad alte concentrazioni di cloruro di vinile".

La storia raccontata da Maltoni prosegue parlando della cancerogenicità del CVM come di una scoperta successiva, di cui attribuisce il merito agli esperimenti su animali eseguiti dal medico Pier Luigi Viola della Solvay di Rosignano (1970) e poi da lui stesso (1971-3). Ritorneremo su queste ricerche nella parte IV.

In realtà la comprensione non solo della nocività, ma anche della cancerogenicità del CVM sugli umani, datava da ben prima, e precisamente da uno studio a lungo termine della statunitense Dow Chemical su 594 lavoratori esposti al CVM per gli anni dal 1942 al 1960. La popolazione era stata divisa in quattro classi, le prime tre distinte per l’esposizione bassa (25 ppm), intermedia (tra 25 e 200 pmm) o alta (tra 200 e 300 ppm); per la precisione, nella terza classe vennero inseriti "anche coloro che, pur rientrando nella fascia intermedia, erano stati esposti anche ad escursioni spesso impreviste al di sopra delle 1000 ppm". La quarta classe consisteva invece di lavoratori di cui non era possibile stabilire l’esposizione. Per l’inclusione in una classe occorreva essere stati esposti al valore più alto per 1-2 mesi, e la durata complessiva delle esposizioni era classificata secondo che fosse minore o maggiore di un anno. La conclusione dello studio fu molto chiara: i lavoratori della terza classe

avevano presentato un "apparente incremento statistico per tutte le forme di tumore maligno". Quando le esposizioni erano mantenute al di sotto delle 200 ppm (512.000 g/m3) il tasso dei tumori maligni diminuiva.

In altre parole, c’erano all’inizio degli anni sessanta prove del rischio cancerogeno sull’uomo dell’esposizione cronica al CVM. Di fatto la Dow Chemical (che eseguì anche prove su animali) decise di diminuire la concentrazione massima accettabile fino a 50 ppm, ma le altre industrie del settore non accettarono la proposta di fare altrettanto. Invece, esse riuscirono

a bloccare la pubblicazione sul bollettino ACGIH del nuovo limite abbassato a 50 ppm e a lasciare "in sospeso" per dieci anni il problema del CVM e dei limiti di esposizione.

In effetti lo studio venne reso noto al pubblico solo nel 1973. La strategia ostruzionistica e irresponsabile dell’industria petrolchimica, specialmente in Italia, è resa chiaramente in un documento fatto circolare dalla dirigenza della Montedison quattro anni dopo:

[...] non ha senso infatti affrontare oggi perdite di produzione e costi sicuri per evitare conseguenze possibili in futuro se non si è accuratamente verificato che la loro gravità e la probabilità che si verifichino sono tali da non lasciare dubbi [...] L’obiettivo è non manutenere e, dovendo assicurare la capacità produttiva oggi e domani, se non si può farne a meno, manutenere il più raramente possibile.

In Italia, i sindacati confederali, alcune facoltà di medicina e di ingegneria, e i consigli di fabbrica di diversi stabilimenti formarono un gruppo di lavoro che nel 1975 produsse uno studio sui lavoratori italiani esposti al CVM, dal quale risultava che il 48,3% delle morti tra gli ex lavoratori era dovuto a tumori, mentre per la popolazione italiana dell’epoca la percentuale corrispondente era del 20%. Un risultato di per sé significativo (rischio maggiore del doppio), e che si accompagnava alla conferma dell’aumento di altre patologie: "alterazioni della trama polmonare", "cellule con alterazioni precancerose nell’escreato", "lesione delle ossa del polso (acroosteolisi)", "alterazioni della circolazione del sangue", "esami della funzionalità epatica [...] alterati nel 43% dei casi".

Ce n’era abbastanza per costringere la Montedison quanto meno a un monitoraggio della funzionalità epatica degli operai esposti; questo fu fatto, e i risultati, riguardanti 972 operai, furono riassunti in una lettera del responsabile del Servizio sanitario aziendale, in cui si diceva:

In conclusione, dopo circa cinque anni di controlli trimestrali fatti a questi lavoratori, possiamo attribuire sicuramente al CVM una patologia caratterizzata da lieve interessamento epatico per esposizioni complessivamente modeste, quali si sono avute, appunto in questo arco di tempo, negli impianti di Marghera. Nei lavoratori più anziani ed esposti in passato a più alte concentrazioni di CVM e PVC, è facile riscontrare fatti bronchitici cronici.

A partire dal 1982 il recepimento di una direttiva europea (di quattro anni prima) obbligò le aziende a tenere il registro dei lavoratori esposti al CVM.

Il rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità

Nel 1991 l’Istituto Superiore di Sanità pubblicò un rapporto, firmato anche da Maltoni, nel quale si leggevano le seguenti sconcertanti conclusioni, che apparentemente rovesciavano ciò che si pensava di sapere circa la patogenicità del CVM a Porto Marghera:

la mortalità per tutte le cause risulta significativamente inferiore a quella attesa in base ai dati sia nazionali che regionali; a questo deficit di mortalità contribuiscono in particolare le malattie dell’apparato circolatorio. La mortalità per tutti i tumori è inferiore alle attese. Si osservano due casi di tumore epatico rispetto a un valore nazionale di 1,1 e regionale di 1,3. Il numero di tumori polmonari osservati supera l’attesa nazionale, ma è vicino all’attesa regionale. Si osservano quattro decessi per neoplasie del sistema linfoemopoietico, con un atteso di 2,7 (nazionale) e 3,1 (regionale). Non si osserva eccesso di decessi di neoplasie in sedi non specificate.

Insomma, l’esposizione al CVM fa bene. Non ci vuole un grande acume per leggere in queste formulazioni un’ansia ‘innocentista’ del tutto sconveniente per un istituto pubblico il cui compito è di tutelare la salute dei cittadini.

Del resto ci sono almeno due spiegazioni evidenti per questa valutazione così ottimistica e in contrasto con le indagini precedenti: 1) il paragone tra i dati ottenuti sui lavoratori e quelli relativi alla popolazione generica non è ‘significativo’ se non in un senso squisitamente statistico – è infatti naturale aspettarsi da un lavoratore (soprattutto se addetto a un compito faticoso, come era appunto il caso) uno stato di salute generale migliore della media (questa osservazione evidente è nota in epidemiologia come effetto del lavoratore sano); 2) il conteggio dei casi non era stato effettuato correttamente: ci dovevano essere state diverse omissioni.

Anche il lettore più benevolo sarà d’accordo che errori di questa natura non sono esattamente quello che ci si dovrebbe aspettare da una squadra di professionisti della salute pubblica. Eppure c’è chi ha potuto scrivere a proposito di questo rapporto che l’ISS aveva "svol[to] egregiamente il [suo] lavoro".

Entra in scena un laico

A far fare un salto di qualità alla inchiesta sull’esposizione degli operai al CVM e al CPV a Porto Marghera e a trasformare questa vicenda in un caso giudiziario fu non uno scienziato, ma un operaio del petrolchimico andato in pensione nel 1990, Gabriele Bortolozzo, il quale dedicò almeno dieci anni alla ricostruzione della sorte sanitaria dei suoi colleghi. I risultati della sua indagine furono pubblicati sulla rivista Medicina Democratica nel 1994. Nel suo articolo egli scrive indignato che:

i dati che vengono forniti dagli enti pubblici e dalle aziende, sui morti da angiosarcoma, non sono credibili. Tra i deceduti a Porto Marghera, a causa dell’esposizione da CVM, soltanto a tre lavoratori è stata riconosciuta la morte per tale esposizione; ciò avviene per almeno due motivi: la mancanza di una legge specifica e l’occultamento e la falsità dei dati biostatistici concernenti gli addetti esposti al tossico.

Bortolozzo aveva ottime ragioni per ritenere che il censimento dei casi di patologie non fosse stato eseguito accuratamente: egli stesso, entrato al Petrolchimico nel 1956 (a 21 anni), aveva contratto appena un anno dopo il morbo di Raynaud, eppure nell’indagine epidemiologica del 1975 "non gli viene riscontrata alcuna patologia, unico caso su 130 addetti del reparto CV6". Inoltre egli sapeva che, accanto ai 1658 dipendenti Montedison, c’erano altri 480 operai addetti all’insacco del CPV (un compito particolarmente rischioso), che non erano stati considerati nelle indagini precedenti per una ragione di cui a nessuno sfuggirà la rilevanza scientifica... e cioè che appartenevano ad altre ditte, a cui la Montedison aveva appunto appaltato l’incombenza!

Sulla base della sua indagine Bortolozzo presentò nel 1994 un esposto alla magistratura veneziana. Stavolta fu dunque non solo un laico, ma addirittura un autodidatta, a compiere il lavoro determinante.

Quattro anni dopo, il 13 marzo 1998 prese avvio il processo alla dirigenza della Montedison, con pubblico ministero Felice Casson, che chiederà in tutto 185 anni di prigione per i 28 imputati, accusati (tra l’altro) di aver colpevolmente omesso di adottare le misure di sicurezza per gli operai del CVM e CPV, anche se erano ormai noti gli effetti patologici prodotti dall’esposizione a queste sostanze. È su questo punto che è ruotato gran parte del dibattimento.

Il processo si è concluso con una sconcertante assoluzione di tutti gli imputati il 2 novembre 2001. Le motivazioni della sentenza (circa mille pagine) sono state depositate nel maggio 2002. In esse si sostiene che "risulta che il rischio oncogeno era ignorato in tutte le industrie di produzione sia statunitensi che europee" fino al gennaio 1974 (dopodiché la Montedison avrebbe preso i provvedimenti opportuni). Come abbiamo visto, questa affermazione è falsa. Ma non in base agli inconcludenti esperimenti sugli animali di Viola e Maltoni (intorno al 1970), bensì delle indagini epidemiologiche della Dow Chemical, di dieci anni prima.

D’altra parte l’accento posto sulla questione della cancerogenicità è manifestamente fuorviante. Come abbiamo visto, fin dal 1949 si sapeva che il CPV faceva male. Questo sarebbe dovuto bastare a decidere per la condanna dei responsabili della Montedison, che niente avevano fatto per tutelare la salute dei loro dipendenti (ancora nel 1977, il loro "obiettivo" programmatico era, come abbiamo visto, di "non manutenere"!).

Casson ha successivamente presentato ricorso. Il testo di questo ricorso, di oltre mille pagine, è notevole sia per l’accuratezza della trattazione, sia per la grande varietà di questioni toccate, che interessano volta per volta il giurista, il medico, lo storico e l’epistemologo. Il processo di appello si è aperto il 21 gennaio 2004, ed è stato subito rinviato al 10 febbraio. Negli oltre due anni trascorsi, secondo una dichiarazione del pubblico ministero, "altri 20 operai sono morti di cancro".

La sentenza d’appello è stata pronunciata il 15 dicembre 2004. Stavolta molte delle assoluzioni sono state trasformate in prescrizioni del reato (il che significa concettualmente un capovolgimento, anche se i rei restano ugualmente impuniti), e in alcuni casi in condanne – come nel caso del responsabile del servizio sanitario centrale della Montedison dal 1965 al 1979 – alla reclusione di un anno e mezzo (con la condizionale) e a risarcire i figli di una delle vittime, nonché, per tutti gli imputati, al pagamento delle spese processuali. Una conclusione insoddisfacente e tardiva, ma per lo meno non scandalosamente sbagliata come la sentenza di primo grado.

 

4. UNO SCHEMA COMUNE

Nelle vicende che abbiamo descritto si può distinguere uno schema comune.

Fase 1. Una tecnologia che si controlla solo molto parzialmente viene introdotta in qualche settore.

Le autorità (in complicità più o meno diretta con l’industria che da quella tecnologia si ripromette nuovi e spesso enormi profitti) assumono subito una posizione tranquillizzante in merito, offrendo a conforto della innocuità di quella tecnologia i pareri di diversi consulenti scientifici.

Fase 2. Ben presto però sorgono dubbi circa la sua innocuità, e qualche studioso comincia ad occuparsi sistematicamente della questione.

Da queste ricerche – le prime di fatto che prendano sul serio la possibilità di effetti nocivi – emerge un giudizio più o meno netto sui rischi (per gli utenti o per i lavoratori) di quella tecnologia.

Fase 3. A questo punto le autorità reagiscono duramente: da un lato boicottano gli scienziati che sostengono la tesi del rischio, bloccandone la carriera, sospendendone i finanziamenti o addirittura imbastendo una campagna diffamatoria; dall’altro mobilitano i media e commissionano ricerche intese a confutare quella tesi e a confermare la versione delle autorità.

È la fase 3 che ora ci interessa: come si può riuscire a sostenere, presentandolo come verità scientifica, il contrario del vero, e questo non incidentalmente e per breve tempo, ma sistematicamente e per decenni?

La pseudoscienza della sperimentazione animale

Non c’è dubbio che la struttura gerarchica della comunità scientifica e i rapporti dei vertici di questa con l’industria e/o l’esercito svolgono un ruolo decisivo nel permettere che tesi scientifiche degne di considerazione siano invece escluse da ogni genuino dibattito e fatte oggetto, insieme ai loro autori, non di critica ma di diffamazione o censura. L’efficienza di questi sistemi di repressione della ‘devianza’ nella comunità scientifica è un dato di fatto innegabile.

Tuttavia la politica di potere della comunità scientifica si ammanta di solito di giustificazioni che abbiano almeno l’apparenza della "scientificità". Se in effetti si studiano in maniera più ravvicinata i casi che abbiamo discusso, si scopre una caratteristica ideologica che tutti condividono, e che riguarda direttamente la ricerca scientifica condotta in campo biomedico.

La caratteristica è che in tutti questi casi il riconoscimento della tossicità o cancerogenicità di una sostanza o agente è stato ritardato, confuso o altrimenti impedito da un mito metodologico: quello della sperimentazione animale come dimostrazione scientifica.

L’idea che un effetto non riprodotto su animali non potesse essere considerato accertato, nonostante gli studi epidemiologici e le osservazioni cliniche, è stata la principale arma dell’industria e dei governi per evitare che si lanciasse l’allarme su prodotti e tecniche di produzione vantaggiosi dal punto di vista dei profitti e/o della supremazia militare.

Per esempio, quando Pier Luigi Viola della Solvay rende noti al congresso di Houston i suoi risultati, egli si affretta a precisare: "Non si possono estrapolare dal modello sperimentale all’uomo implicazioni riguardanti la patologia umana". Questa affermazione, naturalmente, è corretta in generale. Nel caso specifico, si può rilevare che la ghiandola di Zymbal – dove Viola ha rilevato i carcinomi dei suoi ratti esposti al CPV – nell’uomo non esiste. Anzi, non esiste in nessun animale, se non appunto nei ratti e nei topi. Sentiamo la versione di Maltoni:

"Nel 1970 il prof. Viola riferisce per la prima volta che il cloruro di vinile produce nel ratto un tumore, raro negli animali non trattati, e cioè il carcinoma di una ghiandola sebacea localizzata nel condotto uditivo esterno (ghiandola di Zymbal). Col mega progetto iniziato nel 1971 e che comprenderà circa 7000 animali, nel Centro di ricerca sul cancro di Bentivoglio, diretto dal professor Maltoni, viene dimostrato in maniera inconfutabile che il cloruro di vinile è un agente cancerogeno forte e multipotente, cioè capace di provocare tumori in vari organi e tessuti, sia quando inalato, sia quando somministrato per via orale [...]".

In realtà, ciò che questi studi – che peraltro i ‘coraggiosi’ studiosi in questione si guardarono bene dal pubblicizzare tra i diretti interessati, cioè i lavoratori del CPV – riuscirono a fare fu di permettere che si ignorassero le evidenze epidemiologiche che avevano stabilito, già all’inizio degli anni sessanta, la cancerogenicità sugli umani.

Analogamente, a permettere che si ridicolizzassero i risultati della Stewart furono le radiografie su animali gravidi, le quali non producevano i tumori nei feti che ‘avrebbero dovuto’ (?) esserci. Bross ha scritto senza mezzi termini:

Basti dire che la ricerca sui rischi di mutagenesi fatta su animali è una frode scientifica. Esse [le agenzie] finanziano generosamente la ricerca fraudolenta perché dà loro quello che vogliono – grossolane sottostime dei rischi effettivi che possano essere presentate ai media e al pubblico "nel nome della scienza".

Quanto ai campi elettromagnetici a bassa frequenza, anche la IARC giudica l'evidenza di cancerogenicità sugli animali come "inadeguata", il che significa semplicemente che gli esperimenti sugli animali intesi a produrre tumori per mezzo dell'esposizione a campi elettromagnetici ELF sono stati, nel complesso, un fallimento (l’ennesimo da aggiungere a una lunga lista). È importante notare che le riserve della IARC nell'inserire nel suo gruppo 2B – invece che 2A – i campi magnetici ELF si fondano in buona misura proprio sull'adozione della sperimentazione animale come criterio; nel "Preambolo" (cap. 12) alla serie di monografie leggiamo infatti:

Gruppo 2B: L'agente (mistura) è un possibile cancerogeno per gli umani.

La circostanza dell'esposizione comporta esposizioni che sono possibili cancerogeni per gli umani.

Questa categoria è usata per agenti, misture e circostanze di esposizione per cui c'è una evidenza limitata di cancerogenicità negli umani, e una meno che sufficiente evidenza di cancerogenicità negli animali da esperimento.

Invece il gruppo 2A, quello dei "probabili cancerogeni", richiede, tranne che "eccezionalmente", che alla "limitata" o anche "inadeguata" evidenza negli umani si accompagni una "sufficiente" evidenza negli animali. Con queste definizioni è possibile, come è ormai ben noto, protrarre indefinitamente gli studi sugli animali finché le prove del danno sugli uomini non avranno raggiunto, per quantità e gravità, un livello tale da non poter più essere sottovalutate; a questo punto, emergeranno anche risultati sugli animali, peraltro imprevedibili e ambigui prima che si sapesse il risultato da ottenere.

Ecco per esempio cosa scriveva un'importante autorità medica alcuni decenni fa, quando c'erano ancora diversi scettici che asserivano che gli esperimenti di inalazione sugli animali – tutti falliti – rendevano dubbia la cancerogenicità del fumo di tabacco nell'uomo:

in considerazione dei pochi esperimenti di inalazione che sono stati portati avanti abbastanza a lungo da dimostrare una qualsiasi influenza cancerogena che il fumo possa avere, sarebbe stato uno stupefacente colpo di fortuna [astonishingly fortuitous] se proprio la tecnica giusta fosse stata usata nell'applicare fumo di tabacco proprio nella giusta quantità, proprio durante il giusto intervallo di tempo e proprio sul tessuto giusto di proprio l'animale giusto. [...] I problemi di produrre il cancro nel laboratorio di ricerca sono estremamente complessi e lungi dall'essere ancora compresi. Ciò che causa cancro in una specie non necessariamente lo causerà in un'altra. Ciò che causa cancro in un tessuto di un animale non necessariamente lo causerà in un altro tessuto dello stesso animale. È quindi concepibile che se il fumo di tabacco contiene davvero un agente che causa cancro nei polmoni di esseri umani, può non avere questo effetto nei polmoni o in qualsivoglia altro organo di un topo, o di una cavia, o di un cane.

Per lo stato dell'arte attuale nel caso del fumo si può consultare la voce "Tobacco Smoke" nel repertorio della IARC: sono registrati risultati positivi su criceti e ratti, leggermente positivi ma incoerenti sui topi, e si accenna a dati "insufficienti per la valutazione" a proposito dei cani. Questo dopo settant'anni di esperimenti sugli animali e con tutte le possibili varianti sopra indicate!

Insomma, il perdurare di questa metodologia arbitraria e fallace va spiegato principalmente mediante l’opportunità che essa fornisce di ‘provare’ qualsiasi cosa (su ordinazione, per così dire), e in particolare di mettere in dubbio, in quanto scientificamente insufficienti (!), le evidenze disponibili sugli umani e derivate dall’osservazione clinica ed epidemiologica. Il che permette di riconoscerla chiaramente come una pericolosissima pratica pseudoscientifica.

 

5. CONCLUSIONI

La discussione precedente ha mostrato come ci sia molto spazio nella ricerca scientifica per l’analisi critica da parte del laico, in quanto l’attività degli scienziati è intimamente legata a realtà che il senso comune permette di interpretare anche senza far uso di conoscenze specialistiche nelle discipline scientifiche coinvolte.

In particolare, penso che chi non abbia, delle vicende dell’ultimo mezzo secolo collegate alla scoperta e denuncia di fattori di rischio, una conoscenza storica equivalente pressappoco al contenuto di questo articolo, sarà difficilmente in grado di dare una valutazione ragionevole di situazioni analoghe attuali, quale che sia la sua competenza specialistica in qualsivoglia branca della scienza. Diciamolo chiaramente: il principale problema culturale che affligge il dibattito pubblico sulla scienza non è l’"analfabetismo scientifico" di cui i laici sono spesso sconsideratamente accusati. È l’analfabetismo storico-epistemologico dei professionisti.

Un altro insegnamento fondamentale è che non si può lasciare alle autorità e istituzioni scientifiche o mediche di provvedere al nostro benessere, o almeno di evitare l’aumento dei nostri mali, in quanto le forze sociali che condizionano l’attività degli scienziati sono molto intense – e l’interesse pubblico non è necessariamente una delle principali. Come abbiamo visto, l’esistenza e l’efficacia di queste forze non sono un’ipotesi (peraltro a priori plausibile sulla base delle analogie con altre comunità di lavoratori intellettuali), ma un fatto storico documentato oltre ogni ragionevole dubbio in casi della massima gravità verificatisi nel corso degli ultimi decenni. E, fatto che non andrebbe mai dimenticato, gli scienziati coinvolti in operazione di mascheramento dei rischi hanno goduto sempre, ovunque e costantemente della più completa impunità.

Infine, nel parlare di ‘scienza’ dobbiamo stare attenti a non ritenere che ciò che va sotto tale augusto nome sia sempre veramente tale – cioè rispettoso della tradizione che ha dato al sapere scientifico una posizione in qualche misura giustamente privilegiata. Il tipo di analisi che ci induce a dubitare delle profezie del cartomante può essere applicato utilmente – e anzi, deve esserlo – anche a ciò che fanno i professionisti della scienza.

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Inserito: 2003; riveduto: 24 aprile 2006

Scienza e Democrazia/Science and Democracy

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