STEFANO DUMONTET
I miti dell’agricoltura moderna:
la tecnologia come palingenesi
Premessa
Il problema dei miti tecnologici dell’agricoltura si lega indissolubilmente con quello dei miti della scienza e delle sue reiterate promesse palingenetiche.
L’agricoltura è la base della produzione delle derrate alimentari, base senza la quale nessun essere umano potrebbe soddisfare, o sperare di soddisfare, le sue esigenze nutrizionali. L’agricoltura produce il 99% delle calorie consumate nel mondo e dal 90 al 95% delle proteine, il resto viene ricavato dai prodotti della pesca.
L’agricoltura, dunque, è uno snodo fondamentale di ogni programma di sviluppo e rappresenta l’asse principale di ogni modello di sviluppo. Se ciò è vero nella sostanza, in pratica l’agricoltura, a dispetto del suo ruolo fondamentale, è oggi marginalizzata dal punto di vista culturale e viene sottoposta alla pressione enorme che viene da un comparto a monte, che comprende l’industria chimica, quella estrattiva e quella meccanica, e da un comparto a valle rappresentato dall’industria alimentare e da quella della grande distribuzione.
Tale situazione rende l’agricoltura un recipiente di scelte strategiche in campo scientifico, politico ed economico che derivano da ambienti a questa completamente estranei ed a volte molto lontani nel tempo e nello spazio dalla cultura del mondo agricolo e dal suo ambiente naturale.
Se fino alla rivoluzione industriale l’agricoltura definiva la struttura sociale, i rapporti di forze economici, la cultura e scandiva persino i tempi della vita quotidiana, in seguito è divenuta strumento di un modello sociale che ha svuotato le campagne, controllato la produzione attraverso la tecnologia senza possedere la terra, utilizzato organismi vegetali ed animali come oggetti di un processo produttivo industriale nel quale il termine "qualità" è divenuto sinonimo di "profitto" ed ha perso il suo irrinunciabile valore biologico.
Per trasformare così profondamente l’agricoltura, dominarla ed omologarla ad un modello di sviluppo industriale, si è chiamata in soccorso la scienza. Il ruolo della scienza in questo caso non è eticamente sostenibile e ricorre, senza pudore, alla creazione di veri e propri "miti" che vengono propagandati come "verità" solo perché sostenuti da cosiddette "rigorose analisi scientifiche". Tali "miti" oltre ad essere letteralmente imposti agli agricoltori attraverso ricatti economici e commerciali, sono divenuti l’ossatura stessa del sapere scientifico accademico e sono stati trasmessi ad intere generazioni di ricercatori, trasformandoli da potenziali scienziati in una casta di sacerdoti che officiano liturgie basate su dogmi mai messi in dubbio. Tenteremo di dimostrare, nel prosieguo di quest’articolo, come le "rigorose analisi scientifiche" non reggano alla prova della seria analisi scientifica e siano funzionali ad un preciso modello di sviluppo.
Nutrizione
Per comprendere i miti dell’agricoltura moderna bisogna far riferimento alle esigenze nutrizionali minime dell’uomo ed ai diversi sistemi alimentari in uso nei diversi paesi. Sistemi che hanno la loro base nelle culture e nelle colture differenti che caratterizzano i tanti popoli della nostra terra.
Da Lavoisier in poi, ogni flusso energetico viene calcolato intermini di calorie per cui possiamo individuare i bisogni nutrizionali in funzione delle calorie necessarie alla vita. Ovviamente, questo sistema implica un’approssimazione considerevole visto che non si vive di sole calorie. Infatti, abbiamo bisogno di ingerire con gli alimenti, oltre che apporto energetico, anche vitamine e nutrienti minerali a noi indispensabili. Dunque, gli alimenti debbono essere non solo quantitativamente sufficienti ma anche qualitativamente adeguati.
In ogni caso, seguendo l’approssimazione "energetica" possiamo stabilire le seguenti relazioni empiriche considerando che sono necessarie circa 7 calorie vegetali (CV) per ottenere una caloria animale (CA). Il consumo alimentare si può dunque misurare in calorie necessarie per ottenere una caloria al consumo (CI), secondo l’equazione CI = CV + CA x 7. Dunque, se la nostra necessità media in calorie è di 3500 CF, di cui 1400 di origine animale (CA), potremmo scrivere:
2100 CV + (1400 CA x 7) = 11900 CI
Sapendo che 1 kg di cereali vale circa 3500 calorie, possiamo trasformare le CI in equivalenti cereali (EC):
11900/3500 = 3,4 EC
Questo è il valore medio della razione alimentare nell’Europa del nord nel 1990, mentre il valore medio dei paesi più poveri della Terra è di 0,7 EC. Benché le calorie siano omogenee dal punto di vista fisico, non lo sono dal punto di vista nutrizionale. Le specie coltivate hanno, oltre al loro valore energetico, altri principi nutrizionali essenziali che variano molto da specie a specie e nelle diverse condizioni pedoclimatiche e di tecniche agricole.
Nonostante queste limitazioni, i calcoli appena definiti permettono di stimare e comparare il livello di produttività del lavoro agricolo.
Le tipologie dei consumi alimentari possono aiutare a definire i profili agro-nutrizionali, che mettono in luce sia le preferenze alimentari espresse da specifiche nazioni, sia la specializzazione agricola che sottende le richieste dei consumatori.
In Figura 1 sono riportati alcuni profili agro-nutrizionali di paesi occidentali e di paesi in via di sviluppo.
Figura 1 – Profili agro-nutrizionali di alcuni paesi (da Malassis, 1986)
La distribuzione della popolazione in fasce relative al livello di consumazione espresso in calorie finali permette di definire diversi tipi di società, come mostrato dalla Tabella 1.
Per le società di consumo di massa il paradigma alimentare si inverte. In queste società i consumatori ingeriscono più calorie di quante ne siano necessarie al loro organismo per svolgere tutte le funzioni connesse con lo stile di vita occidentale. I nutrizionisti, infatti, consigliano per i paesi dell’Unione Europea l consumo di 2500 calorie pro capite, divise in 55% di glucidi, 30% di lipidi e 15% di proteine.
Come variabile imponderabile del sistema alimentare occidentale, ritroviamo il marketing alimentare con il corollario di strumenti di vendita come il confezionamento, gli aromi, la pretesa novità e l’originalità del prodotto, che riduce l’alimento a bene di consumo e spinge il consumatore ad ingerire quantità crescenti di alimenti per soddisfare le esigenze del mercato prima delle sue stesse esigenze nutrizionali. Questa situazione determina dismetabolismi gravi ed ha recentemente spinto la FAO a dichiarare endemica l’obesità negli Stati Uniti d’America. In una società che idolatra i magri si spendono 93 miliardi di dollari all’anno (9,1% dell’intera somma destinata a spese mediche) a causa di patologie legate all’obesità. Obesi negli USA sono il 13% dei bambini ed il 61% degli adulti (http://nationalacademies.org/headlines, 2003).
Tabella 1. Distribuzione della popolazione in fasce relative al livello di consumazione espresso in calorie giornaliere per abitante
Calorie giornaliere per abitante tra 1500 e 1900 |
Calorie giornaliere per abitante tra 1900 e 2300 |
Calorie giornaliere per abitante tra 2300 e 2700 |
Calorie giornaliere per abitante tra 3100 e 3500 |
Calorie giornaliere per abitante > 3500 |
Tipo di società |
Meno del 70% |
Tra 20 % e 30% |
Tra 5% e 15% |
Meno del 5% |
Meno di 5% |
Povertà di massa |
Circa 10% |
Circa 50% |
Tra 10% e 30% |
Tra 5% e 10% |
Meno del 10% |
Povertà relativa |
Meno del 5% |
Tra 10% e 40% |
Tra 40% e 50% |
Tra 5% e 10% |
Meno del 10% |
Distribuzione normale |
Circa il 5% |
Tra 5% e 10% |
Tra 10% e 20% |
Cicrca il 50% |
Circa il 10% |
Abbondanza relativa |
Circa 1% |
Meno del 5% |
Tra 5% e 10% |
Tra 15% e 30% |
Più del 65% |
Consumazione di massa |
In questo tipo di analisi bisogna tener presente un altro tipo di variabile: la disponibilità media pro capite delle calorie. La FAO valuta questa variabile a livello di distribuzione, così la "disponibilità media pro capite" diviene la misura della produttività agricola e tiene conto del fatto che le calorie alla produzione non sono uguali a quelle al consumo. Ciò dipende dai sistemi di produzione, di distribuzione, dalle specifiche culturali e dagli stili di vita dei paesi considerati. Conservazione, preparazione, resti (inclusi quelli dati agli animali di compagnia) fanno si che nei paesi occidentali sono consumate. Meno del 75% delle calorie acquistate sotto forma di alimenti
A tali considerazioni bisogna aggiungere che la disponibilità degli alimenti non è sempre coerente con la quantità consumata, infatti carenze nutrizionali diffuse esistono anche in paesi forti esportatori di derrate alimentari.
Considerando tutte queste variabili si arriva alla definizione di "modelli agro-nutrizionali" caratterizzati da sei fattori principali:
Per quanto riguarda la "capacità di consumare" è interessante seguire l’andamento del "prezzo reale del grano" in Francia dal 1700 al 1990. Quest’indice si ricava dividendo il prezzo al quintale del grano per il salario orario dell’operaio agricolo. In tal modo si mette in evidenza il numero di ore necessarie per produrre un quintale di grano e si indica indirettamente il potere di acquisto di un salariato. In Francia quest’indice si situa tra 150 e 250 ore dal 1700 al 1820, scende a 130 ore nel 1850 e si riduce a 5 ore nel 1990. In tal modo si realizza il passaggio dalla società di povertà di massa a quella di consumazione di massa.
Da queste poche note è evidente la complessità del mondo agricolo, della produzione di derrate alimentari e delle variabili storiche, culturali, religiose e pedo-climatiche che interagiscono nel definire un modello di consumazione alimentare. Come vedremo in seguito, le grossolane analisi iperliberiste, che tendono a ridurre la complessità di questo sistema ad una semplice equazione basata sulla produzione quantitativa di derrate alimentari, si basano su di una visone parziale ed irreale della situazione e tendono ad imporre scelte tecnologiche altrettanto irreali per risolvere problemi che fondamentalmente ignorano. La scienza con il suoi corollari tecnologici è organica a questo irreale modello di sviluppo.
L’agricoltura moderna
Per capire il paradigma agricolo moderno e le sue frange periferiche localizzate nei paesi poveri bisogna, seppur rapidamente e per sommi capi, ripercorrere la storia dell’agricoltura in età moderna.
E’ la rivoluzione industriale ad imporre un drastico cambiamento all’agricoltura. Si creano lavori salariati in città e si impoveriscono le campagne. Gli effettivi agricoli in Gran Bretagna passano dal 47% della popolazione attiva nel 1830 al 9% nel 1950. Nello stesso periodo in Francia gli effettivi agricoli passano dal 61% al 30% della popolazione attiva.
Questo cambiamento dei rapporti di forza tra città e campagna si realizza grazie all’aumento di produttività agricola reso possibile dalle nuove conoscenze scientifiche e dalla meccanizzazione. Alla metà del XIX secolo la continua emorragia di manodopera verso le città e l’emigrazione fanno aumentare l’importanza delle colonie come produttrici di derrate alimentari ed impone a queste una trasformazione radicale dell’agricoltura. Vedremo in seguito quale prezzo pagheranno le colonie delle potenze occidentali per questa trasformazione forzata del loro apparato produttivo agricolo.
La produzione agricola nelle colonie, la diminuzione del numero di addetti per unità di prodotto e lo sviluppo intenso delle attività industriali provocano un surplus di popolazione attiva che non viene più assorbita nel sistema produttivo. Così dal 1815 al 1915 circa 46 milioni di europei emigrano verso Stati Uniti, Canada, Australia ed America latina, mentre circa 20 milioni seguono la stessa strada tra il 1920 ed il 1970. A questo flusso migratorio verso l’esterno si accoppia un intenso flusso migratorio interno verso le aree fortemente industrializzate che spopola ulteriormente le campagne.
La rivoluzione industriale, le nuove conoscenze scientifiche e la scoperta di territori esotici e le loro piante eduli travolgono l’agricoltura tradizionale europea ed impongono una nuova struttura produttiva. I cambiamenti più radicali si hanno dagli anni ’40 del ‘900 in poi.
La meccanizzazione è senz’altro lo strumento più potente in questo processo. E’ possibile identificare 5 momenti differenti nella conquista delle terre arabili da parte delle macchine agricole. La nostra esemplificazione si riferisce ad aziende localizzate in pianura e specializzate nelle coltura di cereali. Il primo passo nella meccanizzazione agricola (dal 1940 al 1950) incrementa la produzione da 10 ha/addetto a 30 ha/addetto. La seconda tappa (dal 1950 al 1960) fa aumentare questo rapporto da 30 a 50 ha/addetto. L’aumento della potenza delle macchine agricole e la loro più spinta specializzazione fa aumentare il rapporto fino ad 80 ha/addetto (terza tappa, dal 1970 al 1980), mentre dal 1970 al 1980 la quarta tappa della meccanizzazione porta l’efficienza di produzione fino a 100 ha/addetto. La quinta ed ultima tappa, dopo il 1980, grazie all’agricoltura di precisione (tecniche colturali guidate da satellite) porta la produttività potenziale fino a 200 ha/addetto.
Se la meccanizzazione ha portato ad un aumento della superficie coltivata per addetto, l’input chimico e la selezione di particolari varietà vegetali hanno permesso di aumentare la resa in cereali da 10 q/ha a 30 q/ha nel 1950 ed a più di 100 q/ha nel 1990.
I meccanismi di selezione vegetale hanno privilegiato i seguenti aspetti:
selezione di nuove varietà ben adattate all’alto input chimico. Le varietà coltivate all’inizio del 1900 non avrebbero sopportato le alte dosi di concimi minerali oggi correntemente utilizzate.
Selezione di nuove varietà ben adattate ad essere processate dalle macchine agricole.
L’ingegneria genetica si propone di continuare a "migliorare" ciò che non è più "migliorabile" con le tecniche tradizionali di selezione per incrocio. Vedremo nel capitolo "Il mito della produttività, i guasti della rivoluzione verde e le promesse dell’ingegneria genetica" quanto fallaci siano le promesse ipertecnologiche.
L’aumento di produttività agricola non si è limitato alle specie vegetali, ma ha interessato anche quelle animali. All’inizio del ‘900 un addetto poteva mungere non più di 12 mucche al giorno, oggi nei moderni impianti di mungitura meccanizzata si possono mungere fino a 200 mucche per addetto. Inoltre, mentre all’inizio del ‘900 una mucca produceva 2000 litri di latte per anno ed era alimentata con 15 kg di fieno per giorno, oggi mucche selezionate producono 10.000 litri di latte all’anno e sono nutrite con 5 kg di fieno e 15 kg di mangimi altamente nutritivi al giorno.
Un’azienda agricola pre-industriale si basava su di una notevole quantità e varietà di prodotti (forza di trazione animale, foraggio, letame, semi, animali da riproduzione, attrezzi agricoli, ortaggi, legna, ecc.) tutti indispensabili alla produzione. Oggi, in funzione dei successi produttivi, le aziende si sono specializzate ed hanno abbandonato la poliproduzione. Si sono così affermati dei paradigmi produttivi multiregionali specializzati e complementari (regioni di allevamento per carene o latte, regioni di colture intensive, regioni a vocazioni orticola, regioni viticole, regioni con vocazione frutticola, ecc.). Dunque, intere regioni producono in assoluta specializzazione ciò di cui il mercato ha bisogno o ciò che richiedono altre regioni produttive, vicine o lontane. La divisione del lavoro e la specializzazione produttiva delimitano una divisione del lavoro orizzontale, fatta di sistemi regionali specializzati che adottano una altissima divisione dei saperi ed una divisione verticale che attraversa i vari sistemi produttivi regionali partendo dal comparto a monte dell’agricoltura (industria estrattiva, chimica e meccanica) e finendo nel comparto a valle (industria di trasformazione e distribuzione) che prevede un’enorme diversità culturale e di approccio pratico ai problemi.
L’agricoltura occidentale diviene così dipendente dai due compartimenti a monte ed a valle ed è forzata a far propri i principi informatori della realtà industriale, parte esenziale della produzione agricola. E’ semplice a questo punto ripercorrere il paradigma agricolo con la guida dell’approccio meccanicistico e seguire la sua progressiva trasformazione da tecnica di gestione di organismi viventi a tecnica di gestione di macchine biologiche. E’ solo in questo contesto che si può chiarire il ruolo della scienza in tale processo e l’evoluzione di un’idea che riduce gli organismi viventi a macchine da programmare attraverso l’ingegneria genetica.
Oggi si continua a seguire lo stesso modello di sviluppo attraverso tecnologie agricole sempre più raffinate tese ad ottimizzare ancora di più le produzioni diminuendo sia il numero di addetti che la terra coltivata.
Gli esegeti della modernità e della industrializzazione agricole indicano nelle nuove tecnologie, sia meccaniche che biologiche la soluzione al problema della diminuzione delle terre coltivate, o coltivabili, dovuta a fenomeni di gravi dissesti ambientali e a modificazioni perenni del suolo a causa della cementificazione di enormi superfici. Quest’idea è senza alcun fondamento.
Per dotare solo un quarto dell’agricoltura dei paesi poveri dei mezzi di produzione occidentali bisognerebbe investire migliaia di miliardi di dollari, obiettivo impensabile almeno nel medio periodo. In più, rimpiazzando gli uomini con le macchine, ed in virtù dell’incremento della produttività per addetto, si proietterebbero sul mercato del lavoro circa tre quarti della mano d’opera agricola mondiale, la qual cosa raddoppierebbe il numero dei disoccupati. In un’epoca in cui non ci sono territori nuovi che possano assorbire mano d’opera in eccesso e in cui l’industria non riesce ad impiegare nemmeno i disoccupati esistenti, una simile prospettiva rappresenta un incubo economico, sociale e politico.
In effetti, nonostante gli ingentissimi capitali spesi per promuovere l’agricoltura moderna, questa non ha interessato che settori molto limitati dei paesi in via di sviluppo. La grande maggioranza degli agricoltori dei paesi poveri non può permettersi di acquistare macchine agricole e concimi minerali (figuriamoci se può permettersi di acquistare i semi geneticamente modificati, più cari di quelli tradizionali e soggetti a strette regole di utilizzazione). Circa l’80% degli agricoltori africani, dal 40 al 60% di quelli sud americani ed asiatici continuano a lavorare con utensili manuali e solo dal 15 al 30% di loro possiede un animale da tiro.
Con in mente un approccio di tipo tecnocratico, le agricolture povere dei paesi in via di sviluppo sono considerate come marginali, arretrate e destinate alla scomparsa. Si ripropone per queste agricolture l’interpretazione corrente della "stagnazione agricola" dell’Europa settecentesca. Il motivo unico del superamento di dello stato di stallo che raggiunse l’agricoltura alla fine del XVIII secolo è comunemente interpretato in funzione tecnica, nel senso che solo l’agricoltura moderna ha permesso il superamento delle barriere produttive traghettando l’Europa nella modernità.
Come sempre, interpretazioni frettolose sovrappongono gli effetti dovuti a molteplici e diverse cause e non sono in grado di comprendere quali siano le forze in gioco nel complesso mondo agricolo. Questa ipersemplificazione porta di nuovo a considerare la tecnologia come unico punto di riferimento ed unica via per salvare il mondo dalla fame, attraverso un incremento di produttività.
Una banale analisi storica mette invece in luce una situazione del tutto diversa. Per esempio nell’Europa precedente la rivoluzione industriale, una minoranza, probabilmente meno del 5%, di notabili, religiosi, aristocratici, mercanti, militari governava un’enorme popolazione di contadini. Le rendite provenienti dalle terre venivano investite nella costruzione di chiese, monumenti, palazzi, città e per mantenere alto il livello di spesa della minoranza al potere e non venivano reinvestite in agricoltura. La stagnazione dell’agricoltura il quel periodo risente fortemente di questa situazione e del sistema di controllo sociale, che impediva ai contadini l’accesso persino alla cultura tecnica, con gravi riflessi negativi sulla produttività agricola
Nei paesi del terzo mondo si verifica una situazione analoga. Guerre, devastazioni, economie di rapina, analfabetismo, pauperizzazione, marginalizzazione e concorrenza con agricolture occidentali sovvenzionate causano gravissime situazioni, che sfociano spesso nell’emergenza umanitaria. Appare evidente ed ovvio che trasformare queste agricolture in produttrici di organismi geneticamente modificati, non servirebbe assolutamente a nulla.
Il calo dei prezzi al consumo è un altro dei meccanismi puramente economici che distruggono le agricolture dei paesi poveri. Per fare un esempio, un agricoltore europeo ben attrezzato, che dispone di 100 ha di terra, può produrre circa 8.000 quintali di cereali all’anno con un guadagno di circa 120.000 euro. Da questi, dopo aver dedotto l’ammortamento ed i beni e servizi utilizzati, gli rimangono tra 60.000 e 75.000 euro da cui dovranno essere decurtate le tasse, gli eventuali debiti con le banche, l’eventuale fitto del terreno. Il reddito netto di quest’ipotetico agricoltore si aggirerà tra 15.000 e 30.000 euro all’anno. Allo stesso livello dei prezzi un coltivatore del terzo mondo (come abbiamo visto l’80% degli agricoltori africani e dal 40 al 60% di quegli asiatici e sud americani lavorano con utensili manuali), che produce manualmente 10 quintali di cereali all’anno, otterrebbe 150 euro all’anno se vendesse tutta la sua produzione. Poiché deve conservarne almeno 7 quintali per sfamare se e la sua famiglia, il suo reddito arriverà a malapena a 45 euro all’anno, sempre che non debba pagare affitto, interessi, imposte, ecc. In queste condizioni conservando tutto il suo reddito impiegherebbe circa 30 anni per comprare una piccola macchina agricola, circa 300 anni per acquistare un trattore e circa 3.000 anni per dotarsi di un parco macchine completo.
La limitatissima capacità di produzione di questi agricoltori non permette loro di eseguire i necessari lavori di manutenzione dei fondi agricoli, li mette nella necessità di indebitarsi. Poiché di solito dopo il raccolto potrà nutrirsi solo per pochi mesi, si indebiterà ancor più pesantemente. Quando nessuno vorrà più far loro credito l’unica via di uscita è l’esodo verso le bidonville o verso i paesi ricchi.
Su questa tragica realtà si vorrebbe innestare la scelta ipertecnologica dell’agricoltura geneticamente modificata con l’esplicito programma di salvare queste popolazioni dalla fame e con lo scopo nascosto di asservirle ancora di più.
Il mito della produttività, i guasti della rivoluzione verde e le promesse dell’ingegneria genetica
Anche per comprendere appieno il mito della produttività agricola bisogna fare un passo indietro e cercare di inquadrare il problema storicamente. A questo proposito mi sembra istruttivo ricordare cosa successe tra il 1876 ed il 1902 alla periferia dell’impero britannico. In quegli anni si sono avute tre terribili carestie di cui l’ultima, tra il 1876 ed il 1902, ha causato non meno di 60 milioni di morti in un mondo che aveva circa un sesto dell’attuale popolazione. Il conto approssimativo dei decessi causati dalla crisi del 1896-1902 riporta 19 milioni di morti in India, 1 milione in Brasile, 10 milioni in Cina e circa 1 milione in Marocco e Corno d’Africa. Questa spaventosa crisi fu causata da due eventi concomitanti. Il primo dovuto ad una sfavorevole contingenza meteorologica ed il secondo alla politica economica britannica nei confronti delle colonie.
Se è vero che nei periodi indicati si sono avute gravissime crisi ambientali è pur vero che la burocrazia imperiale forzò l’apparato produttivo coloniale a stravolgere il suo sistema agricolo a favore delle esigenze economiche britanniche. Gli agricoltori delle colonie inglesi si trovarono all’improvviso "globalizzati" a loro insaputa.
Infatti, la Gran Bretagna modificò la sua politica economica intorno al 1846, passando da un’epoca di protezionismo ad una di libero commercio. La Gran Bretagna adottò il cosiddetto Golden Standard nel 1821 e tutte le nazioni occidentali l’adottarono nel 1871. Questi accordi commerciali basati sull’oro come riferimento per il valore delle diverse monete, è paragonabile agli accordi realizzati nell’ambito del moderno Uruguay Round Trade Agreement.
L’applicazione del Golden Standard depauperò le colonie e spinse le potenze occidentali a drenare le risorse dei paesi che dominavano. In particolare, l’Inghilterra obbligò le sue colonie a convertire la loro agricoltura in modo da soddisfare le sue esigenze. Alla vigilia della tremenda crisi alimentare del 1896-1902, l’Inghilterra ridusse della metà il raccolto di grano, a causa della velocissima riconversione economica verso la produzione industriale, e raddoppiò l’esportazione di grano dall’India. La crisi dei monsoni di quell’anno mise in ginocchio l’autonomia alimentare indiana, la quale fu strangolata tra esportazioni, rimborso del debito e costo dell’ British India Office. Il magro surplus di grano si esaurì quasi completamente. Tutto ciò portò ad una catastrofe alimentare senza precedenti nella storia.
A questo aggiungiamo i rapidissimi progressi nelle tecnologie di trasporto (navi a vapore e treni), che resero le coltivazioni da esportazione ancora più vantaggiose aggravando ancor di più le squilibrate condizioni dell’apparato agricolo. La deliberata distruzione dei sistemi agricoli tradizionali a favore di coltura da esportazione rese l’emergenza climatica una tragedia mai vista prima.
La deregolamentazione degli scambi commerciali, l’improvvisa globalizzazione dell’agricoltura, le necessità alimentari della Gran Bretagna in fase di rapidissima industrializzazione, le nuove tecnologie nei trasporti sono state le cause del disastro umanitario e dell’assoggettamento delle agricolture dei paesi poveri a logiche commerciali occidentali. Tali logiche sono tutt’ora in vigore e le terribili difficoltà vissute dai paesi in via di sviluppo hanno oggi esattamente le stesse cause del periodo tardo vittoriano.
In queste condizioni è difficile pensare che la tecnologia agricola da sola ed il solo incremento delle rese per ettaro possano debellare la fame dal mondo. La povertà e la fame sono risultato di politiche commerciali di rapina e non dell’arretratezza dell’agricoltura dei paesi poveri.
A questo proposito vale la pena di ricordare che non esiste "l’agricoltura", ma esistono al mondo decine e decine di "agricolture", tutte diverse e tutte calibrate in funzione dei sistemi agro-alimentari (vedi il capitolo Nutrizione), delle differenti situazione pedo-climatiche e delle diverse colture patrimonio delle diverse culture del mondo.
Persino le agricolture più povere sono in evoluzione continua e partecipano alla creazione della modernità. Mazoyer e Roudart (1997) osservano a questo proposito: "Tenuto conto del ruolo che dovranno giocare tutte le agricolture del mondo nella conservazione di un avvenire durevole per l’umanità, è inquietante constatare a che punto l’opinione degli spiriti illuminati dei nostri tempi sia lontana dalle realtà agricole e fino a che punto anche coloro che sono chiamati a gestire l’agricoltura ignorino tutta la ricchezza dell’eredità agraria dell’umanità".
Ignoranza, superficialità, mancanza di prospettiva storica, arroganza ipertecnologica, spregio per le culture indigene ed indifferenza per le evidenze ecologiche e biologiche sono il patrimonio di chi prospetta un luminoso futuro a tutti quelli che sapranno convertirsi ai dettami dell’agricoltura "moderna".
La tecnologia come ausilio per i ricchi e soccorso per i poveri
Il paradigma tecnologico non conosce confini e nella sua distorta e miope visione del mondo indica come prioritaria la scelta di trasformare ancora una volta le agricolture dei paesi poveri secondo i dettami della più moderna scienza agronomica occidentale. A parte di disastri causati da un aumento della produttività per ettaro a cui abbiamo più sopra accennato ed ai costi proibitivi connessi a questa trasformazione, cerchiamo ora di esaminare la validità scientifica dei miti relativi all’aumentata produttività delle sementi della "rivoluzione verde", la rivoluzione agricola che dice di sé di aver salvato il mondo dalla fame nell’ultimo dopoguerra.
Questo miracolo è avvenuto grazie a tre motivi principali 1) meccanizzazione, 2) concimazione minerale, 3) uso delle cosiddette sementi "ibride" dette anche High Yelding Varieties (HYV) o "varietà ad alta resa".
Si tratta di un’impostura scientifica che ha dell’incredibile. In primo luogo queste varietà non sono ad alta resa, ma ad alta risposta. Ciò significa che rispondono bene alle tecniche agricole ad alto input energetico e chimico, ma nulla si sa della loro resa in condizioni agricole diverse da quelle occidentali e non esiste nessuna misura oggettiva o neutrale in grado di dimostrare la superiorità di queste colture rispetto a quelle tradizionali. Cercheremo di spiegare in breve questo punto di vista, ma prima vediamo in cosa consistono questi semi miracolosi.
Nei primi anni del ‘900 si cominciarono ad accumulare informazioni sul cosiddetto "vigore dell’ibrido", in sostanza si tratta di piante particolarmente rigogliose che derivano da due genitori non particolarmente brillanti sotto il profilo della produzione. A questo punto si incomincia a costruire un mito tecnologico e si comincia a fornire una sostegno scientifico, che invece tutto è tranne che scientifico, alla presunta superiorità degli ibridi. Lewontin (1993) osserva a questo proposito "Quelle che vengono presentate come scoperte fondamentali sulla natura della vita spesso nascondono semplici relazioni commerciali che danno un potente impulso alla direzione ed all’oggetto della ricerca.
Il caso degli ibridi è paradigmatico in quanto questi derivano dalla fusione di due linee parentali rese geneticamente omogenee da autoincroci. Il caso più noto è quello del mais, pianta con fiore maschile e femminile sulla stessa pianta. Quando il mais si riproduce la pianta figlia è il risultato della fecondazione avvenuta tra il fiore maschile di una pianta ed il femminile di una pianta diversa. Il selezionatore, una volta trovata una pianta promettente, la autoincrocia (fecondazione del fiore femminile a carico di quello maschile presente sulla stessa pianta). Due linee parentali di questo tipo vengono poi fatte incrociare tra loro e nasce così l’ibrido. Questo dovrebbe essere dotato di straordinario vigore sia rispetto alle piante progenitrici che alle varietà tradizionali. Il contadino che si affida a questi ibridi ha il suo avvenire assicurato. La verità è tutt’altra.
Gli ibridi sono stati prodotti per obbligare il contadino a comprare le sementi ogni anno, invece di conservare parte del raccolto e seminarlo di nuovo l’anno successivo. La caratteristica principale dell’ibrido riguarda l’impossibilità di piantare un seme di mais ibrido ed ottenere di nuovo mais ibrido. Le linee parentali sono autopropaganti (autofecondate), mentre l’ibrido non lo è (visto che nel campo sarà eterofecondato). Per cui lo sprovveduto agricoltore che semina l’ibrido l’anno dopo il raccolto ottiene una mescolanza di varietà omogenee ed eterogenee e nel suo campo ci sarà una popolazione di piante con diversi gradi di ibridismo. Il risultato è che il raccolto sarà inferiore a quello dell’anno precedente. L’agricoltore è dunque costretto ad acquistare le sementi ibride ogni anno.
Schull, il pioniere delle ricerche sugli ibridi, studia dal 1905 al 1908 gli ibridi e nel suo articolo del 1909 osserva che la sua "invenzione" costringe l’agricoltore a rifornirsi di semi ogni anno e non menziona assolutamente la pretesa superiorità produttiva degli ibridi di mais. E’ solo più tardi che Schull comincia a suggerire che il suo metodo potrebbe migliorare il mais. L’"invenzione" nasce dunque come tecnica di espropriazione e non di selezione. In un articolo del 1919 East e Jones scrivono "Gli ibridi sono qualcosa alla cui produzione i mercanti di semi potrebbero facilmente dedicarsi; infatti, è la prima volta nella storia dell’agricoltura che un mercante di semi è in condizione di conseguire l’intero profitto da una sua creazione o da qualcosa che ha acquistato (…). L’uomo che dà origine ad una nuova pianta che può portare incalcolabili benefici a tutto il paese non ottiene nulla – neanche la fama – per le sue fatiche e la pianta può essere propagata da chiunque. (…) L’utilizzazione degli ibridi di prima generazione consente a colui che l’ha creata di conservare i tipi parentali e di cedere solo i semi incrociati, meno validi agli effetti di un’eventuale propagazione. Dunque, risulta chiaro come la molla che ha spinto verso l’utilizzazione degli ibridi sia il miraggio, poi concretizzato, di ricavare enormi profitti da questa tecnica.
L’impeto straordinario all’utilizzazione degli ibridi fu impresso da Henry Wallace, nominato nel 1932 Segretario all’Agricoltura dal Presidente americano Franklin D. Roosevelt. Wallace, figlio di un altro Segretario all’Agricoltura, è un esperto di ibridi e fonda nel 1926 la Pioneer Hybrid Seed Company. Questa ditta parte in sordina, ma l’intera industria degli ibridi inizia a decollare nel 1934 e nel 1944 aveva un fatturato tra i 60 e 70 milioni di dollari. La Pioneer è oggi una delle principali ditte sementiere del mondo.
Gli ibridi sono oggi estesi a 23 specie alimentari, 2 specie animali (pollame e maiale) ed in futuro si spera di aggiungere altre 10 specie vegetali.
Quali sono le incredibili, e sempre taciute, debolezze scientifiche, economiche e politiche di questa tecnica?
L’eterosi.
In gergo scientifico "eterosi" significa "rigoglio dell’ibrido" e dovrebbe essere la base genetica della superiorità delle varietà HYV. Il problema è che nessuno sa cosa sia. Berlan (2001) riporta alcune delle conclusioni del Congresso mondiale sull’eterosi organizzato dal Centro Internazionale per il Miglioramento del Mais e del Frumento nell’agosto del 1997:
Le cause dell’eterosi a livello fisiologico, biochimico e molecolare sono oggi oscure come al momento della conferenza sull’eterosi del 1950
Ed ancora
Le basi genetiche esatte dell’eterosi forse non saranno né mai conosciute né comprese.
Nelle conclusioni finali del Congresso si legge che le incertezze scientifiche e la mancata comprensione del fenomeno non devono spingere ad abbandonare questa tecnica.
La selezione diretta produce gli stessi risultati degli ibridi e per di più in modo stabile
Lewontin (1993) riporta i risultati eseguiti con piante di mais non ibridoù, risultati mai contestai, che dimostrano come le tecniche classiche di miglioramento genetico possano dare piante molto produttive che conservano, generazione dopo generazione, le loro caratteristiche. Il problema è che nessun riproduttore intraprenderà una simile ricerca che non darebbe nessun tornaconto economico.
Non è dimostrato che le rese degli ibridi siano sempre superiori
Tra il 1921 ed il 1946, periodo di sviluppo esclusivo degli ibridi, il mais (pianta ibrida) aumenta il rendimento del 18%, mentre il frumento (pianta non ibrida) aumenta il rendimento del 32%. Questo solo dato dovrebbe mettere in discussione il valore della presunta superiorità degli ibridi e sottolineare come l’utilizzo degli ibridi abbia di fatto frenato il miglioramento del mais. In più, in un importante articolo del 1956 Robinson et al. studiano le rese di 6 varietà ibride di mais e riportano che la media di produttività degli ibridi è pari al 111,5% della media dei genitori migliori. Se a questo si aggiunge che l’errore standard delle differenze tra i valori percentuali di ciascun ibrido e la media dei genitori è pari al 7,3%, si capisce facilmente come la pretesa superiorità dell’ibrido sia ben lontana dall’essere dimostrata e, nel caso esista, è lungi dall’essere una straordinaria ed irraggiungibile produttività.
Ciò che i dati dimostrano è che una linea parentale particolarmente buona (ricavata con tecniche di miglioramento genetico tradizionali) incrociata con un’altra linea particolarmente buona danno una progenie altrettanto buona. Per sapere questo non c’era bisogno di ricorrere all’eterosi. Si tratta di tecniche di selezione vecchie di almeno due secoli a cui si è solo aggiunta la particolarità del decremento di produttività, dovuto al rimescolamento dei caratteri, per conferire alle nuove varietà un valore aggiunto supplementare di carattere commerciale.
Autoreferenzialità
Berlan (2001) verifica le citazioni bibliografiche riportate da H. Jugenheimer (Hybrid maize breeding and seed production, John Wiley & Sons, New York, 1976) a sostegno della sua affermazione "stime conservatrici indicano che le sementi ibride hanno incrementato la produzione negli Stati Uniti dal 20 al 50%". Delle tre citazioni riportate, la prima si riferisce ad un suo libro del 1958, dove la stessa affermazione è riportata senza alcun riferimento bibliografico, la seconda si basa su di una dichiarazione di un sottosegretario all’Agricoltura, che non fornisce nessun riferimento a sostegno, la terza si riferisce ad una pubblicazione di ricercatori del Ministero dell’Agricoltura che citano come riferimento lo stesso sottosegretario.
Costi e benefici
L’utilizzazione degli ibridi ha portato ad un aumento dei costi di produzione del mais. Se un agricoltore che risemina il suo mais ibrido ha, nel secondo anno di produzione, un calo di produzione dovuto alla rottura dell’ibrido, le sementi ibride avranno un costo che incorpora il guadagno in produttività. In altri termini, se il rendimento medio del mais è di 75 quintali l’ettaro, l’agricoltore spende l’equivalente di 15 quintali per ettaro per acquistare le sementi ibride, il ce fa scendere la produttività degli ibridi a 60 quintali per ettaro. Questo rendimento effettivo è ben lontano dall’essere esaltante.
Le varietà prigioniere
Berlan (2001) sottolinea come le sementi HYV abbiano il solo vantaggio di avere una struttura genica in grado di proteggere biologicamente la varietà dalla copia. Chiunque voglia utilizzare le HYV deve acquistare i semi ogni anno. Quest’idea è passata senza mediazioni dalle tecniche classiche di selezione varietale all’uso di organismi geneticamente modificati. L’idea è sempre quella che apparve remunerativa all’inizio del secolo scorso: poter disporre di un genoma vegetale caratterizzato da una restrizione d’uso. Le HYV hanno una protezione biologica dalla copia, il passo successivo, la soia geneticamente modificata della Monsanto, ha una protezione legale dalla copia (visto che la soia non è e non può essere "ibrida" nel senso si qui visto, l’agricoltore all’atto di acquisto delle sementi firma un contratto nel quale si impegna a non conservare i semi del suo raccolto per riseminare l’anno successivo.), l’ultima nata nel campo di queste tecnologie, la cosiddetta Terminator technology (la produzione di semi che danno origine a piante con semi sterili), rappresenta di nuovo una protezione biologica dalla copia, visto che in caso di risemina i semi non saranno in grado di germinare. Qui l’idea delle varietà prigioniere raggiunge il culmine della perfezione. Se per le HYV il germoplasma è accessibile per chiunque abbia voglia, soldi e capacità tecniche per utilizzarlo ai fini di altri e successivi incroci, nel caso della Terminator technology il germoplasma è inaccessibile e diviene di unica ed assoluta proprietà di chi detiene il brevetto di tale varietà.
A questo punto viene naturale chiedersi in qual modo queste tecnologie dovrebbero essere di aiuto ai paesi poveri. Se i paesi ricchi hanno potuto permettersi il lusso di pagare di più, ed inutilmente, delle sementi che non hanno nulla di particolarmente più utile di buone sementi ottenute con tecniche tradizionali che non portano alla produzione di "ibridi", e che mantengono le loro caratteristiche stabili nel tempo, non si vede come i paesi più poveri della terra potrebbero permettersi questo inutile lusso. Inoltre le HYV fanno parte di un paradigma agricolo che bisogna accettare in toto e non può essere preso a piccole dosi. Mi riferisco al fatto che le HYV sono sementi produttive solo nell’ambito di un’agricoltura ad alto input chimico ed energetico, sono specifiche delle monocolture, hanno bisogno di grandi superfici per essere coltivate, non sono compatibili con i sistemi agricoli policolturali, ma si inseriscono solo ed esclusivamente in quella particolare struttura produttiva ad altissima specializzazione che abbiamo descritto nel capitolo L’agricoltura moderna.
La scomparsa di varietà locali soppiantate dalle HYV, l’aumento vertiginoso nel consumo di fitofarmaci e concimi minerali, l’incremento della dipendenza delle deboli economie agricole locali dai giganti occidentali dell’agrochimica (gli stessi che posseggono tutti i brevetti sulle sementi OGM) sono altrettanti corollari della rivoluzione verde.
I paesi in via di sviluppo non hanno bisogno di queste tecnologie. Hanno bisogno di un’agricoltura sostenibile organizzata in sistemi policolturali, pena l’asservimento totale di intere nazioni ai ricchi paesi occidentali e pena il ripetersi di catastrofi alimentari, come quelle già avvenute in epoca tardo vittoriana.
Oggi siamo vicini ad un’altra catastrofe umanitaria causata da una gravissima siccità in India. Quest’immenso paese ha visto smantellato il suo tessuto produttivo tradizionale a favore delle monocoltura da esportazione, obbligato su questa strada prima dal Golden Standard e poi dal GATT, e rimane fragilissimo in balia dei capricci del tempo, poiché non ha più un sistema agricolo polifunzionale in grado di mitigare gli effetti negativi di periodi siccitosi.
Dulcis in fundo
Se tutto ciò non bastasse per sottolineare i danni della cosiddetta "agricoltura moderna" e del suo corollario rivoluzionario (la "rivoluzione verde"), vale forse la pena di ricordare che all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso i nutrizionisti si sono incominciati ad interrogare su quella che è stata definita come "sindrome da fame occulta". Questa si manifesta con carenze alimentari dovute più alla qualità nutrizionale degli alimenti che alle calorie giornaliere ingerite per capite. In altri termini si tratta dell'incremento di malattie debilitanti connesse con carenze vitaminiche e di sali minerali.
Ecco cosa possiamo leggere in un recente rapporto dell’ONU (pubblicato sul sito http://earthwatch.unep.net/agriculture/foodsecurity.php): While the Green Revolution increased grain production and helped avoid famine, it has led to nutritional problems. Present high-yield varieties are usually low in minerals and vitamins, so many people saved from starvation have been incapacitated instead by iron, zinc, vitamin A and other deficiencies, as new diets replace traditional dietary sources. Iron deficiency has worsened globally, affecting 1.5 billion children, and half of all pregnant women are anaemic. The worst fall has been in South and South-east Asia where the Green Revolution has been most successful (Graham and Welch, 1996; UN, 1992). The Green Revolution has also required a continuing or even increasing use of hazardous pesticides and environmentally damaging fertilizers. The need to reduce these inputs to achieve more sustainable agriculture may also reduce levels of food production.
Francamente non so cosa aggiungere a questa puntuale denuncia dei guasti della rivoluzione verde, se non la lista dei danni da carenze di ferro che i paesi più poveri stanno sopportando. La FAO stima che il ferro sia pericolosamente diminuito nella dieta dei paesi in via di sviluppo tra il 1970 ed il 1980. Il problema di ampiezza planetaria è particolarmente grave in Asia meridionale e sud orientale. Le stesse regioni che hanno visto aumentare l’apporto calorico grazie alle varietà della rivoluzione verde. Dunque, secondo la FAO, nel mondo è in atto una pandemia di anemia che colpisce nei paesi poveri il 40% delle donne non gravide, il 50% delle donne gravide e 1,5 miliardi di bambini provocando gravi ritardi nello sviluppo intellettuale. Il 40% dei decessi legati al parto (circa 500.000 all’anno) sono dovuti a forme acute di anemia. Tutto ciò diminuisce l’efficienza fisica e la sopravvivenza delle donne ha enormi ripercussioni sulla produttività dei paesi poveri. Infatti, nei paesi in via di sviluppo le donne forniscono il 100% della forza lavoro non salariata ed il 30% della forza lavoro salariata. Tutto ciò è relativo al solo ferro, ma le carenze riguardano altri micronutrienti e vitamine.
E’ evidente il terribile circolo vizioso in cui abbiamo spinto i paesi poveri. Li abbiamo illusi di salvarli dalla fame con le nostre tecnologie ed invece abbiamo distrutto i loro sistemi produttivi ed i loro sistemi alimentari (vedi capitolo Nutrizione), li abbiamo obbligati ad indebitarsi per pagare le nostre tecnologie, li abbiamo fatti piombare in una spirale di malattie dovute a malnutrizione, abbiamo aggravato il loro sottosviluppo minando la loro salute.
E’ in questo contesto che le nuove tecnologie genetiche si candidano a risolvere disastri delle improvvide tecnologie agricole che vanno sotto il nome di "rivoluzione verde". E’ in questo contesto terribile di "tecnopatie" (malattie causate da tecnologie) che brillanti scienziati propongono ancora una volta di salvare i poveri dalla fame modificando, ad esempio, il genoma del riso per produrre una "meravigliosa" varietà ad alto contenuto del precursore della vitamina A. Vedremo in seguito quale altra beffa nasconde l’ennesimo nostro mito tecnologico.
Vorrei a questo punto ricordare una frase che Joseph Conrad fa dire al celebre Marlow nel suo famoso romanzo Hearth of Darkness "The conquest of the earth, which means the taking away from those who have a different complexion and slightly flatter noses than ourselves, is not a pretty thing when you look at it too much"
La nuova frontiera: gli organismi geneticamente modificati (OGM)
Esaurita, o quasi, la crescita dei benefici economici ottenibili dalle HYV ecco che le Università occidentali, gli istituti di ricerca e le maggiori multinazionali della chimica si lanciano in una nuova avventura: gli OGM.
Gli OGM dovrebbero, secondo il consueto arsenale propagandistico, risolvere tutti problemi dei paesi poveri ed inaugurare nei paesi ricchi una nuova era caratterizzata da un minor uso di pesticidi, nuove varietà più produttive e con aumentate caratteristiche nutrizionali. La verità è che gli OGM sono l’ultima frontiera tecnologica nella produzione di varietà "prigioniere" secondo la definizione di Berlan (2001) (vedi paragrafo precedente).
Le statistiche
Secondo l’International Service for the Acquisition of Agri-Biotech Applications (ISAAA) l’area globale seminata con OGM è crescita di oltre 30 volte ed è passata dai 1.7 milioni di ettari nel 1996 a 52.6 milioni di ettari nel 2001. Questa tecnologia è di quasi esclusiva pertinenza di una singola impresa, è stata sviluppata per 4 coltivazioni di maggior interesse industriale e riguarda quasi esclusivamente 2 caratteristiche delle colture.
Per riassumere:
La "Terminator Technology"
Una delle tecnologie più innovative nel campo degli OGM, ma anche più preoccupanti, è stata quella ribattezzata "Terminator technology" dalla Rural Advancement Foundation International (RAFI, oggi ETC) un’organizzazione statunitense-canadese che ha cuore i problemi degli agricoltori del mondo ed in particolare di quelli più poveri.
Si tratta, in breve, di rendere sterili i semi attraverso un’intelligente tecnica di biologia molecolare. L’agricoltore compra dunque dei semi che si svilupperanno normalmente in una pianta (il raccolto è così assicurato), ma i semi di questa nuova pianta non saranno in grado di svilupparsi (la proprietà intellettuale è così protetta dalla copia non autorizzata). Nessun agricoltore può dunque usare i semi che produce per riseminarli ed ottenere un successivo raccolto.
Vi sono varie versioni di questa tecnologia che prevedono l’induzione della germinabilità, ed altre caratteristiche industriali o nutrizionali, grazie ad un prodotto chimico, venduto dalla stessa ditta che commercializza il seme, che funziona da attivatore di alcuni geni e permette lo sviluppo del seme fino a divenire pianta adulta o l’espressione di specifiche caratteristiche. I semi di questa nuova pianta rimangono comunque sterili e non sono suscettibili di attivazione.
Vi sono numerosi brevetti per questo tipo di modificazioni genetiche che vengono chiamate Genetic Use Restriction Technologies (GURTs, "Tecnologie di restrizione a uso genetico"). Queste tecnologie permettono la modificazione genetica di piante per renderle sensibili ad un induttore chimico in grado di attivare o disattivare geni che codificano per tratti specifici della pianta, compresa la vitalità dei semi e la resistenza a parassiti e malattie. Il controllo della ditta produttrice dei semi si allunga molto al di là del momento dell’acquisto e determina una completa sudditanza dell’agricoltore.
Riportiamo qui di seguito alcune interessanti dichiarazioni di scienziati ed eticisti riguardo a questa tecnologia:
Il tono propagandistico di tali affermazioni è talmente evidente, ed in tale contrasto con la realtà dei fatti esposta in precedenza, che non si può che considerare questi punti di vista con la massima severità. Inoltre, come nel caso delle HYV, le cosidette "evidenze scientifiche" a sostegno dell’uso degli OGM si rivelano senza alcun fondamento. Proviamo ad analizzarne alcune.
In primo luogo quest’affermazione afferma il contrario di ciò che per anni è stato propagandato come impossibile: il flusso incontrollato di geni da piante transgeniche ad altre piante, coltivate o selvatiche che siano. Una volta stabilito il principio che quest’inquinamento genetico è una realtà ecco apparire una nuova tecnologia che si candida a risolvere i problemi causati da una tecnologia precedente. In ogni caso un rapporto della FAO (Commission on Genetic Resources for Food and Agriculture) mette in dubbio l’efficienze di questo sistema. Inoltre, Daniel (2002) scrive: Terminator may not function as intended. Unresolved questions remain about proper segregation of multiple gene, consequences of gene silencing, and the presence of transgenic pollen.
In ogni caso, anche se la tecnologia non fosse problematica è pericolosissimo ed ingiustificabile far dipendere l’agricoltura da semi sterili. Se la contaminazione genica è un problema, è assurdo mettere a repentaglio la sicurezza alimentare solo per risolvere i problemi di inquinamento genetico derivanti da scelte industriali.
Inoltre la dichiarazione di Melvin J. Oliver riportata più sopra chiarisce senza equivoci la vera natura di questa tecnologia.
Abbiamo già visto in quale complessa situazione si determinano le carenze alimentari dei paesi in via di sviluppo e quale ipersemplificazione sia quella di offrire soluzioni tecnologiche ai danni causati da tecnologie precedenti.
I motivi che hanno spinto ad identificare una tecnologia genetica come indispensabile per combattere la deficienza da vitamina A dei paesi in via di sviluppo risiede nelle seguenti cifre:
Il consumo predominante di riso sembra essere al causa del problema. Si ricorda che grazie alla "rivoluzione verde" si è assistito ad una impressionante riduzione delle varietà di riso coltivate. Nel 1949 erano circa 10.000, sono divenute 1.000 nel 1970 ed oggi 552 milioni di tonnellate di riso, prodotte su 150 milioni di ettari di risiera, provengono solo da due varietà (D’Udine, 1997).
La deficienza in vitamina A è accompagnata da altre deficienze (ferro, iodio, zinco ed altri micronutrienti) ed è dovuta alla sostituzione della base alimentare del modello agro-nutrizionale tradizionale (vedi capitolo Nutrizione) con le monoculture della rivoluzione vede.
La prima osservazione da fare è che il Golden rice è protetto da 70 brevetti e la sua messa a punta è costata circa 100 milioni di dollari. Benché questa nuova varietà sia stata offerta gratuitamente ai paesi poveri, è del tutto ovvio aspettarsi che i detentori dei brevetti desiderino avere dei benefici dalla loro "invenzione". E’ lecito, dunque, chiedersi chi pagherà i diritti sui brevetti nel prossimo futuro.
Il golden rice è stato concepito per aumentare il contenuto di pro-vitamina A (beta-carotene) nell’endosperma (la parte del riso che rimane dopo l’eliminazione dell’involucro esterno. Gerinot (2000) scrive One can only hope that this application of plant genetic engineering to ameliorate human misery without regard to short-term profit will restore this technology to political acceptability.
La prima ragione delle carenze in vitamina A nel riso è che per ragioni commerciali questo viene privato dello strato di aleurone (la parte esterna) ricco in provitamina A (beta-carotene). Lo strato di aleurone, infatti, tende ad irrancidirsi durante lo stoccaggio, specialmente in aree tropicali. Inoltre, il mercato occidentali assorbe di preferenza riso riso non integrale.
Sono stati necessari 10 anni per costruire una varietà di riso che avesse beta-carotene nell’endosperma, perché il riso non ha nessun meccanismo metabolico per farlo, forse con qualche buona ragione biologica a noi ancora sconosciuta. L’endosperma immaturo di riso produce naturalmente un precursore del beta-carotene il geranilgeranil-difosfato. Per trasformare questo precursore in beta-carotene occorre l’azione combinata di 4 diversi enzimi, tutti da ingegnerizzare. In più per selezionare i semi in cui il nuovo costrutto genetico si è inserito con successo, si è introdotto un gene di resistenza all’antibiotico igromicina che inibisce la sintesi proteica. Il promotore (la parte di DNA responsabile dell’espressione dei geni da questo controllati) è derivato da un virus patogeno vegetale, il virus del mosaico del cavolofiore (CaMV).
Contrariamente al materiale genetico naturale, che consiste di una combinazione stabile di geni provata lungo miliardi di anni di evoluzione, non si ha nessuna notizia sulla stabilità dei nuovi costrutti. Si sa solo che questi più sono complessi meno sono stabili.
Per inserire il nuovo costrutto genico nel genoma delle cellule del riso si è utilizzato un vettore derivato da Agrobacterium tumefaciens, un batterio del suolo che causa galle o tumori vegetali. Il costrutto è dunque costituito da una combinazione di geni e di materiale genetico che viene da virus batteri associati a malattie vegetali e da specie vegetali non alimentari.
Le piante di riso che hanno espresso i geni del complesso costrutto genico, nelle quali si ritrova beta-carotene nell’endosperma, si ritrovano anche altri prodotti noin identificati e non caratterizzati dei quali, ovviamente, non si sa nulla, né sul loro valore nutrizionale, né tantomeno sulla loro potenziale tossicità.
Inoltre, si è dimostrato che il promotore del CaMV è attivo in cellule vegetali, in batteri, lieviti ed anche cellule umane. La deriva genica per impollinazione crociata o deriva orizzontale di questo costrutto, o di suoi fragmenti, potrebbe avere delle conseguenze gravi, e del tutto imprevedibili, sulla biodiversità vegetale.
La cosa più sorprendente è che, vista la quantità di beta-carotene contenuta nel Golden Rice, una dieta normale (circa 300 grammi di riso per giorno) fornirebbe solo l’8% della quantità giornaliera di beta-carotene raccomandata dai nutrizionisti. Una donna che allatta dovrebbe nutrirsi con 18 kg di riso cotto al giorno (6,3 kg in peso secco) per ottenere la dose giornaliera di beta-carotene che le è necessaria. Se qualcuno pensa "meglio poco che nulla", e quindi ritiene che il Golden Rice possa in qualche modo aiutare ad ottenere una dieta più equilibrata e sana, è bene far riflettere che il beta-carotene, una vota ingerito, deve essere tarsformato in vitamina A dall’organismo. Questo non avviene se la dieta è troppo povera di grassi, proteine, zinco e vitamina E. Dunque, i poveri del terzo mondo rischiano di non utilizzare nemmeno quel poco di beta-carotene contenuto nel Golden Rice a causa delle note carenze alimentari, derivate dal nota radicale modifica del modello agro-nutrizionale tradizionale, causata dalla nota scelta tecnologica associata alla rivoluzione verde. E’ veramente deprimente assistere alla reiterata proposizione di modelli agrari che hanno causato enormi danni nel pasato. Ai problemi causati da una tecnologia si risponde proponendo un’altra tecnologia, ignorando completamente che esiste una realtà soggiacente al mondo artificiale creato dalla scienza occidentale. Tale realtà chiede soluzioni che l’approccio ipertecnologico non potrà mai fornire.
Questo è un altro brillante esempio dell’arroganza con cui i ricercatori occidentali, nel chiuso dei loro laboratori, interpretano le necessità dei poveri ignorando persino i più semplici concetti di fisiologia umana. A ciò si aggiungono le invettive e le minacce di chi sostiene a tutto campo l’utilizzazione del Golden Rice e non esita a definire criminali gli oppositori di questo assurdo progetto.
Conclusioni
La cosiddetta "agricoltura moderna" è dunque per larga parte ricettacolo di mìti pseudoscientifici che hanno trasformato la produzione di derrate alimentari in un lucroso commercio. Per giustificare le scelte irrazionali, pericolose (ed inutili per produttori e consumatori) della "rivoluzione verde" e degli OGM si è messa in opera una gigantesca mistificazione scientifica che ha causato tre enormi danni. Il primo è stato quello di allontanare i cittadini dalla scienza, che viene oggi percepita come portatrice di scelte pericolose ed estranee ai bisogni della gente. Il secondo è quello di aver danneggiato intere generazioni di ricercatori trasformandoli da interpreti critici del travaglio della ricerca scientifica a sacerdoti che officiano riti immutabili protetti da dogmi assoluti. Il terzo è quello di aver danneggiato in maniera forse irreversibile l’agricoltura imponendo un modello di sviluppo inutilmente costoso, enormemente inquinante, che consuma di diversità biologica e deprime i sistemi agro-alimentari alla mono-produzione, non di piante, ma di parti di piante, perdendo di vista la realtà biologica ed il ruolo dell’individuo (pianta od animale che sia) come unità fondamentale della vita. Per utilizzare le parole di Brian Goodwin … organisms have faded away to the point where they no longer exists as fundamental and irreducible units of life. Organisms have been replaced by genes and their products as the basic elements of biological reality. This may seem to fly in face of all common sense, but strange things have happened in the name of science, ed io potrei aggiungere "nel nome dell’agricoltura scientifica".
Un importante movimento di opinione oggi combatte quest’approccio iper-tecnologico ed iper-riduzionista che ha causato enormi danni e sofferenze tanto grandi quanto rimosse e dimenticate. Recentemente in risposta ad un appello dell’Institute of Science in Society (www.i-sis.org) 463 scienziati di 56 nazioni hanno firmato una petizione per una moratoria sulla disseminazione nell’ambiente di OGM
Questo movimento di opinione si prefigge di ribaltare la visione corrente di una scienza che affida alla sola tecnologia la sua sopravvivenza intellettuale e, ciò facendo, partorisce concetti abberranti come quelli espressi da Richard Dawkins in una sua recente lettera aperta al principe Carlo d’Inghilterra It may sound paradoxical, but if we want to sustain the planet into future, the first thing we must do is stop taking advice fom nature. Nature is a short-term Darwinian profiteer. Darwin himself said it. "What a book a devil’s chaplain might write on the clumsy, wasteful, blundering, low, and horridly cruel works of nature".
Il sogno di una natura totalmente "artificiale", controllabile a piacere e capace di fornire a comando ciò di cui l’uomo ha bisogno si veste degli abiti iper-tecnologici forniti dalla scienza moderna e reinterpreta in chiave palingenetica il dettato dei miti e delle religioni, promettendo la fine delle sofferenze, della fame e la definitiva scomparsa del the clumsy, wasteful, blundering, low, and horridly cruel works of nature". Tutto ciò nel nome della scienza e del progresso.
Bibliografia essenziale
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East, E.M. e D. F. Jones (1919). Inbreeding and Outbreeding, Lippincott, Philadelphia.
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Guerinot, M. L. (2000). The green revolution strikes gold. Science, 287: 241-243.
D’Udine, B. (1997). Le reti della vita: riflessioni di un etologo su animal welfare e biodiversità. Biologi Italiani, 10: 17-22.
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Mazoyer, M. e L. Roudart (1997). Histoire des agricultures du monde. Editions du Seuil, Paris.