JENNER BARRETTO BASTOS FILHO

Fino a che punto l’istituzione della scienza può essere democratica?

1. L'attività scientifica.

L'attività scientifica, ossia quella propria di chi produce la cosiddetta scienza, è ampiamente considerata come qualcosa che richiede un alto grado di elaborazione e sottigliezza. In altre parole, l'attività scientífica richiederebbe un livello altamente raffinato di capacità intellettuale.

Un parere del genere corrisponde alla realtà?

E cioè: gli scienziati sarebbero così raffinati dal punto di vista intellettuale da distinguersi chiaramente dagli altri mortali?

Fra tante altre ragioni, l'immensa eterogeneità che si trova in seno alle comunità scientifiche non ci permette di dare una risposta semplice a queste domande. Le caratteristiche precipue dell'attività propria delle comunità scientifiche (o almeno di qualcuna di esse) furono studiate da diversi autori fra i quali Kuhn [1996], Popper [1979] e Feyerabend [1977].

Thomas Kuhn nel suo famoso libro The Structure of Scientific Revolutions ci ha offerto un quadro dello sviluppo della scienza nel quale ha fatto la netta distinzione fra quelle che ha chiamato "scienza normale" e "scienza estraordinaria". Secondo lui, gli scienziati 'normali' sono quelli che si trovano inseriti in un’ attività la cui caratteristica centrale sarebbe costituita dal rigido attaccamento al paradigma che regge in maniera esclusiva tutta la cosiddetta 'normalità'. Questo paradigma prescrive agli scienziati come il mondo è e come essi devono necessariamente lavorare. È proprio questo attaccamento rigido al paradigma che costituisce il compromesso implicito o esplicito (o entrambe le cose), che unisce questa comunità, e che è necessario a tal fine. Le violazioni di questo compromesso sarebbero considerate come una minaccia al buon funzionamento dell'attività normale, e come espedienti che portano al disgregamento della stessa scienza normale. Per questa ragione la critica del paradigma che unisce questa comunità di praticanti della scienza normale non può essere tollerata. Come molto bene ha detto Lakatos [1979], "per la scienza normale di Kuhn, la critica è una maledizione".

Ciò nonostante, arriverà il momento in cui il paradigma che regge la scienza 'normale' incomincerà ad esaurirsi, e cioè a non essere più capace di dare conto delle anomalie che sorgono in maniera insopportabile. Cominciano allora a sorgere, a partire da questo momento, gli sviluppi "straordinari", evidentemente non più legati al paradigma esaurito e superato, che porteranno allo stabilirsi di un nuovo paradigma. Il nuovo paradigma costituirà una drastica rottura nel suo rapporto con quello precedente. Nel corso degli sviluppi straordinari la critica cessa d'essere una maledizione e passa ad essere considerata una virtù e una risorsa.

Pochi sono gli scienziati che praticano la scienza straordinaria, in ragione del fato che quest' attività richiede qualità eccezionali come immaginazione, consapevolezza e creatività in un grado considerevole. La grande maggioranza degli scienziati, invece, praticano la scienza normale, la quale esigerebbe soltanto un attaccamento rigido e dogmatico al paradigma dominante, e molto lavoro duro. Secondo Kuhn, una persona che non sia ribelle, e nonostante tutto questo non riesce ad adattarsi ai protocolli della scienza normale, dimostra con ciò solo la sua mancanza di abilità.

Karl Raimund Popper (1902-1994), per il quale il metodo della scienza è quello delle congetture audaci e dei severi tentativi di confutazione, ha protestato enfaticamente contro il quadro offerto da Kuhn. Egli ha argomentato (Popper 1979) che tutta la scienza fatta fino al 1939 era straordinaria.

Un’affermazione del genere suggerisce che dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) c’è stata una grande riorganizzazione della formazione scientifica, e che di conseguenza c’è stato un grande cambiamento nella stessa attività scientifica mondiale. Questo cambiamento ha avuto luogo inizialmente nei paesi che più coltivavano la scienza e che erano anche i più potenti, ossia principalmente i paesi dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti ed il Giappone. Ma poi questa riorganizzazione ha avuto ripercussioni su tutti gli altri paesi, quelli che già praticavano la scienza e quelli che cominciavano a praticarla in qualche misura. Tale riordino ha accompagnato la drastica riorganizzazione geopolitica, economica, sociale ed istituzionale del mondo nel periodo del secondo dopoguerra.

Popper non ha accettato la rigida divisione kuhniana fra "scienza normale" e "scienza straordinaria". Tuttavia, ha riconosciuto che il fenomeno della "scienza normale" esiste, costituisce una cosa deplorevole e che per questa ragione dovrebbe essere combattuto. Secondo lui, gli scienziati normali descritti da Kuhn costituiscono persone male istruite, dogmatiche e che degradano il pensiero a causa della loro enorme povertà di spirito.

Popper considera che l'ingrediente che dà sostanza al metodo delle congetture audace e confutazioni austere è la critica, ossia, la discussione critica che costituisce l’essenza dello stesso razionalismo critico popperiano.

Tra la posizione di Kuhn e quella di Popper c’è dunque un netto contrasto.

Se qualcuno domanda chi ha ragione - Kuhn oppure Popper - dobbiamo dire che in un certo senso entrambi hanno qualche ragione e al stesso tempo, entrambe sono in errore, perché la scienza è molto più complessa di quanto da essi giudicato, e i due quadri non sono in grado di dare conto di tutta la complessità dell'attività scientifica. Infatti, la tensione fra dogma (o attaccamento rigido al paradigma) e critica (la popperiana discussione critica) è centrale, ma si tratta di categorie antitetiche entrambe presenti nell’attività scientifica. Tutto questo rinvia al stesso tempo tanto al problema del razionalismo quanto al problema della autonomia e della democrazia all'interno delle comunità scientifiche. Ritorneremo su questo punto. Ma prima vediamo una terza concezione.

Feyerabend (1977) nel suo libro Against Method argomenta che non esiste niente di speciale nell’attività scientifica che permetta di considerarla superiore ad altre attività conoscitive. L'istituzione della scienza è diventata opprimente e lontana dal poter procurare la liberazione delle facoltà spirituali. Ciò che ebbe luogo nella Storia occidentale e che ha provocato la separazione fra Stato e Religione dovrebbe anche avere luogo per quanto riguarda la separazione, che ancora non c’è, fra Stato e Scienza. La Scienza ha sostituito la Religione nel ruolo prima occupato da questa. Oggi, nel contesto della presente mancanza di separazione fra Stato e Scienza, non esiste spazio per le eventuali scelte dei genitori per quanto riguarda l'educazione dei figli. Per esempio, attualmente non è accettato che i genitori possano scegliere per i loro bambini un currículum nel quale siano presenti la magia, l'alchimia e l'astrologia invece della matematica, della fisica e della chimica. Dunque, secondo Feyerabend, l'istituzione della Scienza limita l'individuo agendo come strumento di potere dello Stato, alla stessa maniera in cui la Religione ha limitato in passato, prima della sua separazione dallo Stato, la libera scelta degli individui ed addirittura gli sviluppi della stessa scienza.

Feyerabend paragona pure i riti tribali delle società cosiddette primitive e i rituali delle comunità scientifiche, mettendo in rilievo la loro impressionante somiglianza. Egli critica inoltre la cosiddetta raziomania popperiana, come quando quest’ultimo sostiene che tutto incomincia a partire da un certo problema e che risolvere problemi è proprio lo scopo della ricerca. Secondo Feyerabend ridurre la libertà e la felicità degli individui alla categoria problema significa procedere nella peggiore maniera possibile. Questo non favorirebbe il risveglio dello spirito. Tutto ciò rinvia una volta di più al problema del razionalismo, dell'autonomia e della democrazia.

2. Il razionalismo di Popper.

Per discutere il problema del razionalismo prendiamo in esame due citazioni di Popper.

In prima approssimazione, riteniamo valida la sua chiara, semplice ma non banale accezione di razionalismo:

Ciò che voglio dire, quando parlo di ragione o razionalismo, non è altro che la convinzione che noi possiamo imparare dalla critica dei nostri errori e dei nostri sbagli e, in particolare, fattaci dagli altri e, infine, anche dall’autocritica. Un razionalista è semplicemente una persona a cui importa più di imparare che di aver ragione; che è pronta ad imparare da altri, non semplicemente accettando l’opinione degli altri, ma piuttosto lasciando volentieri criticare le proprie idee da altri e criticando volentieri le idee altrui. L’insistenza qui è posta sull’idea della critica o più precisamente della discussione critica. Il razionalista autentico non crede, quindi, che egli stesso o anche qualcun altro sia in possesso della sapienza. Ma neanche crede che la semplice critica come tale ci procuri nuove idee. Egli crede, piuttosto, che solo la discussione critica ci possa aiutare a discernere, nel campo dele idee, il grano dalla pula. [Popper 2001, cap.7, p.289]

La seconda citazione è:

Ovviamente il razionalista sa molto bene che i rapporti umani non si esauriscono nella discussione critica. Sa, proprio al contrario, che una discussione critica razionale appartiene alla rarità della nostra vita. Crede, però, che l’atteggiamento del dare e del ricevere, del give and take, come si dice in inglese, e quindi l’atteggiamento che si trova alla base della discussione critica, sia di grandissimo significato dal punto di vista puramente umano. E questo perché il razionalista sa che deve la sua ragione agli altri uomini. Sa che l’atteggiamento ragionevole, razionale, critico può solo essere il risultato della critica altrui e che solo con la critica altrui si può giungere all’autocritica. [Popper 2001, cap. 7, p. 291]

Un riassunto utile delle due citazioni può essere il seguente: il razionalismo necessariamente richiede la discussione critica come punto di partenza e anche come metodo; il razionalista sa che imparare è più importante che avere ragione, cioè sa che imparare è un obiettivo più degno che semplicemente vincere la discussione; sa pure che è necessario praticare l'atteggiamento del dare e ricevere, della critica degli altri e dell'autocritica; sebbene la discussione critica non sia sufficiente a trovare nuove idee, sa che la discussione critica è la sola maniera che ci possa aiutare a discernere il grano dalla pula tra tutte le congetture che vengono proposte.

Possiamo ancora aggiungere che il razionalismo richiede una base iniziale e imprescindibile, costituita dalla tradizione. Altrimenti, se si iniziasse sempre tutto da capo, senza ricorrere alla tradizione, sarebbe come una ricorrente ed innocua 'reinvenzione della ruota'. Però, è necessario affermare, la tradizione non basta. Per un razionalista la critica della tradizione è ugualmente imprescindibile. Sebbene che la tradizione sia assolutamente necessaria, dobbiamo accettare di questa la parte che ci sembra ragionevole, e rifiutare tenacemente la parte che ci sembra cattiva e deplorevole. È questo, secondo noi, il vero significato dell'atteggiamento del discernere il grano dalla pula.

Però non dobbiamo dimenticare che noi stessi siamo essere complessi, al stesso tempo homo sapiens e homo demens, e questo fatto solleva un grosso problema di principio.

Fino a che punto il razionalismo è, esso stesso, completamente razionale?

In effetti, il razionalismo conseguente deve accompagnarsi a un razionalismo di secondo ordine, che sappia distinguere la ‘forza della ragione’ dalla ‘ragione della forza’. Altrimenti, tutto sarebbe razionale, incluso la più esplicita barbarie.

L’accezione popperiana di razionalismo può essere considerata semplicistica e addirittura ingenua perché dà troppa importanza alla critica come ingrediente basilare della ragione, dimenticando che oltre alla ‘forza della ragione’ esiste ugualmente la ‘ragione della forza’. Dobbiamo aggiungere che l’espressione ‘ragione della forza’ può essere interpretata in sensi diversi, che discuteremo nella sezione seguente.

3. La forza della ragione contro la ragione della forza

Se "i rapporti umani non si esauriscono nella discussione critica", allora l'interpretazione più diretta che possiamo dare è che quest'ultima, per ampia che sia, non è in grado di esaurire la conoscenza umana, gli sviluppi della scienza e l'evoluzione dell'umanità. Questo si può capire bene. Infatti, basta ricordare l'argomento secondo il quale l’immaginazione scientifica non può essere ridotta alla critica. La conclusione ovvia è che l'espressione forza della ragione deve essere interpretata in maniera più elastica, per il fatto che la discussione critica non è in grado, di per sé, di esaurire tutta la razionalità. In altre parole, possiamo dire che se non vogliamo che l'immaginazione scientifica, non potendo essere ridotta alla discussione critica, sia semplicemente considerata come "irrazionalità", dobbiamo estendere il concetto di forza della ragione includendo in questo elementi che trascendono la critica.

Però, se la forza della ragione non dà conforto ai positivisti in virtù della razionalità ampliata che trascende la mera razionalità del formalismo e della logica, la situazione diventa molto più complessa quando facciamo intervenire quello che possiamo chiamare la ragione della forza. E con questa espressione generica di ragione della forza è possibile coprire sotto lo stesso ombrello cose così diverse come la ragione di stato, la legge del più forte, il salvataggio delle teorie mediante ipotesi ad hoc, e così via.

Facciamo adesso qualche considerazione sull'espressione ragione della forza. Il concetto di ragione della forza ha una grande importanza nel contesto della presente discussione sulla possibilità che l’istituzione scientifica adotti una democrazia che includa in maniera armoniosa il giudizio dei ‘pari’ e dei ‘dispari’. Pensiamo propriamente, al di là del significato possibile all'interno degli affari delle comunità scientifiche, che cosa significherebbe conciliare i tanti diversi ‘fondamentalismi’ nella speranza di arrivare a un mondo di pace, giustizia, tolleranza ed equità sociale, ossia un mondo sostenibile.

Qui intendiamo ‘fondamentalismo’ nel cattivo senso della parola: quello, per esempio, che difende la deplorevole tradizione della infibulazione delle ragazze e non permette l’atteggiamento critico nel senso proprio di Popper. Questo richiede, a livello epistemologico, la discussione critica e la critica della tradizione, e a livello politico la società aperta, che non può accettare la violazione dei diritti umani e, pertanto, ha il dovere etico e morale di lottare contro qualsiasi loro violazione. Ma c’è anche un altro tipo di ‘fondamentalismo’ da rifiutare, quello di chi fa la guerra per mantenere una posizione egemonica, e invoca la libertà quando ciò che desidera realmente è il potere e la dominazione degli altri. Ritorneremo su questo importantissimo punto dopo aver commentato l’accezione popperiana dell’"Illuminismo".

4. Che cos’è l'illuminismo?

Popper ha scritto:

quando parlo di Illuminismo, intendo ancora qualcosa di più. E difatti penso prima di tutto all’idea dell’autoemancipazione per mezzo della conoscenza – l’idea che ha ispirato Kant e Pestalozzi; e penso al dovere di ogni intellettuale di aiutare gli altri a liberarsi spiritualmente e ad assumere un atteggiamento critico; un dovere che la maggior parte degli intellettuali, a partire da Fichte, Schelling ed Hegel, ha dimenticato. La realtà, purtroppo, è che tra gli intellettuali è ampiamente diffuso il desiderio di imporsi agli altri e, come dice Schopenhauer, non di istruirli ma di ingannarli. [Popper 2001, cap. 7, p. 291)

Penso che possiamo interpretare l’Illuminismo al meno in due forme distinte ma non indipendenti.

(a) Illuminismo e autonomia intellettuale. La prima forma è esattamente quella che Popper attribuisce a Kant e a Pestalozzi: la liberazione spirituale per mezzo della conoscenza e anche dell’autonomia del pensiero. Autonomia del pensiero non significa non essere influenzati dalla tradizione. Invero, come abbiamo visto, tutte le persone, senza eccezione, sono influenzate dalla tradizione, e questo è inevitabile e positivo. Il punto importante è che l’autonomia intellettuale richiede necessariamente un atteggiamento critico verso la tradizione. Questa accezione è la stessa del Sapere aude kantiano:

L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! – è dunque il motto dell’illuminismo.

Usare la propria intelligenza senza l’aiuto dei ‘capi’, non deve essere interpretato nel senso che la tradizione non deve essere presa in considerazione, bensì nel senso in cui devono essere rifiutati il paternalismo epistemologico e la tutela intellettuale. Kant va oltre, quando dal punto di vista morale ed etico attribuisce all’individuo l’assoluta necessità di esercitare la propria autonomia per potere essere in grado da giudicare. Secondo Kant, addirittura se Dio venisse e si presentasse in persona neanche questo sarebbe sufficiente per dispensare l’individuo dal giudizio autonomo. Kant ha scritto:

Much as my words may startle you, you must not condemn me for saying: every man creates his God. From the moral point of view...you even have to create your God, in order to worship in Him your creator. For in whatever way...the Deity should be made known to you, and even...if He should reveal Himself to you: it is you...who must judge whether you are permitted [by your conscience] to believe in Him, and to worship Him. [Kant apud Popper 1989, p. 182]

Possiamo rafforzare questa accezione con aiuto di Pascal, che fu un pensatore del secolo XVII. Infatti, quello che si conosce come Illuminismo appartiene alla fine del secolo XVIII. Tuttavia non sarebbe assurdo considerare Pascal come un lucido precursore dell’Illuminismo. Infatti, nel primo senso del termine – Illuminismo come emancipazione intellettuale – possiamo citarlo quando ha affermato che tutta la dignità umana è costituita dal pensiero. Lasciamo le parole a Pascal (1948)

Pensée fait la grandeur de l’homme. [Pascal 1948, Art. VI, Pensée n. 346, p. 162]

E nel pensiero sucessivo,

L’homme n’est qu’un roseau, le plus faible de la nature; mais c’est un roseau pensant. Il ne faut pas que l’univers entier s’arme pour l’écraser : une vapeur, une goutte d’eau, suffit pour le tuer. Mais, quand l’univers l’écraserait, l’homme serait encore plus noble que ce qui le tue, parce qu’il sait qu’il meurt, et l’avantage que l’univers a sur lui; l’univers n’en sait rien. Toutte notre dignité consiste donc en la pensée. C’est de là qu’il faut nous reveler et non de l’espace et de la durée, que nous ne saurions remplir. Travaillon donc à bien penser: voilà le principe de la morale. [Pascal 1948, Art. VI, pensée n. 347, pp. 162-3]

Anche Einstein ha scritto nel 10 aprile 1938 una lettera a suo amico Solovine in cui ha manifestato il suo rammarico per l’atteggiamento filosofico alla moda che disprezzava la necessità di concepire la realtà oggettiva. Einstein ha paragonato la mancanza di autonomia dei seguaci della moda con i cavalli. Ecco il suo testo,

In questi giorni il punto di vista soggettivo e positivistico domina in modo assolutamente eccessivo. Il bisogno di concepire la natura come una realtà oggettiva viene dichiarato essere un pregiudizio obsoleto, e cosi si fa una virtù della necessità della teoria quantistica. Gli uomini sono soggetti a lasciarci suggestionare come i cavalli, e ogni epoca è dominata dalla moda, e in maggioranza nemmeno vedono il tirano che li domina. [Einstein apud Selleri 1998, p.3]

Pensiamo che con l’aiuto delle belle citazioni da Kant, Pascal e Einstein la prima forma dell’Illuminismo – come autonomia dell’essere che pensa e cosi esercita la dignità del pensiero –resta chiarita.

(b) Illuminismo ed emancipazione. La seconda forma dell’Illuminismo non è del tutto indipendente della prima, ma può anche essere considerata da sola. Questo è senz’altro il programma di libertà, fraternità ed uguaglianza, che può essere interpretato un po’ più liberamente come la lotta di tutti i popoli, di tutte le singole persone ed anche dei gruppi della società civile organizzata, per la pace, per la giustizia e per un mondo migliore. La lotta delle donne per l’affermazione dei loro diritti svolge un ruolo abbastanza importante in questo programma. Questo programma può essere concepito in maniera poetica come ha fatto John Lennon quando ha scritto la canzone da cui sono tratti i versi seguenti:

Imagine all the people

living for today...

Imagine all the people

living life in peace...

Imagine all the people

sharing all the world.

Anche il Mahatma Gandhi, un uomo politicamente e culturalmente aperto, fedele alla cultura indiana ma fortemente influenzato dalla cultura inglese ed europea, ha affermato con consapevolezza, indipendenza e temperanza,

Eu não quero que minha casa seja fechada com paredes por todos os lados, e que minhas janelas fiquem trancadas. Eu quero que as culturas de todos os lugares soprem sobre minha casa da forma mais livre possível. Mas eu também me recuso a ser carregado por qualquer uma delas. [Gandhi apud Perez de Cuéllar 1997, Cap. 2, p. 98]

(In italiano tentativo: Io non voglio che la casa mia sia chiusa per tute i lati e che le mie finestre rimangono sprangate. Io voglio che tutte le culture di tutti i posti soffino sopra la mia casa mia nella maniera più libera possibile. Ma, al tempo stesso, mi rifiuto di farmi condurre da qualcuna di esse.)

Possiamo interpretare questa citazione del Mahatma Gandhi tanto nel senso politico dell’Illuminismo che afferma la propria cultura senza spazzare via le buone influenze dalle altre culture, quanto nel senso della necessità di discussione critica alleata all’atteggiamento critico verso la tradizione la quale già abbiamo considerato.

Nel nostro capitolo nel libro curato da Bursztyn (Bastos Filho 2001) abbiamo fatto una discussione per quanto riguarda la realtà brasiliana.

Abbiamo considerato l’esempio dell’economista Celso Furtado [2000] che ha avuto con i suoi colleghi negli anni 1950 una grande difficoltà per affermare un pensiero economico indipendente, cosa che fu resa possibile grazie all’aiuto e al lavoro comune con gli altri economiste latinoamericani. La sua era anche una teoria adatta per intervenire praticamente nella realtà, e che permettesse di progettare in maniera consapevole ed etica lo sviluppo brasiliano. In quell’epoca dominava nello scenario economico brasiliano il pensiero liberale inglese che sosteneva la tesi che quella brasiliana era economia meramente periferica e riflessa, e che doveva continuare soltanto ad esportare materia prima. Celso Furtado e suoi colleghi avevano una concezione diversa e difendevano l’industrializzazione, dando un’altra spiegazione causale per il fenomeno del sottosviluppo.

Possiamo anche citare, per quanto riguarda il pensiero educativo, Paulo Freire, che ha avuto molta ripercussione nel Brasile e all’estero con la sua Pedagogia dell’Opprèsso. Possiamo citare, nel corso del secolo XX, diverse affermazione positive della cultura brasiliana nel campo della sociologia, come per esempio l’internazionalmente conosciuta opera di Gilberto Freire, Casa Grande e Senzala, nell’architettura con la costruzione di Brasilia che è stata inaugurata nel 1960, nella musica con il movimento Bossa Nova, nella letteratura e in tanti altri.

L’avvento della ditatura militare brasiliana (1964-1985) è stato un duro colpo per il progetto di affermazione nazionale. Dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989, la fine del bipolarismo fra le due superpotenze, il cosidetto consenso di Washington, e l’indebolimento degli stati nazionali a fronte del rafforzamento del capitale finanziario, e ancora più recentemente colla dottrina Bush della guerra preventiva, le sfide dell’affermazione dei popoli sono diventate ancora più severe. Questo ha senz’altro un riflesso sull'attività degli scienziati. Per fortuna, le recenti manifestazioni contro la guerra scatenata contro l’Iraq dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna – guerra che è stata fatta contro la ONU e ha significato una gravissima violazione dello stato di diritto internazionale – hanno mostrato un'opinione pubblica forte e consapevole.

5. Lo sbaglio di Popper e dei suoi avversari romantici e neoromantici

Abbiamo fin qui discusso in che senso possiamo concepire tanto la Razionalità quanto l’Illuminismo. Adesso dobbiamo discutere lo sbaglio di Popper e dei suoi avversari Romantici e Neoromantici.

In una intervista di Popper allo Spiegel dell’aprile 1992, il giornalista ha domandato a Popper se non rimane "qualcosa dell’appello etico della critica marxista al capitalismo, con tutto il duro attacco contro l’ingiustizia sociale". Ha aggiunto che giornalista ha ancora detto che "il divario tra poveri e i ricchi non è diminuito affatto nel mondo". Nella sua risposta, Popper ha affermato che

L’appello etico l’abbiamo avuto sin dal Medioevo in diverse forme. Tra i pensatori cristiani come anche tra quelli dell’Illuminismo l’appello etico fu la cosa principale. E gli avversari di questo appello etico furono sostanzialmente i Romantici. [Popper 2001, p. 507]

Un po’ più avanti Popper risponde

In questo consiste la reazione romantica: senza guerra e senza violenza le cose non vanno – questo è l’uso che Hegel fa della sua esperienza storica. Ed ecco, allora, che quando si va avanti con l’idea per cui queste esperienze belliche del passato dovrebbero proseguire nel futuro, ecco dunque che davvero non c’è nessuna speranza: le nostre armi sono state annientate. Al posto della selva di pugnali e del bagno di sangue, che apparivano ancora così corroboranti ai nostri avi romantici, è subentrato il bagno di radiazioni atomiche capaci di un annientamento totale. [Popper 2001, p. 507]

Un punto importante in questa risposta è quale deve essere il ruolo della violenza nella storia. Secondo Popper, i Romantici consideravano la violenza un fattore fondamentale, mentre lui, seguendo la tradizione razionale ed etica basata sulla necessità della discussione critica, della tolleranza, della modestia, della temperanza e dell’Illuminismo, rifiuta qualsiasi spargimento di sangue. In effetti egli ha scritto che

Difendo, dunque, il punto di vista stando al quale la cosa più importante di una forma democratica di governo consiste nel permettere di licenziare il governo senza spargimento di sangue, in modo tale, così, che un nuovo governo assuma le redini del comando. [Popper 2001, p. 399]

Una parte importante del razionalismo critico popperiano è la tradizione della tolleranza alla Locke e dello stato di diritto delle democrazie; il suo razionalismo richiede che l’evoluzione della società e dell’umanità si dia senza spargimento di sangue; in questo senso il ruolo essenziale assegnato alla violenza e allo spargimento di sangue dai filosofi romantici costituirebbe un perverso equivoco.

Benché si debba ammettere che licenziare il governo attraverso il voto e senza spargimento di sangue è una caratteristica dello Stato democratico, possiamo però aggiungere che nel senso ampio della Storia c’è qualcosa di profondamente paradossale in questo pantano concettuale. La stessa rivoluzione francese del 1789, con le parole d’ordine libertà, fraternità e uguaglianza, non è accaduta senza spargimento di sangue. Per esempio, con il terrore organizzato nel settembre 1793 molte persone furono condannate a morte. Lo storico Soboul scrive che

...una Commissione rivoluzionaria, che pronunciò 1.667 condanne capitali, sostituì la Commissione di giustizia popolare, considerata troppo indulgente; la fucilazione e il mitragliamento sostituirono la ghigliottina, troppo lenta. [Soboul 1974, p. 270]

Il Terrore fu un movimento politico che imponeva tasse ai ricchiper le necessità dei patrioti indigenti’. Era proprio un movimento che intendeva fare la ‘giustizia sociale’ attraverso una violenza che coinvolgeva lo spargimento di sangue. Il 21 novembre 1793, Robespierre dichiarò

Vedete bene che si sono spogliati i ricchi per nutrire e rivestire i poveri. Ciò ha risvegliato la forza rivoluzionaria e l’energia patriottica. Gli aristocratici sono stati ghigliottinati. [Robespierre apud Soboul 1974, p. 271]

Anche il grande scienziato Lavoisier fu ghigliottinato, l’8 maggio 1794. Pensiamo che questo avvenimento ha per se stesso un valore simbolico, e che mostra fino a che punto quel movimento che pretendeva la libertà aveva anche aspetti oscurantisti.

Per quanto riguarda il ruolo svolto dalla violenza, lo stesso Popper, amico della Razionalità, dell’Illuminismo, della Tolleranza e della Pace, ha fatto un appello molto veemente a favore di quella che secondo lui sarebbe la "necessità" di fare la guerra per la pace. Torniamo alla sua intervista allo Spiegel. Popper ha dichiarato

Il primo nostro scopo oggi deve essere la pace. La pace è qualcosa di difficile da raggiungere in un mondo come il nostro, nel quale esistono persone come Saddam Hussein e analoghi dittatori. Noi non dobbiamo indietreggiare di fronte al fatto di fare guerre per la pace. In situazioni attuali ciò è inevitabile. È triste, ma dobbiamo farlo, se vogliamo salvare il nostro mondo. La risolutezza è qui di importanza decisiva. [Popper 2001, p. 511]

A nostro avviso, queste parole suonano terribili in quanto pronunciate da un Razionalista.

Innanzitutto siamo assolutamente e radicalmente contro qualsiasi forma di terrorismo, qualsiasi forma di intolleranza fondamentalista. Tutti noi dobbiamo impiegare sforzi per la pace e per la solidarietà e un minimo di consenso fra tutti i popoli e tutti i sistemi politici deve essere tenacemente ricercato, come la assoluta necessità di rispettare i diritti umani nel senso della Dichiarazione delle Nazione Unite. Tutte le culture devono essere rispettate nel modo più ragionevole possibile. Consideriamo anche come un terribile fondamentalismo l’imporre agli altri il proprio modo di vivere per mezzo della potenza militare ed il potere economico. Forse Popper ha dimenticato che Saddam Hussein fu una invenzione degli Stati Uniti per attaccare l’Iran.

Abbiamo visto, molto recentemente, nel 11 settembre 2001 il terribile e deplorevole attacco che ha fatto crollare il World Trade Center in New York ed anche ha colpito l’edificio del Pentagono a Washington, con spargimento di sangue, forse, di circa tremila cittadini. Non si può dimenticare, anche, che l’11 settembre 1973, un colpo di stato ha fato crollare lo stato di diritto nel Cile di Salvador Allende, avvenimento del quale fu complice – si dice – Henry Kissinger, che ironicamente avrebbe in seguito ricevuto il premio Nobel per la Pace. Anche il colpo di stato in Cile va deplorato, in quanto costituisce un vero terrorismo di stato.

Pensiamo che l’analisi fatta da Popper è chiaramente sbagliata perché una delle fonti principali di intolleranza non è nemmeno considerata: il progetto egemonico di dominazione che recentemente è diventato ancora più esplicito con la dottrina Bush della guerra preventiva, la quale costituisce una gravissima presa di posizione intesa ad umiliare i popoli. E se è vero che l’atteggiamento degli intellettuali deve essere ispirato alla modestia, l’arroganza è il peggio che possiamo fare. La situazione in Medio Oriente è un esempio concreto della incompetenza dell’arroganza. Ma torniamo alla intervista allo Spiegel. Facciamo attenzione a questa parte della intervista:

Spiegel: Gli Americani dovrebbero attaccare di nuovo Saddam, se ci fossero indizi che egli si sta procurando la bomba?

Popper: E non solo Saddam. Per questi casi ci dovrebbe essere una specie di truppa di pronto intervento del mondo civilizzato. Seguitare a fare i pacifisti nel vecchio senso sorpassato sarebbe proprio una follia. Noi dobbiamo fare guerre per la pace. E ovviamente nel mondo meno crudele. L’uso della bomba – dato che di forza si tratta – deve venir impedito con la forza.

Spiegel: Lei parla presso a poco come gli strateghi del Pentagono, i quali vogliono un nuovo ordine del mondo nel segno della Pax americana, che allo stesso tempo tiene a bada anche la concorrenza economica giapponese ed europea.

Popper: Ritengo delittuoso parlare in questo modo. La necessità di impedire la guerra nucleare non deve venir mischiata con questione economiche. Noi dovremmo darci da fare e impegnarci così attivamente in questa Pax americana da farla diventare una Pax civilitatis. Questa, semplicemente, è ciò che è necessario nella situazione attuale. Non si tratta di bagattelle, ne va piuttosto della sopravvivenza dell’umanità. [Popper 2001, p. 513]

Non è possibile essere d’accordo con "una specie di truppa di pronto intervento del mondo civilizzato", perché questo è un programma egemonico. Credo che sia un pericolo ancora maggiore, e del tutto incompatibile con la pace, per non dire dell’autonomia dei popoli. E questa Pax americana sarebbe molto probabilmente una globalizzazione che indebolirebbe gli stati nazionali. Una prova di come una truppa di questo genere può essere un pericolo per la pace, si è vista in questo mese di marzo del 2003, quando l’Iraq ha subìto un attacco anglo-americano senza l'autorizzazione delle Nazioni Unite – un fatto che ha costituito una pericolosa violazione del diritto internazionale. Non può essere questa, ovviamente, una pace autentica. Ma la posizione di Popper è completata da una dichiarazione ancora più grave:

Spiegel: Lei, in ogni caso, non vorrà mica contestare il fatto che in vaste zone del terzo mondo c’è una miseria di massa?

Popper: No. Ma questo è un fatto che va principalmente riportato alla stupidità dei dirigenti dei diversi Stati della fame. Abbiamo liberato questi Stati troppo rapidamente e in modo troppo primitivo. Questi Stati non sono Stati di diritto. La stessa cosa accadrebbe se si lasciasse a se stesso un asilo infantile. [Popper 2001, p. 515]

È stupefacente che un importante filosofo come Popper che ha combattuto una così bella lotta contro il positivismo della Scuola di Copenhagen, ed è stato implacabile nella sua adesione al realismo nella fisica, la pensi proprio così. Infatti, è vero che la stupidità dei dirigenti degli Stati dittatoriali è immensa e deplorevole, ma questa proprietà non appartiene solo a loro. Sfortunatamente è una stupidità che esiste dappertutto. E non dobbiamo dimenticare che anche all’interno di questi Stati ci sono durissime lotte a favore dello stato di diritto, e che esse non sono appoggiate dalle democrazie occidentali quando tale appoggio non è in armonia con i loro interessi economici. Per quanto riguarda, poi, la supposta ‘eccessiva rapidità’ della ‘liberazione’, è difficile credere che un filosofo illuminista, difensore dell’autonomia del pensiero, possa fare l’apologia della colonizzazione. Il paragone con l’"asilo infantile" non va affatto d’accordo con la tesi del Sapere aude kantiano e la dignità del pensiero nel senso di Pascal. Come direbbe Einstein, i popoli non devono seguire la moda come i cavalli.

A questo punto sarebbe importante argomentare che la coesistenza delle due posizioni di Popper non è un semplice caso. Il Popper difensore del razionalismo e del realismo tenta di dare una giustificazione razionale del Popper difensore del liberismo economico. La libera iniziativa nel campo economico accompagnata dal minimo controllo possibile da parte dello stato sarebbe, secondo lui, l’espressione propria della razionalità in questo campo. Ma Popper non spiega perché questo liberismo economico debba implicare anche una sorta di paternalismo epistemologico ("se si lasciasse a se stesso un asilo infantile"!). Questo, come abbiamo visto, non si può conciliare con la tesi del Sapere aude kantiano, né con la dignità del pensiero nel senso di Pascal, e neppure con la libertà e autonomia nel pensiero di Einstein.

Abbiamo discusso la critica dei Romantici per quanto riguarda queste difficili questioni e possiamo dire che su diversi punti non siamo d’accordo né con Popper, né tanto meno con i Romantici. C’è però un punto sul quale siamo d’accordo con Popper. La sua critica contro chi vuole ingannare gli altri (come direbbe Schopenhauer) mettendoli in un pastíccio concettuale per mezzo di parole pompose che sembrano significare cose molto importanti ma che invece non significano nulla. La tradizione cartesiana della chiarezza e della distinzione per quanto riguarda i discorsi degli intellettuali costituisce una cosa molto positiva. Anche se i problemi sono complessi e non ci si presentano in maniera docile alla comprensione chiara e distinta, noi dobbiamo – come dovere morale, etico e di modestia – essere chiari il più possibile. Soltanto così possiamo favorire la discussione critica e razionale. Popper [2001, p. 293] prende l’esempio di Bertrand Russell – filosofo e matematico – come "il nostro maestro insuperato [...] anche quando non si può essere d’accordo con lui, lo si deve ammirare. Parla sempre chiaramente, semplicemente e direttamente." Secondo Popper, molto diverso da Bertrand Russell fu il filosofo tedesco Hegel. Nel suo famoso saggio La società aperta e i suoi nemici (cap. 12) Popper sferra un feroce attacco contro Hegel. Secondo lui, Hegel era un impostore, un truffatore al servizio di Federico Guglielmo di Prussia. Popper ironizza sulle definizioni date da Hegel sull’elettricità e sul calore che rivelano, a suo parere, una grande disonestà intellettuale. Anche il parere di Schopenhauer su Hegel non era diverso. Su questo punto, però, non c’è consenso fra gli intellettuali, perché in diversi circoli culturali Hegel è ancora abbastanza ammirato.

Hegel ha sostenuto che si dovevano separare la logica e la matematica dalla filosofia [1978, p. 12]:

Logical deduction, a method commended by Leibniz, is certainly an essential characteristic of the study of positive law, as of mathematics and any other science of the Understanding, but this deductive method of the Understanding has nothing to do with the satisfaction of the demand of reason or with philosophical science. (HEGEL, 1978, p. 12)

Come possiamo constatare, Hegel fece un grande sforzo per convincere e persuadere le persone che non c’era rapporto tra le esigenze della ragione e la scienza filosofica da un lato, e la logica formale e la matematica d’altro. Questa è una opinione insostenibile. La storia ci mostra appunto il contrario: Leibniz e Cartesio furono grandi scienziati, grandi filosofi e grandi matematici. Quella di Hegel è un’opinione che non può essere presa sul serio dopo i tanti eventi importantissimi nella storia e nell’epistemologia della matematica, come la nascita delle geometrie non euclidee, la dimostrazione del teorema di Gödel, il conflitto fra le scuole fondazionali sulla natura della conoscenza matematica e così via. La Ragione Matematica è senz’altro una parte essenziale della Storia della Razionalità, e la modernità è impensabile senza la matematica. Tutti quelli che appartengono ai romantici oppure ai neoromantici, o addirittura ai cosiddetti postmoderni hanno un atteggiamento molto pessimista circa il ruolo della scienza empirica e della matematica. Per esempio, Horkheimer e Adorno hanno scritto tante cose negative sulla matematica e hanno affermato addirittura che "Illuminismo è Totalitarismo". Però, recentemente e con molta ironia, Sokal ha mostrato la ridicola pomposità e perversità intellettuale dei postmoderni, o almeno di una parte di essi.

Ispirati al libro di Rossi [1989] e al pensiero di Popper abbiamo presentato in un recente convegno (Austrilino et. al. 2001a) un lavoro nel quale argomentiamo contro due tendenze estreme per quanto riguarda il ruolo della scienza nel mondo moderno. Secondo il nostro parere né la reazione neoromantica contro la scienza, e neanche l’apologia trionfalista della scienza costituiscono un percorso raccomandabile per la formazione delle nuove generazioni. Collegato a questo lavoro, ne abbiamo presentato un altro (Austrilino et al. 2001b) nel quale argomentiamo a favore di un atteggiamento più pluralistico per quanto riguarda l’insegnamento della meccanica quantistica. Entrambi lavori si orientano verso la tesi della temperanza e dell’equilibrio. Entrambi cercano di mostrare che l’istruzione non deve lasciarsi sottomettere dal fascino dell’assurdo, dell’autoritarismo e della dissoluzione del mondo reale. Solo un atteggiamento razionalista e realista che cerca la consapevolezza può portare a un mondo migliore. Ma un mondo migliore richiede anche la saggezza, e non possiamo dimenticare che appannaggio della saggezza è l'etica, che deve governare i rapporti umani. Soltanto la saggezza, e quindi l'etica, ci permette di dirímere i conflitti tra i ‘fondamentalismi’ e stabilire i limiti secondo la regola aurea: essere tolleranti con tutte le manifestazioni della pluralità, ma essere intollerante con l’intolleranza. Altrimenti saremo tutti distrutti. Sebbene ci possa essere una "guerra giusta" come reazione legittima alla intolleranza e all'aggressione da parte di altri, la pace e la giustizia devono essere tenacemente ricercate con saggezza. Questo ci sembra il solo percorso sostenibile per il futuro. E qui abbiamo finito la nostra critica razionale contro Popper e i suoi avversari romantici e neoromantici.

6. Può la scienza essere democratica?

Dopo tutto quello che abbiamo considerato finora, è possibile che siamo in condizione di dare una risposta, sebbene parziale, alla domanda: che cosa è l'istituzione della scienza?, e anche alla domanda: può la scienza essere democratica?

Se prendiamo come democratica un'istituzione, una società, oppure una comunità nelle quale il principio di Montesquieu della divisione ed armonia fra i poteri sia una caratteristica centrale, allora possiamo dire che le differenze fra una società scientifica e una società democratica sono abbastanza evidenti. L'istituzione della scienza è dominata dai "gradi capi" (big boss) e ci sembra giusto dire che essi appartengono allo stesso tempo all'‘esecutivo’, al ‘legislativo’ e al ‘giudiziario’. Sono loro che controllano i temi di ricerca, le mode scientifiche, le carriere e le riviste principali. L'argomento spesso sentito è che la scienza è centrata sul principio del merito, e che questa circostanza ha la conseguenza che soltanto quelli che sono pari per dignità scientifica possono formare il gruppo dell'élite dirigente, quella che deve fare le leggi che regolano la disciplina dell'attività scientifica, eseguirle, e anche giudicare le situazioni di conflitto. Sebbene il sistema della peer review sia una specie di miscela fra merito e democrazia, le decisioni più importanti sulla politica scientifica sono abbastanza concentrate in poche persone.

La separazione dei poteri è necessaria per fornire la garanzia di una categoria assolutamente centrale nella società democratica che è la libertà. L'opposto della separazione dei poteri è la loro concentrazione in poche mani, il che porta alla tirannia. Nella società democratica il principio fondamentale è la libertà, e non propriamente la virtù o il merito. Però tirannia significa proprio la mancanza di libertà che risulta, come abbiamo detto, dalla concentrazione dei poteri in poche mani. Se prendiamo questo quadro di riferimento per giudicare l'eventuale carattere democratico o non della scienza, allora possiamo dire che le comunità scientifiche non sono democratiche nel senso proprio di Montesquieu, ma neppure tiranniche. Di solito, le comunità scientifiche costituiscono una combinazione abbastanza singolare fra libertà e merito.

Ma non si può omettere di considerare che il ‘merito’ è attualmente giudicato in senso molto ristretto, e che da ciò conseguono diverse gravissime distorsioni. Per esempio, uno scienziato ‘normale’ nel senso kuhniano, che sia molto produttivo ma esclusivamente inserito nell’attività ‘normale’, gode di un prestigio in seno alla comunità scientifica considerevolmente superiore a quello di un altro scienziato che lavori nella didattica, nella divulgazione e nella riflessione interdisciplinare, e in larga misura ciò è indipendente dalla capacità intellettuale di ambedue. Collegata a questa distorsione ce n’è un’altra ancora più grave, che consiste nella scelta dell’élite futura per decisione sovrana e anzi assoluta dell’élite attuale, decisione che avviene non sulla base di ragioni esclusivamente intellettuali, e neppure per elezione, ma per cooptazione politica. Non lasciarsi cooptare per qualche ragione etica oppure per il principio di autonomia può significare il diventare vittima di grado di emarginazione. Questa importantissima circostanza solleva un grosso problema e seri dubbi sul carattere democratico della comunità scientifica.

Se la scienza è per lo più normale nel senso kuhniano della parola, allora la grande maggioranza degli scienziati deve obbedire ai pochi che controllano l'egemonia del paradigma, e cosi lo spazio democratico diventa abbastanza limitato, a causa dalla spada di Damocle che incombe sulla testa degli eventuale eretici. Se invece il vero metodo della scienza è la critica, ossia la discussione critica secondo il metodo delle congetture audaci e confutazioni rigorose, allora l'istituzione della scienza è profondamente democratica, perché in linea di principio tutti quanti hanno l'opportunità di esercitare il loro spirito critico senza severe restrizioni, e cosi partecipare al processo della democrazia scientifica.

Come possiamo constatare, entrambi i quadri descritti sopra sono troppo esagerati e non corrispondono bene alla realtà, sebbene l'istituzione della scienza sembra anche contenere qualche elemento delle due situazione considerate.

Se appannaggio della discussione critica è la razionalità e questa esige una pratica democratica e aperta, allora dovremo concludere che per renderla possibile abbiamo bisogno di fare intervenire la questione etica. L’etica deve essere una questione centrale. In questo senso l’economista indiano Amartya Sen (Premio Nobel per l’economia) ha argomentato che l’allontamento del’economia dall’etica è stato dannoso per la stessa economia. L’adozione della razionalità utilitarista ha implicato la riduzione del concetto di benessere (welfare state) alla mera categoria di utilità. Sen argomenta anche che Adam Smith è stato malinteso. Secondo Sen, l’interpretazione dominante secondo la quale Adam Smith ha separato l’economia dalla etica è sbagliata. Adam Smith era professore di filosofia morale all’Università di Edimburgo in Scozia, e avrebbe dovuto essere schizofrenico per fare una tale separazione. In altre parole possiamo dire che secondo Sen l’ermeneutica smithiana fatta dai suoi interpreti è povera e piena di malintesi e così non è paragonabile alla ricchezza e profondità del pensiero di Smith. Sfortunatamente, nel contesto dell'atteggiamento utilitarista la questione etica è considerata meramente un'appendice. Possiamo vedere che un atteggiamento lontano dall'etica ha giocato un ruolo piuttosto negativo nel contesto dello sviluppo di tutta la scienza, e non soltanto della scienza ma anche dei rapporti umani nel senso ampio del termine.

Per quanto riguarda la tesi di Feyerabend della necessità della separazione fra Stato e Scienza, a cui abbiamo fatto riferimento nell’introduzione, possiamo dire che essa è considerata una proposta molto radicale perché solleva grossissimi problemi. Tutte le costituzioni nazionali hanno come principio basilare l’istruzione, la salute, la scienza, la tecnologia, la sicurezza nazionale e così via. In altre parole, l’istruzione, la salute, la scienza, ecc. sono politiche di Stato e non soltanto politica di governo. Se la separazione fra Stato e Religione ha rappresentato un duro colpo per il fondamentalismo religioso – che ancora persiste nel mondo – che cosa significherebbe una separazione completa fra Stato e Scienza, se tutti i modelli di sviluppo non prescindono, in qualche grado, né dalla scienza né dall’istruzione scientifica?

Ciò nonostante, la posizione di Feyerabend include una critica abbastanza importante contro l’aura di eccellenza della comunità degli scienziati posta a confronto con persone appartenenti a comunità diverse. Feyerabend argomenta che anche il più banale risultato scientifico è presentato come circonfuso da questa aura. Questo certamente favorisce il mito della superiorità della conoscenza scientifica espressa nella massima extra scientiam nulla salus, e di conseguenza l’apologia trionfalista della scienza.

La nostra particolare posizione rifiuta entrambe le posizioni: sia l’apologia trionfalista della scienza che la reazione romantica e neoromantica contro la scienza. E pensiamo che questo sia il cammino più ragionevole.

L'utopia dello sviluppo sostenibile dell'umanità richiede una conoscenza piena di consapevolezza, ma congiunta con la saggezza, perché oggi una conoscenza priva di saggezza è la cosa più pericolosa, in quanto può portare alla distruzione di tutta la civiltà e, anzi, di tutta la vita sulla Terra. L'esempio della guerra scatenata dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra contro l’Iraq nel marzo 2003 è una prova assoluta di mancanza di saggézza. Per fortuna la maggioranza delle persone in tutto il mondo (forse anche negli Stati Uniti e in Inghilterra) sono contro questa insensatezza e follia. Con il proselitismo e la propaganda ingannevole di voler "liberare" il popolo iracheno dalla tirannia di Saddam Hussein, la dirigenza angloamericana nasconde lo scopo vero dell’intervento militare, che è consolidare l'egemonia geopolitica degli Stati Uniti e controllare le riserve petrolifere degli altri paesi.

Gli scienziati che hanno venduto l’anima al diavolo accettando di lavorare nei progetti della ricerca bellica sono anch’essi corresponsabili di questa barbarie. Se la scienza in quanto conoscenza è una bella cosa, dobbiamo anche dire che l'atteggiamento degli scienziati nella ricerca militare che si sostiene su una deprecabile logica utilitarista porta alla degradazione della dignità umana e dei rapporti fra gli uomini.

Se la scienza normale, a causa della povertà di spirito dei suoi praticanti e della spada di Damocle del paradigma dominante (nonostante la sua necessità nel contesto della logica utilitarista della divisione del lavoro), può difficilmente essere democratica, in quanto esclude libertà e autonomia, ci domandiamo: che cosa accadrebbe alla scienza bellica normale, nella quale oltre alle altre caratteristiche della scienza normale si ha, in più, un attaccamento ancora più rigido al profitto ed agli interessi del mercato delle armi?

Ma una scienza bellica straordinaria sarebbe ancora più pericolosa. Per tutto ciò l'etica deve essere assolutamente centrale in tutta l'attività scientifica, se questa deve portare in maniera autentica alla dignità e all'elevazione dello spirito umano. Questa etica non può essere utilitarista, e così in linea di principio è sempre possibile credere nell'utopia della società planetaria e della società scientifica del futuro come entrambe democratiche e nelle quali lo spirito umano possa elevarsi.

Ringraziamenti

È un grande piacere ringraziare Marco Mamone Capria per la sua critica che mi ha fatto riflettere sul diverse punti di questo lavoro.

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