LETTERA APERTA DI MARCO MAMONE CAPRIA
Perugia, 19 marzo 2013
Cara Anna Stancanelli,
rispondo sinteticamente a qualcuno dei commenti del prof. Battaglini, anche perché ho visto che lei ha preparato una risposta molto più dettagliata e ampia. Mi fa piacere che, grazie alle sue insistenze, Battaglini si sia deciso ad impegnarsi in un dialogo scritto, firmato e documentabile, in merito alla sperimentazione animale (d'ora in poi: vivisezione) perché questo è quanto i fautori della vivisezione (d'ora in poi: i vivisezionisti) cercano il più possibile di evitare. Ho cercato di sollevare la discussione a un piano più generale, che possa interessare anche chi non conosca nessuno di noi tre, e rendere la lettura di quanto segue utile anche a chi non abbia seguito l'intera corrispondenza.
1. Stabulario e Comitato Etico FVG
Il responsabile di uno stabulario per animali destinati alla vivisezione non è verosimilmente la persona più disponibile a mettere in dubbio che tale struttura debba essere mantenuta e sovvenzionata. È in particolare probabile che tenderà a dare la propria approvazione alla maggior parte dei progetti sperimentali, se non a tutti (so di che cosa parlo, perché per 6 anni ho fatto parte del comitato etico della mia università). In questo senso l'accusa di conflitto di interesse è fondata. Meglio sarebbe se il responsabile dello stabulario svolgesse, occasionalmente, funzioni di consulenza tecnica del comitato etico, senza esserne membro.
2. Ricerca di base e vivisezione
Qual è la percentuale di articoli di “ricerca di base” che fanno uso di animali? Come ho spiegato l'anno scorso nel mio articolo “Difendere la vivisezione come 'ricerca di base'” (che si può trovare qui), non è una stima facile, «in quanto la trasparenza dei dati sui progetti di ricerca approvati non è affatto quella che sarebbe desiderabile», ma ipotizzavo (in accordo con altri studiosi, lì citati) che fossero «almeno la metà». Battaglini si attesta, sia pure con un conteggio molto approssimativo, a «meno del 30%».
Non mi sembra il caso di entrare in una disputa di dettaglio su queste cifre poiché, come spiegava l'editoriale dedicato all'articolo di Contopoulos-Ioannidis et al. 2003, «even if the authors were to underestimate the frequency of successful translation into clinical use by 10-fold, their findings strongly suggest that, as most observers suspected, the transfer rate of basic research into clinical use is very low» (corsivo aggiunto).
Quindi anche se la ricerca di base che usa animali fosse il 30%, e anche assumendo (per puro amore di discussione) che le ricerche con traduzioni cliniche di successo fossero solo quelle che utilizzano animali, la proporzione di 1 su, diciamo, 8000 articoli sarebbe lo 0,0125%, che è nettamente meno di quella “percentuale dello 0,004% moltiplicata per 10” che l'editoriale giudica, giustamente, «very low».
Per altri sviluppi, considerazioni e riferimenti rimando al mio articolo sopra citato.
3. I premi Nobel
Pensavo che questo pseudoargomento fosse ormai morto e sepolto, ma evidentemente non è così. Devo anche constatare che la stessa denominazione del premio Nobel in questione fatica ad essere citata correttamente: si chiama «The Nobel Prize in Physiology or Medicine». Siamo tutti d'accordo che “e” non è la stessa cosa che “o”? Me l'auguro.
Il “premio Nobel per la fisiologia o la medicina” è stato istituito nel 1895, in un'epoca in cui secondo l'ideologia dominante le ricerche in fisiologia (quelle che oggi si chiamerebbero, appunto, “ricerche di base”) sarebbero state una condizione necessaria e sufficiente, salvo eccezioni, per fruttuose applicazioni cliniche: cioè per combattere o prevenire le malattie. Quando dico che si trattava dell'ideologia dominante, non vorrei che ci si dimenticasse che essa è stata contestata da almeno un secolo e mezzo da illustri scienziati. Per esempio, ne fu un deciso oppositore una delle maggiori glorie italiane in medicina, Augusto Murri (1841-1932). Poiché nelle facoltà di medicina esistono raramente corsi di storia della medicina, è probabile che la maggior parte degli studenti (e, ahimè, dei loro docenti) non sappia niente di tutto ciò.
Comunque è chiaro che, dietro l'ideologia ufficiale, il dubbio che una scoperta “da Nobel” in fisiologia non si traducesse solitamente in una scoperta “da Nobel” in medicina era sufficientemente diffuso già al momento di istituire questo premio: se no non avrebbero messo la “o”. C'è un'altra circostanza importante, che rafforza questa interpretazione. Come si sa, i premi Nobel vengono dati (in tutti i settori) anche molti anni dopo la scoperta che ne fornisce la motivazione. Quindi senza quel dubbio si sarebbe potuto dire semplicemente: “premio Nobel per la medicina” (come la maggioranza dei giornalisti erroneamente lo chiamano), e conferire il premio, eventualmente in condivisione, anche a quei “fisiologi” le cui scoperte avevano fatto da base, dieci o vent'anni dopo, a importanti applicazione cliniche. Così non è stato.
È in effetti ben noto che la linea del Karolinska Institutet è stata di premiare, nel caso della medicina, scoperte teoriche invece che applicative, in contraddizione con l'indicazione di Alfred Nobel che si premiassero le scoperte che avevano dato «il massimo beneficio all'umanità». È un fatto così noto (almeno a chi fa un piccolo sforzo per informarsi) che anche su Wikipedia si legge, non senza ironia: «True to its mandate, the Committee has selected researchers working in the basic sciences over those who have made applied contributions» (http://en.wikipedia.org/wiki/Nobel_Prize_in_Physiology_or_Medicine, corsivo aggiunto).
In breve: il premio Nobel “per la fisiologia o la medicina” nasce dall'ideologia vivisezionista combinata con la consapevolezza tra i ricercatori del settore che anche le più prestigiose ricerche “di laboratorio” possono non tradursi in applicazioni cliniche, anche su un lunghissimo arco di tempo. Nessuna meraviglia, dunque, che molte delle ricerche premiate col Nobel non hanno alcun diritto ad essere considerate pietre miliari nel progresso medico e, viceversa, che scoperte che senza il minimo dubbio lo sono non sono mai state insignite del premio.
Nel dibattito a Trieste avevo citato la scoperta che il fumo di tabacco è cancerogeno. Ogni anno muoiono in tutto il mondo un milione di persone per cancro provocato dal fumo di tabacco, che rappresenta il singolo maggiore fattore di rischio per lo sviluppo di un tumore (gli è attribuito il 22% delle morti per cancro nel 2008). Convenzionalmente (cioè tenendo conto solo del secondo dopoguerra), la prova ufficiale di questo nesso è attribuita a Richard Doll e Austin Bradford Hill, con una prima messa a punto apparsa nel 1954 sul British Medical Journal, e importanti contributi successivi dovuti anche a Richard Peto.
Ebbene, nessuno di questi autori, il cui lavoro ha avuto un impatto sulla riduzione delle morti per tumore verosimilmente superiore a quello dovuto a tutti gli altri progressi nella ricerca sul cancro messi insieme (vedere per esempio qui), è stato onorato con il premio Nobel. C'è bisogno di dire altro?
Ovviamente ci vorrebbe un libro per entrare nei dettagli di ogni premio Nobel “per la fisiologia o la medicina” e sceverare il grano (poco) dal loglio (molto), e in particolare determinare (compito niente affatto banale) per ognuna delle scoperte rilevanti per la medicina in senso proprio e premiate col Nobel quale sia stato esattamente, da un punto di vista storico, il ruolo della vivisezione. Ma da quanto precede è chiaro che il libro in questione dovrebbero scriverlo quelli che citano la “lista dei Nobel” come se fosse un argomento, non quelli che, per le ragioni anzidette, sono perfettamente in diritto di dubitare del suo significato nel contesto della controversia sulla vivisezione.
A parte la questione storica, però, da molti anni, e ultimamente sulla base di studi come quello citato al N. 2, possiamo affermare con certezza non solo che l'ideologia vivisezionista è falsa, ma che addirittura è vero l'opposto di quanto sostiene: cioè, che salvo gli inevitabili scherzi del caso, le ricerche su animali servono solo a fare da base... ad altre ricerche su animali. La più recente aggiunta a una già copiosa letteratura è l'importante articolo Seoka J., Shaw Warren H., Cuenca A. G. et al., “Genomic responses in mouse models poorly mimic human inflammatory diseases”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 11 febbraio 2013, doi: 10.1073/pnas.1222878110 (liberamente accessibile qui ; i miei commenti al riguardo si trovano nell'articolo “Animalismo, vivisezione, elezioni”).
Capisco bene che queste sono verità difficili da digerire per chi ha impegnato la propria reputazione nell'esecuzione o collaborazione a esperimenti su animali. È per questo che penso che tali persone dovrebbero mettersi da parte, e favorire la crescita di una generazione di studiosi privi di questa ipoteca intellettuale e morale. La legge 413/1993 sull'obiezione di coscienza avrebbe permesso una transizione morbida, ma la grande maggioranza delle università ha invece preferito commettere a oltranza il reato di omissione di atti d'ufficio, come ampiamente documentato qui. Purtroppo anche i giornalisti scientifici si sono ben guardati dal far presente questa scandalosa situazione, e tuttora preferiscono per lo più – un po' in tutti i campi ma soprattutto in quello medico-sanitario – fare da cassa di risonanza dell'ortodossia scientifica, il che non favorisce certo la crescita di un'opinione pubblica realmente informata sul mondo della scienza.
Quando rifletto alla luce di questi fatti sulla reale disponibilità dei vivisezionisti accademici e dei giornalisti “ufficiali” a un confronto razionale con chi critica la vivisezione, mi viene in mente una storiella su un famoso scassinatore americano a cui un prete avrebbe chiesto, in carcere: “Ma perché svaligi le banche?”. E lui: “Perché è lì che sta il denaro”.
4. Anacronismi scientifici e accademici
La vivisezione è un anacronismo, come la legge di Haeckel e la famosa, fasulla sequenza di disegnini, della quale mi meraviglio, ma solo fino a un certo punto, se viene riproposta come se fosse una prova di qualcosa. La debolezza di tale argomento è peraltro così risaputa che si può trovare in rete un'autorevole sintesi della questione da parte di Scott Gilbert, autore di Developmental Biology, un notissimo libro di testo.
Ma nella lettera di Battaglini c'è pure un altro anacronismo, di natura diversa, e che mi sembra giusto sottolineare per il suo significato generale: me lo merito davvero il titolo di “professore” che lei ha avuto la bontà (o la malaccortezza) di attribuirmi? Per negarlo, Battaglini si richiama a una sentenza del Consiglio di Stato del 1985, sui criteri che regolano l'assegnazione del titolo di “professore”. Ora la normativa più recente sulla spinosa questione è una legge di appena... vent'anni dopo, e precisamente la legge del 4 novembre 2005, n.230 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, 5.11.2005, n.258), la quale recita all'art. 11 (corsivo mio):
http://www.miur.it/0006Menu_C/0012Docume/0098Normat/5289Nuove_.htm
«11. Ai ricercatori, agli assistenti del ruolo ad esaurimento e ai tecnici laureati di cui all'articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, che hanno svolto tre anni di insegnamento ai sensi dell'articolo 12 della legge 19 novembre 1990, n. 341, nonché ai professori incaricati stabilizzati, sono affidati, con il loro consenso e fermo restando il rispettivo inquadramento e trattamento giuridico ed economico, corsi e moduli curriculari compatibilmente con la programmazione didattica definita dai competenti organi accademici nonché compiti di tutorato e di didattica integrativa. Ad essi è attribuito il titolo di professore aggregato per il periodo di durata degli stessi corsi e moduli. Lo stesso titolo è attribuito, per il periodo di durata dell'incarico, ai ricercatori reclutati come previsto al comma 7, ove ad essi siano affidati corsi o moduli curriculari.»
In base a questa legge il titolo di “professore” mi spetta di diritto: non ci tengo affatto, ma tale è la normativa vigente. È vero, a rigore si dovrebbe dire “professore aggregato”, ma la specificazione “aggregato” si abolisce nell'uso comune per la stessa consuetudine che fa sì che i professori associati e i professori ordinari vengano detti, semplicemente e unitariamente, “professori”.
Ciò detto, do in generale pochissima importanza ai titoli accademici, che vanno sempre giudicati sulla base delle procedure istituzionali attraverso cui sono elargiti, e dello specifico processo che ha portato ogni singolo individuo a conquistarne uno. Da questo punto di vista particolarmente sospetti sono, purtroppo, quelli guadagnati in Italia, che vanta uno dei sistemi di progressione della carriera più disfunzionali e corrotti che abbiano mai preso piede nell'università di qualsiasi epoca storica e di qualsiasi paese. Per questa ragione preferisco limitarmi a valutare gli argomenti nel loro merito, e con questa lettera aperta spero di aver chiarito la qualità di alcuni di quelli proposti a favore della vivisezione.
Cordiali saluti,
Marco Mamone Capria
[correzione di un refuso (“N.1” al posto di “N.2”) : 4 aprile 2013]